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Autore: My Pride    17/03/2011    3 recensioni
Sono cresciuto per esser così capace di sorridere anche attraverso il dolore più grande.
«Feh! Avevo bisogno di starmene da solo»
«Tu hai sempre bisogno di startene da solo»
«Non cominciare, Miroku. Non è serata»
[ Prequel della one-shot «Until our wisdom is exhausted» ]
[ Accenni Miroku/Sango, Inuyasha/Kagome e Miroku/Inuyasha ]
[ Missing Moment dei capitoli presenti alla fine del volume sessanta e all’inizio del sessantuno ]
[ Terza classificata al contest «Quando l'amore può vincere anche un destino avverso» indetto da Lady Kid1412 ]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Miroku, Sango, Shippou
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pray to the moon'
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Shade Garden & Sky_1 Titolo della Storia: Shade Garden & Sky
Nome Autore su EFP e sul forum: My Pride
Fandom: Inuyasha

Personaggi Presenti: Un po’ tutti
Pairing: Accenni Miroku/Sango, Inuyasha/Kagome e Miroku/Inuyasha
Tipologia: Log fic [ Non più di tre capitoli ]
Genere: Generale, Malinconico, Vagamente Introspettivo, What if?
Rating: Verde / Giallo
Avvertimenti: Forse vagamente nonsense, Vagamente Hurt/Comfort, Velatamente Shounen ai, Probabile Missing Moment fasullo dei capitoli presenti alla fine del volume sessanta e all’inizio del sessantuno
Nota: Prequel della one-shot Until our wisdom is exhausted
Parole scelte: Bacio, Solitudine, Morte, Luna
Ambientazione presente: Tempio / Montagna
Frase inserita: N°2 “Quando gli esseri umani hanno qualcosa da proteggere, la loro forza si moltiplica a dismisura! Ti batterò grazie al mio sangue umano!”
Breve introduzione: «Feh! Avevo bisogno di starmene da solo».
«Tu hai sempre bisogno di startene da solo», replicai sarcastico, alzando finemente un sopracciglio prima di avvicinarmi maggiormente e sedermi con fare tranquillo accanto a lui, abbandonando lo shakujo al mio fianco.
Lui mi degnò appena di un’occhiata, ritrovandosi a sbuffare per l’ennesima volta e alzare poi lo sguardo verso il cielo nero. «Non cominciare, Miroku», mi freddò. «Non è serata».


INUYASHA © 1997Rumiko Takahashi/Shogagukan. All Rights Reserved.



SHADE GARDEN & SKY  [1] 
 
Sono cresciuto per esser così capace
di sorridere anche attraverso il dolore più grande.
 
01. CHAPTER ONE
UNDER A BLACK AND EMPLY SKY
 

    I miei passi risuonavano sinistramente sulle assi di legno che componevano il pavimento del tempio del Maestro, donandomi una bizzarra sensazione di calma benché l’atmosfera non lo fosse per niente. Nonostante la quiete che vigeva nel tempio, difatti, sembrava quasi che da un momento all’altro potesse succedere qualcosa. Cosa fosse ancora non riuscivo a capirlo, ma non mi sentivo affatto spaventato come avrei dovuto.
    Venni richiamato ben presto da dei rumori che sembravano provenire al di fuori del tempio, proprio nel cortile dinanzi alle scale che conducevano all’entrata principale. Mi accigliai ma, affrettandomi, attraversai l’ala est dell’edificio per raggiungerlo il più in fretta possibile, sentendo, mano a mano che mi avvicinavo, i rumori affievolirsi. Era come se qualcuno avesse cominciato a suonare il Koto
[2] e poi, prima della nota più alta dello strumento, si fosse bruscamente interrotto, lasciando basito l’ascoltatore.
    Il terrore si impossessò di me proprio in quel momento, poiché cominciai a comparare quello stesso improvviso ed assurdo silenzio ad un momento ben preciso della mia vita: l’attimo in cui, da bambino, vidi mio padre morire, risucchiato dal vortice della sua mano destra. Automaticamente guardai la mia, chiudendola a pugno per stringere poi nel palmo il rosario che la sigillava. La quiete prima della tempesta. Era questa l’ansia che, finalmente, cominciò a dilatarsi in tutto il mio essere, scorrendo nelle vene insieme al mio sangue.
    L’agitazione crebbe non appena cominciai ad udire il suono del vento provenire da quella mano stessa, e, scalpicciando sul legno a piedi nudi, corsi; corsi con tutta la forza che avevo in corpo, sentendo quello sforzo mozzarmi il respiro ancor prima di giungere alla sala principale del tempio. Ovunque mi guardassi, non vedevo altro che porte di carta e pareti di legno, come se nell’edificio fosse ormai scomparsa ogni via d’uscita. Fortunatamente, però, più avanzavo, più la strada sembrava spianarsi, sebbene l’ingresso che mi avrebbe condotto in prossimità delle scale del tempio fosse ancora lontano.
    Una trave del soffitto cadde, quasi rischiando di ferirmi, rompendo il pavimento e conficcandosi in esso, rivelando lo scheletro di legno ormai marcio di cui era composto. Alzai automaticamente lo sguardo per evitare altre sorprese, sentendo il suono del vento sibilare sempre più forte ad ogni minuto che passava. Mancava poco. Molto poco.
    A fatica, riuscii a trovare finalmente quel tanto agognato ingresso, venendo investito dalla luce lunare che, dopo tutto quel tempo passato nella semioscurità, sembrò quasi riuscire a ferirmi gli occhi come un piccolo sole. Brillava alta nel cielo sgombro di nuvole con un’intensità inaudita, tingendo i dintorni e bagnandomi il volto con la sua luce. L’erba alta che costeggiava il tempio sembrava d’argento, accecante quasi quanto la luna stessa, e a causa di tutta quella luminosità le ombre sembravano pressoché inesistenti.
    Mi guardai intorno, quasi aspettandomi di vedere qualcosa, avanzando piano mentre gli occhi mi cadevano sulle tegole del tetto del tempio, la maggior parte delle quali si erano rotte ed erano cadute sul ballatoio di legno sottostante. Senza che me ne accorgessi mi ritrovai ad osservare dall’alto la tomba di mio padre, sentendomi ben presto richiamato da delle voci familiari. Voltandomi, sgranai gli occhi, facendo loro cenno di non avvicinarsi. Sembrarono però non capirmi, poiché il primo a farlo fu proprio Inuyasha. Avrei voluto gridargli di non muoversi, di non fare un altro passo se non voleva rischiare che risucchiassi anche lui nel mio vortice, ma quando aprii la bocca per farlo, dalle mie labbra non uscì alcun suono.
    Fu a quel punto che aprii di scatto gli occhi e soffocai un grido nel profondo della mia gola, sentendo il cuore battere all’impazzata contro le pareti del mio petto. Drizzandomi a sedere abbassai lo sguardo per osservare la mia mano destra e la ferita provocatami dall’aura di Naraku, senza riuscire ancora a respirare con regolarità.
    Un sogno. Era stato soltanto uno stupido e maledettissimo sogno. Sempre lo stesso incubo quasi ogni notte, dannazione.
    Traendo un profondo respiro cercai di calmarmi, facendo vagare gli occhi in quel piccolo spazio sgombro da alberi in cui ci eravamo accampati per quella notte. Kagome, Sango e Shippo dormivano ancora placidamente, e persino la piccola Kirara se ne stava tranquillamente acciambellata vicino alla sua padrona. C’era soltanto una persona che mancava all’appello, e quell’ansia che avevo provato prima che mi svegliassi tornò prepotentemente a farmi visita. Ma scossi violentemente il capo, non volendo dar peso ad essa. Era stato soltanto un sogno, mi ripetevo, e non dovevo dunque temere le conseguenze. I miei compagni erano tutti lì. Erano tutti al sicuro.
    Decisi di alzarmi il più silenziosamente possibile, gettando uno sguardo al piccolo falò che scoppiettava allegramente al centro di quell’accampamento provvisorio. Non dovetti nemmeno ravvivarlo, poiché ci aveva già pensato Inuyasha prima di sparire chissà dove. Proprio la notte ideale per farlo, ironizzai, alzando gli occhi verso le fronde sopra di noi per sbirciare attraverso la cappa di fogliame ed osservare così il cielo nero.
    Cosa mi aspettassi di vedere non lo seppi neanche io, poiché la luna, che nel mio sogno era apparsa così vivida e reale, un cerchio perfetto dall’alone argentato che si stagliava contro la coltre celeste, in quel momento non c’era. Si vedeva soltanto quell’enorme manto d’ebano nascosto a tratti dalle cime degli alberi, una coltre scura sulla quale brillava una vaga trapunta di stelle.
    Allora perché non facevo altro che pensare a quell’incubo, forse persino più delle sere addietro? Non seppi darmi una risposta e nemmeno la cercai, afferrando semplicemente il mio shakujo [3] per allontanarmi poi di soppiatto da lì, alla ricerca di Inuyasha. Sentii giusto un piccolo miagolio e mi voltai appena, vedendo Kirara che, ancora un po’ assonnata, mi fissava. Mi portai l’indice della mancina alle labbra per farle cenno di non far rumore, e lei, dopo aver dato vita ad un altro miagolio ed aver quasi rischiato che Sango, sentendola, si svegliasse, si accoccolò nuovamente contro di lei, coprendosi un po’ il musetto con le sue due code.
    Sospirai sollevato e ripresi il mio cammino, inoltrandomi nel fitto sottobosco in cui, solo di tanto in tanto, si udiva il basso richiamo di qualche rapace notturno. Mi ritrovai ben presto a girovagare senza meta, non sapendo dove quello sciocco si fosse cacciato. Sapevo che non avrei dovuto lasciare le ragazze da sole per andare a cercarlo, questo era certo, ma quella notte il più vulnerabile di tutti era proprio lui.
    La Divina Kagome poteva contare sulle sue frecce e sulla sua energia spirituale, Sango sul suo fedele Hiraikotsu - ormai rimesso a nuovo dal vecchio Yakuro Dokusen - e sul supporto di Kirara, e anche Shippo, bene o male, sapeva cavarsela da solo. Quello stupido hanyou, invece, era quasi del tutto inoffensivo in serate come quella. E battere degli youkai a suon di pugni non era l’ideale. Rammentavo sì quel giorno in cui aveva combattuto in forma umana contro Tokajin, il falso eremita, ma ricordavo ancor più la sgradevole sensazione e l’opprimente senso d’abbandono che tutti noi avevamo provato nel crederlo morto con lui. E io non volevo che ricapitasse una cosa del genere.
    Aumentai dunque il passo, stando attento a dove mettevo i piedi onde evitare di inciampare in qualche radice nascosta sotto il terreno. Nonostante non fosse una serata fredda, il mio respiro si condensava in piccole nuvolette di vapore, e l’unico suono che cominciai ad udire, mano a mano che avanzavo, fu soltanto il mio ansimare a fatica a causa della fitta vegetazione e lo scalpiccio dei miei sandali sulle poche foglie morte che ricoprivano il terreno. Incespicavo quasi in continuazione e avanzavo troppo lentamente, mentre sentivo lo strisciare dei primi rettili che fuoriuscivano dalle loro tane nonostante l’alba ancora lontana.
    Mi ritrovai ben presto su uno stretto sentiero irto di piante, probabilmente percorso da ben pochi uomini fino a quel momento, che si inerpicava zigzagando fra quelle immense file di alberi che avevano cominciato a farsi fortunatamente più rade. Le loro cortecce erano del tutto ricoperte di muschio, e le radici erano contorte e nodose, nascondiglio perfetto per piccoli animali.
    Cespugli e rovi crescevano sul lato nord di quel piccolo boschetto, impedendomi il cammino e facendo sì che le maniche della mia kesa [4] si impigliassero nei rami sporgenti, ma capii di essere sulla buona strada proprio quando vidi un pezzo di stoffa del kariginu [5] di Inuyasha. Difatti non lo trovai molto distante da lì, seduto sull’erba ai limitari di quel boschetto, con lo sguardo perso nel vuoto. Il debole vento che si levava di tanto in tanto gli gonfiava le vesti e gli scompigliava dolcemente i lunghi capelli neri, facendoglieli a volte ricadere davanti al viso senza che lui se ne curasse molto. Sembrava assorto in chissà quali pensieri, come ogni qual volta diventava umano o come quando si ritrovava a pensare alla defunta Kikyo. La sua Kikyo.
    Indugiai un po’, ma forse fu al pensiero che anche in quel momento stesse ricordando lei a farmi indietreggiare del tutto, quasi avessi cambiato idea e volessi lasciarlo solo a riflettere.
    «So che sei lì, monaco», si fece però udire lui e, sussultando un po’, fu con le mani alzate che uscii da dietro a quei cespugli, facendo tintinnare di poco gli anelli del bastone quando lo mossi.
    «Accidenti, anche senza quel tuo terribile fiuto sei riuscito a scoprirmi», provai a ridacchiare con fare scherzoso, abbozzando persino un sorriso - che in quel momento reputai io stesso fin troppo falso - nonostante Inuyasha mi stesse dando la schiena. «Per quante volte ti si ripeta che quando sei umano non devi allontanarti da noi, tu fai sempre l’esatto opposto».
    A quel mio dire, lui sbuffò, agitando persino una mano in risposta. «Feh! Avevo bisogno di starmene da solo».
    «Tu hai sempre bisogno di startene da solo», replicai sarcastico, alzando finemente un sopracciglio prima di avvicinarmi maggiormente e sedermi con fare tranquillo accanto a lui, abbandonando lo shakujo al mio fianco.
    Lui mi degnò appena di un’occhiata, ritrovandosi a sbuffare per l’ennesima volta e alzare poi lo sguardo verso il cielo nero. «Non cominciare, Miroku», mi freddò. «Non è serata».
    Gli scoccai un’altra rapida occhiata, decidendo infine di non ribattere e di tacere semplicemente. Se conoscevo abbastanza bene Inuyasha, alla fin fine avrebbe aperto bocca lui. Restammo quindi entrambi in silenzio a fissare la volta celeste sopra di noi, senza cercare in nessun modo di intavolare un discorso ma concentrandoci soltanto ognuno sui propri pensieri. E io di riflettere ne avevo davvero bisogno.
    Non più di pochi mesi addietro, prima che accorciassi ancor più la mia vita risucchiando l’aura velenosa di Naraku, avevo praticamente chiesto a Sango di partorire i miei figli e di passare con me il resto della sua vita. Avrebbe dovuto essere una lieta notizia, un avvenimento che avrebbe dovuto portare gioia nei cuori di entrambi, ma io, sebbene sentissi di amarla, di amarla davvero, sembravo quasi non essere soddisfatto. Era come se qualcosa, o per meglio dire qualcuno, frenasse quella felicità che avrei dovuto provare.
    Che uomo spregevole che ero. Ferire in questo modo i sentimenti sinceri di Sango senza che lei se ne rendesse conto. Probabilmente perché, in fondo in fondo, conoscevo fin troppo bene la causa di quella che era diventata per me una sorta d’indecisione. Il problema era che non volevo ammetterlo a me stesso né tanto meno illudermi. Questo qualcuno aveva ancora un piede in due staffe senza che mi ci mettessi anch’io a confonderlo di più. 
    «Avremmo dovuto rimetterci già in viaggio», si fece sentire d’un tratto la voce di Inuyasha, interrompendo quel sottile silenzio che era regnato fino a quel momento e disfacendo al tempo stesso il filo dei miei pensieri.
    Scossi di poco il capo per riprendermi, sospirando. «Ci rimetteremo in viaggio domattina, non appena potrai muoverti liberamente», ribattei, quasi stupendomi del perché continuassi a stupirmi dei suoi rozzi modi di fare. «Girare a vuoto non ci è comunque d’aiuto».
    «Ma nemmeno starcene fermi lo è», volle aver ragione come un bambino capriccioso. «Mentre noi siamo qui a girarci i pollici, Naraku potrebbe trovare il modo di completare la sfera!»
    A quel suo dire allungai una mano per prendere il mio bastone, picchiettandoglielo subito dopo con poco garbo sulla testa. «Non essere stupido», replicai, senza curarmi delle lamentele che quello scemo di lasciò sfuggire. «Se avesse potuto, l’avrebbe già fatto da un pezzo», sospirai ancora, aggrottando di poco le sopracciglia prima di assestare un altro colpo, venendo stavolta allontanato da lui che, com’era prevedibile, mi inveì contro. Ma io non vi diedi peso, continuando «Anch’io sono impaziente quanto te, Inuyasha, ma dobbiamo restare calmi e ragionare». E se lo dicevo io, un uomo la cui vita era praticamente appesa ad un filo, voleva significare molto. Però Inuyasha ai ritrovò a sbuffare e ad alzarsi in piedi, poggiando una mano sull’elsa della sua Tessaiga.
    Abbassò poi lo sguardo verso di me, fissandomi attentamente con quei suoi occhi non più dorati ma marroni. «Tipico», sbottò. «Sempre a prendervela comoda, voi umani».
    Nonostante tutto, riuscì a strapparmi un sorriso. «Abbiamo ritmi diversi dai tuoi», ci tenni a ricordargli sebbene lo sapesse, alzandomi poi a mia volta. «Ci converrebbe tornare dalle ragazze, piuttosto», soggiunsi, sistemandomi qualche piega della kesa prima di scoccare un’occhiata ad Inuyasha e sorreggere meglio il mio shakujo. «Abbiamo bisogno anche noi di riposo».
    «Tu ne hai bisogno, forse», ci tenne ad avere l’ultima parola, precedendomi in quella fitta boscaglia subito dopo ed imprecando quando le maniche dell’abito cominciarono ad impigliarsi nei rovi. Io lanciai un ultimo sguardo a quella volta scura che ci sovrastava, reprimendo dentro di me qualsiasi pensiero o sentimento.
    La nottata sarebbe stata ancora lunga e popolata da incubi, ne ero certo.





[1] Titolo ispirato ad un’antologia di doujinshi chiamata per l’appunto “Shade garden and sky”, alla quale hanno collaborato molte doujika.
 
[2] Strumento musicale tradizionale giapponese appartenente alla famiglia della cetra, derivato dal Guzheng cinese.
Il corpo dello strumento è costituito da una cassa armonica, lunga circa due metri e larga tra i 24 ed i 25 cm, costruita, in genere, con legname di Paulownia (Kiri in giapponese).
Su di essa corrono tredici corde di uguale diametro ed aventi stessa tensione, ognuna delle quali poggia su di un ponticello mobile.
Il koto viene paragonato al corpo di un drago cinese disteso. Per tale motivo le diverse parti di cui esso è formato assumono dei nomi che ricordano quelle del mitico animale.

 
[3] Bastone sacro che portano i monaci buddisti, caratterizzato da degli anelli sulla sommità. Viene utilizzato soprattutto nelle preghiere o, in mani più esperte, come arma offensiva o di difesa.
Il numero di anelli è determinato dalla condizione del suo possessore, sebbene la maggior parte degli shakujo siano costituiti da sei anelli.

 
[4] Il tipico abito scuro indossato dai monaci buddisti, dal sanscrito “Kashaya”, che significa “Colore opaco”.
Viene drappeggiata sotto un braccio e fissata alla spalla opposta. Si pensa che la kesa sia stata modellata in riferimento ad un indumento che il Buddha si cucì da solo utilizzando brandelli di stoffa utilizzati per coprire i cadaveri.


[5] E’ la veste tradizionale indossata dai Kannushi, ovvero i sacerdoti shinto, durante le feste. 



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