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Autore: Nuc    19/03/2011    1 recensioni
Grigia la mattina, grigia l'aria. Grigia la strada che i pullman blu percorrono, e grigie le facce di studenti – sotto pressione, studiano disperatamente, annoiati, assonati. Guardano fuori dal finestrino, i più romantici. Pensano che l'unica cosa che hanno è la bellezza del mondo, di quei rami, di quelle gocce di pioggia, di quelle scritte innamorate sui vetri appannati, che se avessero una Reflex farebbero un sacco di foto al mondo come lo vedono loro.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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nb: salare significa bigiare, saltare la scuola. Comuuunque, spero che qualcuno abbia avuto il coraggio di arrivare fin in fondo XD Se qualcuno commentasse pure, mi si riempirebbe il cuore <3 Oh, e c'è qualche citazione de Le luci della centrale elettrica (nel titolo) e dei Baustelle ("l'unica cosa che ho è la bellezza del mondo, la sola cosa che so è vorrei conservarla per me"). Ora ho finito xD





Grigia la mattina, grigia l'aria. Grigia la strada che i pullman blu percorrono, e grigie le facce di studenti – sotto pressione, studiano disperatamente, annoiati, assonati. Guardano fuori dal finestrino, i più romantici. Pensano che l'unica cosa che hanno è la bellezza del mondo, di quei rami, di quelle gocce di pioggia, di quelle scritte innamorate sui vetri appannati, che se avessero una Reflex farebbero un sacco di foto al mondo come lo vedono loro. Mica come quello squallore del pullman scuro e spento, morto, con voci morte, un silenzio pesante e qualcuno che ogni tanto parla, sottovoce per non infrangerlo. Ci sono quegli studenti di fuori, che il pullman ancora lo aspettano, fuori intrecciati nei giubbetti cappotti piumini tutti uguali, nessuno abbastanza lungo da tenere calde anche le gambe – ma chi ce lo fa fare, alle sette e cinquanta, stare al freddo, e per cosa? Le loro risate li tengono caldi, le attese, e le sigarette più ostentate che necessitate, le bestemmie e i discorsi futili, i ripassi, e quello che canta di prima mattina, che non sta zitto un attimo, Nick, che parla continuamente e tutti lo zittiscono, rimproverano, stai zitto cazzo, c'ho un sonno. Eppure non ci stava mai, zitto. Un po' perché aveva paura del silenzio che era solitudine, e un po' perché nessuno lo voleva davvero zitto: li teneva tutti uniti e dava loro qualcosa a cui pensare, di cui parlare. Riccardo non l'avrebbe mai ammesso, fanculo, ma manco pensato – troppo orgoglioso anche per quello – però era invidioso e riconoscente per le ragazze che aveva conosciuto grazie alle sue chiacchiere, quei dialoghi costruiti che ripetevano all'infinito senza neanche essersi messi d'accordo. Nick e Riccardo stanno sotto la capannetta, quella della fermata, dove si mettono quelli del classico, quelli perfettini vestiti di marca – insieme a Elisabetta Elena Manuela, quelle del quinto ginnasio, e Ludovica e Chiara, quelle del quarto. Ilaria invece si allontanava, con quelli dell'itis, a fumare e bestemmiare con st'ignorantoni, volgari, tipici ragazzi di sedici diciassette diciotto anni. Dall'altra parte invece, c'erano quegli altri dell'itis, a cui nessuno toglieva la denominazioni di volgari, ma non fumavano. Quando hai quell'età, il fumo dice tanto.
«M'accompagni a fumare?» Tutti i suoi amici dell'itis avevano salato e chiunque teme la solitudine nelle più piccole cose. Ilaria temeva di essere vista con una sigaretta, ma più di tutto temeva che avrebbe perso la sua reputazione di cattiva ragazza costruita con questo pseudo-segreto sfoggiato che la univa a Elisabetta. «Non voglio che mi veda Riccardo, che quello lo dice a mamma.»
Elisabetta sapeva che Riccardo sapeva. Quindi era inutile. Ma la accompagna lo stesso – che le rispondeva, se no?
«Mettiti qui che mi copri.»
Elisabetta ci si mette. «Vuoi una?»
«Ci vorrebbe, veramente.»
Ilaria cerca il pacchetto in tasca – non era in quella.
«Lascia perdere, c'ho paura che mi prende il Sposta leggermente lo sguardo dal fumo che usciva dalla sua bocca, che eppure la tentava un po', lo posa in fondo, tra quelli dell'itis che non fumavano, su Francesco, e ce lo lascia – sorride. Era una soddisfazione fissare i capelli ricci di quello. Era bello: non trovava alternative per descriverlo. In realtà non lo era così tanto, aveva quel fascino da rocker che non a tutti piace.
«Tutti quanti hanno salato.»
«Tu no, Alessà? Di solito sei la prima a salare.»
«C'ho compito.»
«Di?»
«Greco sui verbi. Tre sicuro.»
«Appunto.»
Ilaria ride.
«Riccardo non mi vuole coprire.»
«Ma è stupido!»
Eppure Elisabetta lo amava. Ma è stupido!, lo amava. Non era bello neanche lui, okay i suoi gusti erano alquanto discutibili, ma lo amava in un modo fottutamente platonico – era tanto brutto che provare un amore carnale nei suoi confronti era impossibile.
«Che guardi, Elisabetta?»
Si nasconde nel colletto del cappotto sotto al quale sorride di un sorriso innamorato, di quelli che non te lo dico chi è che mi piace e poi te lo dicono. Ilaria capisce maliziosa.
«Chi è?»
Non erano così amiche. Non lo erano affatto. Avevano salato insieme due volte e basta, però si vedevano tutti i giorni, al classico. Elisabetta fa un cenno con la testa – fanculo, magari Riccardo si ingelosisce.
«Scialli?»
«Cazzo dici?!»
Scialli è Riccardo, ma di Riccardi ce ne sono troppi. Scialli è un cognome semplice efficace e ridicolo che solo lui ci si può chiamare. Quindi tutti lo chiamano così.
«E allora chi?»
«Dietro.»
«Ma tra quelli sfigati là?»
Nota un certo disgusto nel suo tono e alza le spalle per non rispondere.
«Oh, gli chiediamo di salare con noi? Tanto un po' di quelli ce li siamo fatti amici l'altra salata...»
«Ma dai.»
«Vi faccio rimanere da soli e parlo con gli amici suoi... qual è?»
«Ma hai detto che Scialli non ti copre.»
«Sì ma ti vuole bene, ti ascolterà se glielo chiedi tu.»
«Mi vergogno.»
«Di Scialli?»
«No, di andarlo a chiedere a lui. E se dice di no?»
E invece dice sì. Ilaria l'aveva chiesto alla persona sbagliata, al suo amico, ma il suo amico guarda Francesco, Francesco lo guarda in risposta, guarda Elisabetta, fa un sorriso malizioso all'amico e annuiscono.
«Si può fare. Dove andiamo?»
Ilaria guarda Elisabetta, Elisabetta guarda Ilaria, mentre Alessio e Francesco le guardano in attesa di risposta.
«Macerata?»
«Col treno?»
«Se no andiamo al centro commerciale?»
«Ok.»
Ilaria ride soddisfatta. «Apposto. Si fa.»
Follie di quindici sedici diciassettenni, non andare a scuola ma per cosa, per un quattro non ancora preso, per una domanda di storia senza risposta, per non dire no a due ragazze maliziose, a due ragazze intelligenti del classico, per non dire no al loro onore di uomini coraggiosi.

I pullman che sono squallidi quando portano a scuola, radiosi quando portano a casa. Covo del senso di colpa quando anziché portare a scuola, portano via, via dal dovere di bravi fanciulli. Una fuga dal dovere, una fuga dall'innocenza.
«Allora? Che è, 'sto silenzio?»
Alessio e Francesco e Elisabetta sono ancora imbarazzati.
«Alessiov, ti posso parlare?»
Ma praticamente parlava solo lei. Che ci era abituata all'imbarazzo delle persone che ancora non conosci, ma pensava di averlo superato dopo aver fumato, dopo che uno le aveva detto ti amo. Ad Alessio disse che quelli lì dovevano combinare qualcosa prima dell'una... mica aveva salato per niente.
«Ma te l'ha chiesto lei?»
«Ma che, non sa niente! Però lasciamoli soli, capito?»
E lo fanno.
E Francesco e Elisabetta stanno soli.


Però nessuno dei suoi sa come iniziare il discorso che sarebbe stato lungo, se fosse cominciato... prima o poi... Ehm.
La musica.
Che unisce i popoli e cazzate varie, non unirà forse due persone?
Elisabetta ci pensa per prima. Le donne sanno sempre manipolare gli uomini come pedine. Sapeva prima di metterle che le cuffie l'avrebbero fatto sentire come se avesse perso l'occasione – ei fu. E alla prossima si sarebbe sbrigato – ei fu. Gli dà l'occasione, la musica. La musica che piaceva a lui. I Led Zeppelin. Una canzone facile, il volume alto che lui li riconosca. La classica, bellissima Stairway to Heaven. Robert Plant non fa in tempo a cantare, che lui se ne accorge, si volta verso di lei. Lei finge di non averlo sentirlo, dopo un po' toglie le cuffie e se lo fa ripetere.
«Ti piacciono i Led?»
E qui comincia.


E poi si prendono la mano e la guardano. E vedono. Come le dita si incrociano tra di loro e come le unghie di lui e quelle di lei sono diverse, e come la pelle è morbida e come si gioca coi pollici, e come poi si impara a considerare quella mano parte di se stessi.

E poi i loro occhi. Ci capitano per caso, tra di loro, però ci rimangono. Si appigliano come quando cadi e cerchi di tirarti su.

Quelle mani e quegli occhi sono ancora intrecciati anche in piedi, al freddo.
Finché quelli di lei non si staccano, per guardare la destra che risale il suo braccio, indugia sulla sul suo collo e si ferma tra i suoi capelli.
Ricci.
Neri.
Gli sguardi cadono. Sulle labbra leggere che sanno dove finiranno.
Il resto tace, c'è forse ma osserva. Due ragazzi che non si amano ma non si odiano, ma continuano a guardarsi perché quello che provano probabilmente è solo curiosità di provarsi e indossare quella bocca sulla lingua – l'eccitazione di avere quello che volevano. A fanculo le parole, il silenzio li blocca lì.

Tutto si muove all'improvviso – ed è il bacio.
Quel mangiarsi l'anima.
Morderla finché non si arriva al fondo. Il fondo non c'è mai, e i baci continuano.



  
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