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Autore: GirlWithTheGun    19/03/2011    18 recensioni
Dedicata ai desaparecidos e alle Madri di Plaza de Mayo.
Penso che forse hanno violentato mia sorella, che le hanno dato le scariche elettriche attaccandole il seno a una macchinetta, o infilandole un cucchiaino tra le gambe, per andare a spaccarla di dolore dall’interno. O che l’hanno immersa in una vasca fino a farla morire. E penso che lei non aveva nessun reato da confessare. E quando penso a questo, non riesco a dormire per giorni interi.
{Prima vincitrice del Collapsing Night contest indetto dal Collection of Starlight}
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nunca Más

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Maria Elena nacque nel pieno dell’estate 1959. Nonna Dulcina aveva predetto che una bambina nata sotto un sole così, a mezzogiorno spaccato, mentre lo zenit raschiava le strade di La Plata e mia madre urlava come un’indemoniata in sala parto, non avrebbe potuto che essere biondissima. Io avevo sperato che si sbagliasse, invece a Maria Elena crebbe da subito una chioma bionda, bionda come oro filato. La invidiai a lungo, per questo.

Intrecciai i capelli alla piccola Elenita sugli scalini della nostra casa i primi cinque anni della sua vita. A volte provavo a mischiarli ai miei, di un castano denso come quello di papà, e scoprire che insieme erano una cosa dolce a guardarsi, mi dava le vertigini. Era la mia sorellina, la mia bambola, identica a come era stata la mamma prima di darla alla luce, prima di finire sprofondata nel letto con le occhiaie scure sotto gli occhi. Maria Elena si era presa con  innocente prepotenza le sue ultime energie. A mia madre erano serviti sei anni, per riuscire a rimanere di nuovo incinta, e tutto per abbandonarsi sconfitta sotto ad un lenzuolo: io non ne comprendevo il perché. A volte volevo credere che fosse tutta colpa di mia sorella, poi la guardavo mettersi le manine sugli occhi e sperare di essere abbastanza nascosta da non farsi scoprire, e mi si scioglieva il cuore. Non avevo nemmeno undici anni e già mi si scioglieva il cuore a guardarla, la mia Elenita, che era così bella. Così bella, come gli angeli.

Andai a prenderla io, all’uscita dal suo primo giorno di scuola. Mamma non si alzava mai, papà lavorava in macelleria tutto il giorno e nonna Dulcina, che fino all’anno prima si era occupata energicamente di me e Elenita, cominciava a sentirsi fiaccata dalla stanchezza che sopraggiunge in vecchiaia. Arrivai in ritardo, e sorpresi mia sorella occupata a tirarsi delle pietre con un suo compagno, un morso di bambino dalla testa nera come il carbone e due occhi di fuoco. Si lanciavano quelle pietre e degli sciocchi insulti, goffi e affannati, mentre attorno a loro qualche coetaneo assisteva alla scena. Conobbi sette anni dopo il nome di quel ragazzino furioso: Felipe Casares, così si chiamava, e Maria Elena, insieme al suo nome, mi confessò anche un amore che era nato quel giorno, raccogliendo ghiaia e pietre tra le mani, facendosi lacrimare gli occhi per la polvere bianca sollevata dalla strada.

L’ombra di Maria Elena si allungò come i tigli che crescevano per tutta La Plata e un’altra ombra inseparabile, quella di Felipe, le si avvinghiò attorno negli anni. Da quando si incontrarono per la prima volta, dal giorno delle pietre, non si lasciarono mai più. Io detestai con amore struggente mia sorella per diverso tempo, mentre la guardavo assottigliarsi e sfuggire ai nastri con cui volevo legarle i capelli, e diventare ogni giorno più meravigliosa e più ribelle. Rispondeva per le rime a me, a mio padre, perfino a nonna Dulcina. Risparmiava le sue scenate solo a mia madre. Quando ci riuscivo, origliavo le conversazioni tra Maria Elena e la mamma. Lei andava a trovarla nella sua camera ogni volta che poteva e alle prime ore della sera, quando papà non era ancora tornato ed io ero occupata a preparare la cena, si fermava a lungo. Nella bella stagione la sentivo aprire la finestra, aspettavo che mia madre la rimproverasse come faceva sempre con me quando tentavo di fare la stessa cosa, e con il respiro spezzato accoglievo il suo silenzio, il suo mormorio stanco ma impregnato di una tenerezza che non mi era stata concessa in nessuna occasione. Era Elenita, la sua preferita, come io ero la preferita di papà. Ma mai, mai papà sarebbe riuscito a coccolarmi così, sussurrando. A salvarmi da quei patemi d’animo giunse poi Saul, il mio primo e unico compagno, che mi riempì l’esistenza e ancora oggi la occupa sapientemente, fedelmente.

 

Quando Maria Elena mi parlò di Felipe e del loro primo bacio, aveva da poco compiuto i tredici anni. La ricordo seduta ai piedi del nostro letto, quello che condividevamo da tempo immemore, con la luce dei lampioni che le illuminava il viso e quei capelli da fata, irrorandoli d’argento. Era rinchiusa in un corpo fatto di spigoli e da come si ostinava a spostarlo pareva proprio che non lo tollerasse, che non sopportasse le sue misure sgraziate. Raccontò tutto a scatti, come se le parole le sfuggissero dalle labbra, poi mi guardò smarrita, a lungo. E mi chiese se era così, che funzionava, se doveva proprio sentirsi così spaventata.

Era il 1972, Perón e la sua Isabelita guidavano l’Argentina e sembrava che niente dovesse cambiare. Spesso mi chiedo: e se avessi saputo? Se avessi saputo che quattro anni dopo me l’avrebbero portata via, che se la sarebbero presa senza ridarmela mai più indietro, cosa avrei fatto di quel momento, di mille altri? L’avrei abbracciata, invece di accarezzarle i capelli, invece di incagliarmi sulla sua ostinazione e urlarle dietro prediche vuote, l’avrei inseguita per tutta La Plata, per dirle che l‘amavo pazzamente? La mia Elenita, la mia adorata Elenita.

Quella notte stessa prese a scrivere un diario ed io quella notte stessa cominciai a leggerlo di nascosto.

A settembre nonna Dulcina si spense in un attacco di cuore e Maria Elena ne uscì stravolta. Io, mia madre e perfino mio padre, subimmo quella morte come qualcosa di atteso, previsto. Soffrimmo tutti, ma Elenita permise a quel dolore di cambiarla fino a trasformarla in qualcosa che nessuno di noi era in grado di controllare. Decise di iscriversi al liceo artistico di La Plata insieme a Felipe, quando papà aveva posto un divieto tassativo, e non reagì nemmeno alle preghiere della mamma. Lessi il suo diario ossessivamente, nei mesi che seguirono la scomparsa della nonna. Elena era assillata dai sogni, dall’idea della morte, che si ripeteva morbosamente, in tutte le pagine. Ricordo una frase che allora non mi colpì e che oggi, alla luce di quel che è accaduto, mi fa tremare: “Settembre non sarà mai più un buon mese, mai più. A settembre ogni cosa muore, si spegne, ogni cosa viene soffiata via. Felipe è d’accordo con me: dice che è una buona idea eliminare settembre, dimenticarselo, fare come se non esistesse. E allora noi faremo così” aveva scritto in fondo ad una pagina bagnata. L’unica nota positiva, in quel mare di tormenti che non sarebbero dovuti appartenere ad una quattordicenne, era la presenza ininterrotta, rassicurante, di Felipe. Non c’erano tracce di litigi, dubbi, pene amorose. Potei gustare, invece, intere pagine di ingenua poesia. “Felipe ed io siamo seduti vicini da una settimana, a scuola, e tutti hanno capito che stiamo insieme. Qualcuno ha paura ad avvicinarci, secondo lui, perché dice che io sembro un po’ ostile, come se non mi interessasse niente dei nostri nuovi compagni. Gli ho mentito, gli ho detto che non è vero, ma lui mi ha scoperta subito. È come se ci fosse un punto, sul mio viso, che io non ho ancora individuato, dove lui riesce a leggere tutto quello che penso. Tutto. E non sono gli occhi. Forse è la bocca, Felipe ama guardarmela, me lo dice spesso. Forse è da lì che io gli confesso anche quello che non vorrei”.

 

Il 1974 fu l’anno del bilico: nazionale e familiare. I disordini politici cominciavano a penetrare negli strati del popolo ancora non schierato, grosse manifestazioni a Buenos Aires non facevano ben sperare ed io, lavorando a tempo pieno, mi ero dovuta rassegnare ad allentare il guinzaglio di Maria Elena. Il risultato era stato disastroso: mia sorella si era allontanata sempre di più da me e mio padre, alienandosi in una dimensione alla quale sembrava poter accedere solo Felipe, che ormai frequentava assiduamente casa nostra, quando papà era in bottega. Io li lasciavo fare e poi mi riducevo a dover scovare i nascondigli dove Elenita faceva sparire i suoi diari, riempiti a calligrafia sempre più fitta e difficile da decifrare, completamente differente da quella tonda e chiara con la quale avevo imparato ad appropriarmi dei suoi segreti. Lei e Felipe avevano quindici anni, passavano troppo tempo insieme per non farmi pensare che, prima o poi, qualcosa sarebbe successo. Così, quando una sera tornai dal turno più tardi del solito e trovai Elena seduta composta sul nostro letto, compresi immediatamente. Tuttavia lasciai che fosse lei a parlare, finalmente, dopo mesi di faticosa trincea, come aveva fatto solo due anni prima. All’inizio mi era sembrata quieta, poi aveva preso a scaldarsi sempre di più, fino a costringermi a intimarle di abbassare la voce. Ma era come avvolta in una bolla che la trasportava a due metri da terra rispetto al resto dell’umanità. Ricordo che d’un tratto spalancò la nostra finestra e scavalcò il davanzale, piombando in strada. Mi spaventai e mi affacciai, chiedendole se fosse impazzita. Il suo nervosismo si sciolse in un sorriso travolgente, che non le avevo mai visto addosso. In quell’istante lo stomaco mi si contrasse sotto a un pugno di ferro e tra le dita sentii di nuovo i suoi capelli, intrecciati ai miei. Elenita non era più una bambina, mentre mi rispondeva “Sì, sì, sono impazzita” e correva giù per la strada, nella notte, a raccontare il suo amore a La Plata intera. Le andai dietro e tornammo all’alba, abbracciate. Il giorno dopo lessi il suo diario per l’ultima volta: “Ho fatto l’amore con Felipe. E ho creduto di morire. È stato qualcosa di talmente straordinario che non si può spiegare. Ed è assurdo, perché proprio qui, solo qui lo potrei davvero spiegare. È che le parole non contengono niente di quello che vorrei dire, tanto che vorrei poter usare un’altra forma d’espressione, vorrei dipingere ma non basterebbe, e non basterebbe nemmeno urlare. Ci sono cose che i nostri corpi non possono contenere. Fare l’amore con Felipe è una di queste, è come il male per nonna Dulcina. Sono due cose completamente opposte e diverse, eppure sono la stessa. Nessuna delle due il mio corpo, il mio cuore, la mia mente sono in grado di controllare. Semplicemente, vanno oltre. E oltre non so quel che esiste. Credo il cielo, o il paradiso, o le costellazioni. Credo che quel che io intendo si aggiri in una galassia, sia sperduto, scoppiato come un pianeta e vagante nell’universo. Una meteora. Quel che io ho sentito, mentre facevamo l’amore, è una stella che esplode. Io non l’ho mai vista, una stella che esplode. Quindi è proprio questo, credo. Un boato sconosciuto di luce che muore e continua a brillare nei secoli”.

 

Maria Elena smise di scrivere nel suo diario e cominciò a pubblicare articoli sul giornalino scolastico. Lei e Felipe erano diventati abbastanza popolari, da quel che mi raccontava, e  trovava divertente vedere come i compagni li guardassero con rispetto, invece di insidiare il loro rapporto. Era orgogliosa di Felipe e del suo polso da attivista. Io più leggevo i loro articoli, più comprendevo che erano politicamente identificati, più mi rabbuiavo. Il nome di Rega cominciava già a circolare troppo frequentemente nelle strade, ma nessuno di noi credeva che le cose sarebbero precipitate così in fretta. Nessuno di noi, né io, né mio padre, né la mia povera madre, credeva che degli studenti potessero ritrovarsi a dover gestire le attenzioni di un’organizzazione militare estremista.

Il 1975 fu un anno di disordini sempre più violenti e si concluse in un clima di incertezza che agitava il popolo. Maria Elena non faceva altro che parlarmi dell’Alleanza Anticomunista Argentina, di come il Paese fosse sull’orlo del baratro, da quello che riferivano gli universitari con i quali erano entrati in contatto i rappresentanti dell’Unione Studenti, e di quanto fosse importante non lasciarsi mettere paura. Era così decisa, così calma, quando mi spiegava quel che io di tutta la fibrillazione politica non capivo, che mi convinse a non allarmarmi. E ancora di più mi convinse Felipe, con i suoi modi sicuri e il suo viso pulito da dipinto, gli occhi ancora pieni di fuoco come li avevo visti in quel bambino infuriato. Era a casa nostra quando, la mattina del 24 marzo 1976, arrivò la notizia del golpe. Suo padre, poliziotto, l’aveva cacciato dopo l’ennesima lite: non approvava che il figlio avesse deciso di entrare nella Gioventù guevarista, di andare a manifestare. Lo considerava un suicidio. Salvador Casares, uomo deluso dalla vita e da una donna che lo aveva abbandonato lasciandogli un figlio da crescere, fu proprio chi vide per primo il futuro avvicinarsi a grandi passi.

Salirono al potere Jorge Rafael Videla e la sua Giunta militare. Iniziò la dittatura. Iniziò il Processo di Riorganizzazione Nazionale.

 

Massera, Agosti e Videla soffocarono un Paese intero nella morsa del terrore. Chiusero i sindacati, chiusero i giornali, e dopo fu la volta della sospensione delle attività politiche, della libera associazione. Stato d’assedio era una parola che continuava a rincorrersi per i vicoli di La Plata. Poi, iniziarono le ricerche dei nemici del regime. Iniziarono le sparizioni. Maria Elena tentò di nasconderci la cosa per un po’, credendo di fare il nostro bene, e ci riuscì fino a che i desaparecidos divennero troppi anche a La Plata perché noi non ce ne accorgessimo. Sembrava di vivere in una dimensione parallela. Le persone uscivano dalle proprie case come ogni mattina, o semplicemente calava la notte, e un angolo di vuoto inghiottiva tutto. Impiegammo un paio di mesi per capire che nessuno tornava, dopo essere sparito.

Le liti presero a scoppiare violente, tra noi ed Elena, mentre mia madre piangeva nella sua stanza. Le intimammo di smettere di frequentare la gente con cui era solita passare il tempo, di lasciar perdere le manifestazioni. Ma lei sembrava non capire, sembrava essere presa da un pensiero fisso, e ci odiava per quel che le dicevamo. Ci definiva dei codardi. “Ci stanno trascinando sul lastrico e nessuno apre bocca! Ci stanno togliendo tutto. Nessuno dei miei compagni ha i soldi per comprare i libri di testo, quest’anno. Nemmeno per pagare un biglietto dell’autobus. Credete che queste cose cambieranno, se ce ne staremo zitti? Perché vi ostinate a non capire quanto è importante? Carmen, almeno tu. Felipe ti ha spiegato…”. Il nome di Felipe fece infuriare mio padre, quella sera, durante l’ultima conversazione che ricordo veramente bene tra noi tre. “La gente sparisce, Maria” solo lui la chiamava così “Non tornano più. Io devo vedere mia figlia sparire in un buco? E’ questo che mi stai chiedendo? Vuoi ammazzare tuo padre? Vuoi ammazzare tua madre?” sbraitò, completamente fuori di sé. Allora Maria Elena si placò, immediatamente, come ricordando qualcosa. “No” mormorò, rilassando le mani “No, no. Non andrò, va bene? Non dovete stare male”. Si avvicinò e abbracciò mio padre, e forse solo in quell’istante, quando lui le franò tra le braccia pallido e improvvisamente vecchio, capì che era davvero spaventato. Mi sorrise da sopra la sua spalla e per un attimo tornò Elenita, la mia bambola. Avrei dovuto capire che stava fingendo.

 

Il giorno dopo Felipe e Maria Elena andarono alla manifestazione. Erano tanti, erano quasi tutti  minorenni, erano pacifici. Volevano solo uno sciocco tesserino liceale, uno stupido tesserino. Ma non c’erano più differenze, nella repressione.

Quando tornò a casa, le lessi subito in faccia che era stata lì. Le diedi uno schiaffo, uno schiaffo fortissimo, non appena fu abbastanza vicina. Lei non emise un gemito e mi abbracciò. La strinsi violentemente e ricordo di aver provato uno smarrimento che in quel momento non mi spiegai. “Ho paura”, le dissi “Ho paura, non farti ammazzare, ti prego”. Lei rise affettuosamente di me e avrei voluto colpirla di nuovo, invece la abbracciai ancora più forte. “Nessuna tomba può contenere un rivoluzionario, amore mio” mormorò, prendendomi in giro. Poi si allontanò accarezzandomi una guancia e sparì nella camera di mia madre, che la coccolò con i suoi sussurri.

Quella notte Elena si incontrò con Felipe, come succedeva spesso, e fecero l’amore per l’ultima volta. Avrei voluto dirle di non andare, di restare con me, ma non lo feci: ero certa che sarebbe stato inutile. La vidi sgusciare fuori dalla finestra con i suoi capelli d’argento sparsi tutt’intorno. Indossava la mia maglietta a fiorellini, bianca, con un bordo spesso e nero che faceva a botte con il suo pallore. Si voltò prima di allontanarsi nel buio e mi sorrise.

Non la rividi mai più.

 

Presero Elena mentre rientrava, all’alba. L’aspettai per tutta la notte, e quando scoccarono le sette del mattino, compresi che mia sorella non sarebbe tornata. Lo capii dal vuoto che mi si allargò nel petto e che, con il passare delle ore, divenne una voragine. Quando papà si ripresentò a casa, dopo una corsa disperata fino da Felipe per accertarsi che davvero, davvero, Elena non fosse nemmeno là, aveva esaurito tutte le lacrime ed era un uomo demolito, sbriciolato. Avevano trovato Felipe e suo padre morti nel loro appartamento. Il padre di Felipe gli aveva sparato alle spalle, alla nuca, e dopo si era ucciso. Mio padre ripeté farfugliando, in piedi in mezzo alla stanza, che Felipe aveva quella maglietta gialla, quella che Elena gli aveva regalato, e che era tutta zuppa di sangue, che tutti potevano entrare e guardare quei cadaveri come fossero maiali scuoiati appesi in macelleria. Che c’era chi aveva mormorato di come il poliziotto avesse saputo del mandato di sequestro per il figlio quella notte stessa e di come avesse deciso di ammazzarlo, piuttosto di fargli subire le torture.

Quando mia madre scoprì, si alzò per la prima e unica volta in diciassette anni. Si alzò, e barcollò in strada, e cadde per terra, e lì rimase, prostrata, urlando il nome di mia sorella fino a contorcersi sul selciato.

 

Felipe e Maria Elena se ne sono andati così, nel settembre del ’76, nel mese che avevano deciso di cancellare. È come se qualcuno, allungando una mano, li abbia scossi via, schiantandoli lontanissimo. Mi sforzo di convincermi che ora sono nell’universo, in quella stella esplosa, in quell’oltre dove finalmente Elena, la mia Elenita, riuscirà a spiegare cosa è il suo amore. Più spesso succede che invece queste cicatrici brucino come carboni ardenti. Penso che forse hanno violentato mia sorella, che le hanno dato le scariche elettriche attaccandole il seno a una macchinetta, o infilandole un cucchiaino tra le gambe, per andare a spaccarla di dolore dall’interno. O che l’hanno immersa in una vasca fino a farla morire. E penso che lei non aveva nessun reato da confessare. E quando penso a questo, non riesco a dormire per giorni interi. Poi Saul mi viene vicino, mi abbraccia per ore. Mi sforzo di pensare a quando tutto deve essere finito, a quando lei se n’è veramente andata da questa terra, e mi chiedo se per caso ho sentito qualcosa di diverso, cerco di capire quando è esattamente successo. Ma mi dicono in tanti che questo non può aiutarmi, lo dice anche mio marito. Allora, provo a pensare a quando l’hanno lanciata da un aereo, addormentata, e i suoi bei capelli sono finiti nell’oceano, o a quando l’hanno bruciata e le sue ceneri si sono perse nel vento.

Penso a Elenita che mi stringe forte e sorride, e scompare oltre la finestra… “Nessuna tomba può contenere un rivoluzionario”… per non tornare mai più.

 

Carmen de Acha

Buenos Aires, 16 settembre 1995

 

 

 

 

 

 

 

Li portavano sull’aereo poi dicevano: è una bella giornata, andate fuori un po’ a giocare”.

Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio italiano, riferendosi ai voli della morte con cui venivano eliminati gli oppositori del regime. Campagna elettorale nella regione Sardegna, 2009.

 

 “Gli ufficiali ci dissero che dovevamo combattere la sovversione, difendere la patria, la civiltà cristiana. Combattevamo il terrorismo, ma solo dopo molti anni compresi che eravamo noi, i terroristi”.

Claudio Vallejos, sottufficiale dei marines argentini, torturatore. Intervista rilasciata a Il Corriere della Sera, nel 27 aprile 1985.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NdA: I fatti narrati sono ispirati ad avvenimenti realmente accaduti, in particolar modo alla Notte delle matite spezzate, un’operazione organizzata dalla polizia argentina che ha portato alla morte, previa tortura, di alcuni studenti degli istituti superiori di La Plata, sequestrati nella notte del 16 settembre 1976. Con le espressioni macchinetta e infilandole un cucchiaino tra le gambe l’intenzione non era utilizzare metafore contorte per illustrare la tortura, ma riferirsi più o meno velatamente a delle torture specifiche: i prigionieri sequestrati venivano torturati anche applicando loro scariche elettriche; nel caso delle donne, le macchine per le scosse venivano attaccate ai seni, agli organi genitali, o veniva loro introdotto un cucchiaino nell’utero per far arrivare le scosse alle parti più sensibili al dolore (la fonte di queste informazioni è l’intervista a Claudio Vallejos, citato in questa stessa pagina, ed è integralmente visionabile qui.  

Gli episodi storici riportati sono tutti realmente accaduti. Maria Elena de Acha e Felipe Casares non sono mai esistiti, in compenso condividono una storia identica alla loro approssimativamente 30.000 persone scomparse e uccise durante il regime Videla. Nunca Mas significa mai più, ed è anche, oltre ad una delle espressioni che più si ripetono nella One-Shot, il nome del rapporto del CONADEP che riporta testimonianze su sequestri, torture ed eliminazione di oppositori messi in atto dalle autorità militari. Ad ogni modo, dei riepiloghi sommari su questo genocidio si possono trovare al seguente link: http://www.nuncamas.it/.

Non so se può essere utile in qualche modo, anzi credo che sia un’informazione totalmente superflua, ma ho scritto questo testo su due soundtrack specifici: Tears In The Rain, di Joe Satriani e Together We Will Live Forever, di Clint Mansell.

Questa storia si è classificata prima al Collapsing Night contest, indetto da Alexluna sul forum Collection of Starlight, il cui bando è stato pubblicato anche sul forum di EFP. L’icon alla quale sono ispirate le sembianze dei personaggi è questa, creata da Boundary (potete trovare qui il suo livejournal, pieno di roba bellissima :3 :3, tra l’altro) ed elaborata da Ulissae.

Credo di aver detto veramente di tutto, quindi mi ritiro in buon ordine.

Grazie.

Ah, e La Plata lo è sul serio, piena di tigli.

   
 
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