Una ragazza è seduta ad un tavolino. Ha addosso una maglia stropicciata e ai piedi un paio di sneakers bianche. Una tazza da caffè alla bocca, una valigia ai piedi dello sgabello. È una delle tante.

Le campane suonano le undici, lei mette una mano in borsa, illumina il display del cellulare. Sì, sono le undici.

Si alza, infila senza fretta la giacca di pelle, raccoglie le sue cose, si allontana.

Percorre la galleria commerciale camminando spedita sul pavimento a scacchi bianco e nero.

Oltrepassa le vetrine dei negozi di moda, schiva le persone che vanno nella direzione opposta.

Non fa molto caso al rumore dell’acqua che cade fuori dal tratto coperto.

L’arcata d’ingresso della galleria la sovrasta di molti metri. L’aria entra senza ostacoli portando con sé il rumore della città. Piove. La ragazza rallenta quanto basta per potersi alzare il cappuccio, senza fermarsi. In un attimo è in strada.

Attraversa la piazza e si ferma sotto alla pensilina degli autobus, dove rimane in piedi di fianco alla sua borsa per qualche minuto. Dopo poco si sposta, ci ripensa: forse è meglio andare a piedi. Imbocca il portico per ripararsi dalla pioggia e prosegue per la sua strada, in silenzio. La valigia le pesa su una spalla, i capelli umidi spuntano dal cappuccio.

Va veloce, non indugia agli incroci: conosce la strada e non ha tempo da perdere.

Va. Poi, d’un tratto, sbianca. Crolla per terra con un tonfo sordo.

La gente si ferma, le si chiude intorno, preoccupata, incuriosita, silenziosa.

Qualcuno si avvicina al suo corpo accasciato.

Un’ambulanza! Presto! Ma ormai la ragazza è morta.