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Autore: LauriElphaba e Ferao    22/03/2011    2 recensioni
No, nessuno si sarebbe avvicinato, a meno che non fosse senza figli, o completamente ubriaco, o non gli fosse importato di vivere. Perché, dopotutto, anche gli adulti, non è che avessero questo pessimo sapore.
Nove giorni.
Nove notti.
E quella sera c’era la luna piena.
Genere: Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Fenrir Greyback, Remus Lupin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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La vendetta di un lupo mannaro, la nascita di un altro.
La parte in corsivo, allineata a destra, è di Ferao; la parte in stampatello, allineata a sinistra, è della splendida e mai dalla sottoscritta abbastanza lodata LauriElphaba.
Ti amo, sorella.
(Storia vincitrice della partita Corvonero-Grifondoro nella gara di Quidditch di HPQuiz).

Bestia!

 





Solo. Tanto per cambiare.
Rintanato nell’angolo più lontano e nascosto di quello squallido pub puzzolente. O forse era lui a puzzare, di sangue e fumo e sudore. Non che gliene importasse molto, non doveva frequentare umani, lui. Era una bestia. Era il lupo cattivo che mangiava i bambini. Se anche avesse profumato di rose, nessuno si sarebbe avvicinato al suo tavolo.
Sogghignò al pensiero.
No, nessuno si sarebbe avvicinato, a meno che non fosse senza figli, o completamente ubriaco, o non gli fosse importato di vivere. Perché, dopotutto, anche gli adulti, non è che avessero questo pessimo sapore. 
Un altro bicchiere di birra, tutto d’un sorso, col ghigno che non accennava a spegnersi. Gli piaceva quando era così. In quell’angolo, stravaccato sulla panca di legno vicino al tavolo rotondo incrostato di cera colata e chissà cos’altro, si divertiva ad osservare gli altri avventori della bettola. Piccoli inutili umani, gli sarebbe bastato un balzo per raggiungerli, strappargli la carne dal collo e annusare il loro ultimo respiro. Sarebbe stata questione di cinque minuti, ma quella sera aveva solo voglia di stare nel suo angolo ad ubriacarsi, non si può sempre stare collegati, bellezza,  il viaggio è lungo e passa prima se addormenti il cervello. Mentre il controllo cominciava a sfuggirgli, notò appena un uomo alto in un mantello che entrava e veniva a sedersi al tavolo vicino a lui. L’uomo lo degnò di un’occhiata di disprezzo che passava dalle scarpe sfondate al lercio pastrano aperto sul petto per fermarsi sulla sua faccia segnata dalle cicatrici, poi fece per voltarsi a scegliere un altro posto, e i loro occhi si incontrarono. Era decisamente in vena, quella sera. Fissò l’uomo con aria di sfida, leccandosi vistosamente le labbra e indicando con un cenno in direzione del suo collo. Non ti piaccio, bocconcino?
L’uomo accennò un passo all’indietro, come spaventato, ma in un attimo si ricompose, gli dedicò la sua migliore occhiata sdegnata e si girò a dargli le spalle con uno svolazzo del mantello. E firmò la sua condanna.
“Certe bestie non dovrebbero avvicinarsi alle persone civili…” Sentenziò in un borbottio ben più che udibile.
Greyback si alzò con uno scatto, capovolgendo la panca su cui era seduto. La stanchezza di quella sera si era dileguata. Non fece quasi in tempo a cogliere il piccolo sobbalzo di sorpresa del suo nuovo amico al rumore della panca che si schiantava a terra mentre era ancora girato. In una frazione di secondo lo aveva sbattuto a terra e gli era addosso, schiacciandolo col suo peso e tenendogli la testa contro il pavimento, di profilo, il collo bene in mostra. I pochi maghi seduti al bancone si alzarono, qualcuno urlò, l’oste si ritirò dalla porta dietro al bancone lasciando cadere i bicchieri che aveva in mano, che si frantumarono a terra, e in pochi secondi erano soli nel pub deserto. A quanto pareva, l’uomo che aveva atterrato era l’unico a non conoscerlo di fama, lì dentro. Lo sentiva ansimare sotto di lui. Col suo collo a due centimetri dalle fauci, si sentiva potente. Decise di divertirsi. Lo afferrò per i capelli castani e gli sbatté di nuovo la testa a terra, con violenza. Vide che cominciava a sanguinare dalla tempia sul pavimento. L’uomo mandò un gemito soffocato. Era stordito. Era una preda. Greyback rise e si avvicino con la bocca al suo orecchio. Vide che l’altro storceva il viso in un’espressione di disgusto…ancora il coraggio di fare lo schizzinoso?
“Come ti chiami, bel bambino?” Gli ringhiò nell’orecchio. L’uomo non rispose, si limitò a guardarlo con quella schifosa aria di sfida. Benissimo, nuovo giro, nuova corsa. Gli sbatté di nuovo la testa contro il pavimento di pietra.
“Su, bravo bambino, come ti chiami?” Sibilò, tirandolo più forte per i capelli. L’uomo ormai era quasi svenuto. Sentì un borbottio affannato di risposta.
“Ripeti più forte, o il lupo cattivo sarà costretto a farti la buuua…” Era il suo giocattolo nuovo, era divertente.
“John Lupin” Lo sentì esalare alla fine, e questa volta rise di gusto: bel cognome, davvero bello, adatto a quello che aveva in mente.
“Bene, Johnny caro, e ce l’hai un bambino? Un bel bambino?” L’uomo sotto di lui ebbe un fremito, come una scossa di paura. Lo percepì chiaramente, non c’era nemmeno bisogno di incoraggiarlo di nuovo, sapeva già la risposta: “Oh sì che ce l’hai … un bel bambino tenero tenero …” Si alzò, all’improvviso prendendo John “Lupin” per il mantello e sbattendolo contro la porta con tutta la sua forza. Lo fissò dritto negli occhi, che ormai erano due macchie viola imbrattate di sangue. “Torna dal tuo cucciolo, umano.” Sussurrò a quello schifoso fantoccio “Vai a proteggere la tua civilissima famiglia, se ne hai il coraggio”. Con un ultima risata lo lasciò accasciarsi e tornò a sedersi al suo posto. L’uomo si rialzò, lo guardò incredulo e terrorizzato, poi scappò sbattendo la porta del pub. Greyback tornò alla sua birra. Era da un po’ che non si concedeva uno sfizio del genere, penso immaginando quell’inutile umano che correva a casa disperato. Patetico, debole. Si sarebbe divertito, sì…
 
 
 
 

- Remie, che stai facendo?
- Voglio fare uno scherzo a papà!
Il piccolo si rintanò dietro la porta; aveva visto, dalla finestra, suo padre che imboccava il vialetto di casa.
In genere tornava dal pub quando suo figlio era già a letto; stavolta però Remie ne avrebbe approfittato.
Avrebbe fatto al suo papà uno scherzo, un bellissimo scherzo.
Si appostò, quatto quatto, aspettando il momento in cui l’uscio si sarebbe spalancato.
Il padre aprì la porta di scatto, come se avesse fretta di rientrare.
- Buuuuh! - gridò Remie, saltando fuori all’improvviso e prendendogli le gambe.
- Sono un cattivissimo lupo e adesso ti mangio!
Non era la prima volta che faceva qualche scherzo al papà; in fondo aveva quattro anni, era una piccola peste.
Di solito però il papà rideva, lo prendeva in braccio e lo faceva volare in alto sulla sua testa.
Quella sera no.
 
Remie aspettò che suo padre si rendesse conto dello scherzo e che scoppiasse nella sua risata forte e rumorosa.
Non accadde.
Il papà si voltò verso di lui, ma non sorrideva.
Aveva due occhi grandi, quella sera, grandissimi. Sembravano occhi da lupo.
- Papà… ti ho fatto uno scherzo…
Il padre continuava a fissarlo, senza sorridere, senza dire nulla; Remie si chiese cosa fosse quella cosa rossa che gli macchiava i capelli, e perché avesse quei segni sul collo.
- Papà… ti ho spaventato davvero?
Alla fine il padre distolse lo sguardo allucinato dal figlio.
Riuscì a dirgli solo una frase:
- Dov’è la mamma?
Remie era sconcertato. Il papà salutava sempre prima lui, poi la mamma. Ora voleva subito lei.
- È in camera, legge…
- Valla a chiamare.
Il piccolo gli volse le spalle e si allontanò, appena in tempo per non vedere suo padre crollare a terra, tremante e in lacrime.
 
Nei giorni seguenti il papà di Remie si comportò in modo stranissimo.
Non lo lasciava solo un minuto. La sera non usciva più, e appena tornava a casa serrava la porta e passava lunghe ore a guardare dalla finestra, con la bacchetta in mano.
Remie non lo aveva mai visto… così.
Era pallido, e sempre preoccupato.
Pensò che forse era colpa sua; forse non avrebbe dovuto fargli quello scherzo che lo aveva spaventato tanto.
Perché allora non lo rimproverava?
Il bambino avrebbe preferito essere rimproverato che sentirsi sempre controllato dal papà.
Se Remie si allontanava un momento in giardino, suo padre iniziava a chiamarlo.
- Remie? Remie, torna subito qui!
Una volta, per dispetto, decise di disobbedirgli, e invece di tornare da lui rimase nascosto su uno dei ciliegi.
Dall’alto vide suo padre correre, correre per tutto il giardino, gridando il suo nome, con una disperazione che Remie non gli conosceva.
Vedendolo così, ebbe paura di essere sgridato sul serio, e scese subito dall’albero.
- Papà, sono qui…
- Remie!
Il bambino si aspettò uno schiaffone, per aver disubbidito, ma il padre lo prese in braccio e lo strinse forte, soffocandolo.
- Remie…
Qualcosa di caldo toccò la gota del bambino. John Lupin stava piangendo.
- Remie… N-non f-farlo p-p-più…
Il piccolo cercò di dibattersi, quella stretta gli stava facendo male.
- Papà… non respiro…
John si rese conto che Remie soffriva, e lo mise a terra. Si asciugò le lacrime, poi, senza un'altra parola, lo prese per mano e lo riaccompagnò a casa.
 
Nove giorni. Nove giorni erano passati da quando John Lupin era tornato a casa da quel dannato pub.
Nove giorni.
Nove notti.
E quella sera c’era la luna piena.
Il piccolo Remie giocava con un peluche di Ippogrifo nel centro del salotto, mentre, come al solito, suo padre fissava la finestra.
Era esausto; laddove le guance erano state sempre morbide e lisce era fiorita una barba scura e incolta. I begli occhi chiari erano cerchiati da profonde occhiaie.
- Papà? - chiamò Remie, smettendo di giocare. John non rispose; era assorto nei suoi pensieri.
- Papà? - chiamò di nuovo.
John si riscosse. Si voltò verso il figlio, e gli lanciò un sorriso debolissimo.
- Sì, Remie?
- Papà, vuoi giocare insieme a me?
Il padre fece un gran sospiro, passandosi le mani sugli occhi distrutti dalle veglie.
- Sì, Remie, vengo subito.
Gettò un’altra occhiata fuori in giardino. Nove notti che osservava, aspettando.
Per una volta avrebbe potuto distogliere lo sguardo.
Guardò di nuovo suo figlio, che lo fissava aspettando il suo papà.
- Giochiamo, Remie.
- Sì, giochiamo, Remie.
Il sangue di padre e figlio congelò nel medesimo istante.
 
Veniva dalla porta.
John era paralizzato; non riusciva a muovere un solo muscolo.
Aveva capito.
Quella bestia lo aveva trovato.
- Remie… - riuscì a sussurrare. – Nasconditi. La mamma non c’è, ma va' in camera nostra. Qualsiasi cosa tu senta non venire di qua.
Il bambino lo guardò. Anche lui non riusciva a muoversi; quella voce, così bassa, così cattiva lo aveva spaventato a morte.
Non riuscì a muoversi. Voleva restare lì, con il suo papà.
Si sentì un nuovo rumore: qualcuno batteva piano alla porta.
- Remus… vattene.
- Papà…
- Subito.
Il piccolo deglutì. Non aveva mai visto quell'espressione sul volto di suo padre, ma era un’espressione che non ammetteva repliche.
Stringendo forte al petto l’Ippogrifo, attraversò il salotto e corse verso la stanza dei suoi genitori, mentre John recuperava il coraggio ed estraeva la bacchetta.
Remie stava per salire le scale, quando uno schianto lo spaventò.
Si nascose dietro uno stipite, e osservò quello che succedeva nell’ingresso.
 
Aveva divelto la porta con la sola forza delle mani.
Era davvero una bestia.
John fu veloce a lanciargli uno Schiantesimo, ma quello sembrò non sentirlo.
- Tutto qui, piccino? - ringhiò, con quella voce roca e bassa che prima aveva terrorizzato padre e figlio.
Remie vide John alzare di nuovo la bacchetta, ma l’uomo che era entrato in casa loro fu veloce e gli storse il braccio, bloccandoglielo contro la schiena.
Vide suo padre contorcersi e urlare di dolore, mentre lasciava cadere la bacchetta.
- Adesso siamo pari, eh bambino? - latrò lo sconosciuto nel suo orecchio, con una risata agghiacciante.
 - Adesso non puoi più farmi i tuoi scherzetti luminosi, eh?
Continuando a tenergli il braccio, sbatté John contro la parete,  poi lo obbligò a voltarsi.
Gli mise le mani al collo e lo sollevò con un’estrema facilità.
- Allora, Johnny caro, dov'è il tuo cucciolo? - ringhiò sorridendogli feroce.
John si dibatté, disperato. Sarebbe morto, sarebbe morto ma l’importante era salvare Remie.
Un barlume di coraggio comparve nei suoi occhi.
- È… non è… qui - sputò fuori, mentre diventava cianotico per lo sforzo di respirare.
- È… già… scappato…
- Oh, ma certo! - rise lo sconosciuto, soffiando le parole.
- Piccolo Johnny, non ti hanno insegnato a non dire le bugie?
Lo sbatté di nuovo contro la parete, con una forza tremenda.
Remie sentì qualcosa scricchiolare, e pregò che non fossero le ossa di suo padre.
- Meriti una punizione, Johnny…
Lanciò John a terra, facendolo sbattere contro il tavolo del salone. Il mago cercò di ripararsi sotto di esso, ma lo sconosciuto prese il tavolo e lo scagliò contro una finestra, ruggendo.
- Dove pensi di andare? - abbaiò.
Prese John per una spalla e lo obbligò a rialzarsi; era più alto di lui di almeno venti centimetri, e lo sovrastò.
- Credi che abbia finito con te?
Tirò un pugno al mago, che iniziò a sputare sangue.
- Credi che sia contento?
Un  altro pugno.
- Credi che le bestie come me si accontentino di un po’ di sangue?
Continuò a picchiarlo, finché non lo lasciò semisvenuto.
Remie aveva assistito a tutta la scena, non visto.
Il terrore lo attanagliava. Era orribile, orribile ciò che quell’uomo stava facendo al suo papà.
Non poteva lasciarglielo fare.
Raccolse tutto il coraggio dei suoi quattro anni, e afferrò un vaso vicino a lui.
Nel frattempo lo sconosciuto si era nuovamente chinato su John.
- Amico mio, - gli stava sussurrando, - dimmi dov’è il tuo cucciolo, o dovrò trovarmelo da solo. E sarà molto più doloroso sia per te che per lui.
- N-n-n-o…
- Conto fino a tre, poi inizio a cercarmelo. Uno…
- N-n…
- Sarai un banchetto delizioso, Johnny Lupin. Due…
- R-r-re-mus…
- Un bel nome per un cucciolo. Tre!
Il vaso che Remie aveva in mano si frantumò sulla testa dell’uomo sconosciuto.
Un gesto coraggioso, per un bambino di soli quattro anni. Ma molto, molto stupido.
L’uomo si voltò di scatto, per vedere chi era stato.
- Bene, Johnny - rise, leccandosi le labbra. – Il tuo bambino è stato più intelligente di te, e mi ha facilitato le cose.
- N-n…
Remie fece tre passi indietro, di corsa. Sperava che con quella botta l’uomo sarebbe svenuto, o si sarebbe fatto male, invece nulla.
Era grandissimo, e gli faceva paura.
Voleva scappare via, ma lì a terra c’era il suo papà.
- Non avere paura, cucciolo. Vieni da zio Greyback - ghignò lo sconosciuto. - Ho un regalo per te e per il tuo papà…
Remie scappò via, attraversando la casa buia all’impazzata. Cercò di salire le scale, ma dietro di lui era già comparso Greyback, che lo artigliò per una spalla e lo sollevò alla propria altezza.
- Piccolo cucciolo coraggioso - commentò, sempre leccandosi le labbra. Remie seguì quel movimento ipnotico, tremando.
- Hai paura di me, vero?
Il bambino non rispose; Greyback lo scosse.
- Hai paura di me?
- N-no…
- Da adesso in poi l’avrai, bambino. Guarda: sta sorgendo la luna.
Lasciò cadere Remie a terra; ciò che il bambino vide subito dopo è indescrivibile.
Un piccolo bambino impaurito non può e non potrà mai comprendere l’atroce orgasmo della trasformazione dell’uomo in lupo.
- Guardami - furono le ultime parole di Fenrir Grayback, prima.
- Guardami, e racconta a tuo padre di come suo figlio è divenuto una bestia.
 
 
 

E la luna era tornata ad aiutarlo, schifosa complice dalle mani pulite, bianco volto d’angelo pronto ad accompagnarlo sulla strada per l’Inferno, dimmi un po’ Fenrir, cosa mi offri questa volta?
Un bel bambino mia vecchia signora solitaria, non sei felice?
Sentiva il sangue pulsare in ogni vena del suo corpo, come una seconda vita che gli si riversava dentro, e lui era pronto, pronto ad accogliere la forza, la violenza di un’altra bestia dentro di sé. Il bimbetto lo guardava dal pavimento con occhi enormi e gonfi di terrore mentre il suo corpo cambiava, diventava ancora più grande e scuro di fitta pelliccia nera, e presto lo avrebbe abbandonato al suo ospite, l’animale senza cervello che avrebbe squarciato quella tenera, piccola gola…


 

No no no no no…

 

Mentre la vista gli si appannava per il gonfiarsi dei capillari nei suoi occhi, fece in tempo a vedere il moccioso che si alzava a fatica e cominciava a scappare… corri, corri bel bambino, un attimo ancora e sarò da te.
Lanciò un urlo, come ogni volta che la trasformazione arrivava al suo culmine; era doloroso, sì, ma era anche una sensazione di libertà perversa, di potere... e in un attimo, mentre sentiva sciogliersi gli ultimi rimasugli di coscienza e si accasciava a terra per rialzarsi su quattro zampe, l’urlo si trasformò in un latrato, sinistra imitazione di una risata umana. Si guardò intorno con i suoi nuovi occhi: il moccioso non c’era più ma ne sentiva l’odore, da un punto imprecisato sotto di lui, odore di carne fresca, tenera, e di sangue caldo. Si mosse lentamente lungo il corridoio, riappropriandosi dei sensi della bestia. I colori erano più accesi, gli odori più penetranti, i suoni erano come sbiaditi, anche se più forti, e tutto intorno a lui si muoveva leggermente, come nel mondo dei sogni. Sentì l’eco di un pianto, al piano di sotto. Lentamente prese a scendere le scale.
Al piano di sotto l’odore del sangue del ragazzino si faceva meno potente, nascosto da quello del padre. “Lupin” era steso in mezzo alla cucina, svenuto, col moccioso che gli piangeva addosso, piccolo, delizioso bimbetto anche con la faccia coperta di lacrime, gli occhi rossi e quella patetica faccia disperata.

Papà, papà, ti prego, ti prego…
 

Quella semplice vista gli fece venire un’arsura insopportabile in gola, doveva avere quel bambino, ora, era la cosa più importante di quello schifoso mondo, sentire il suo sangue sulla lingua, la sua pelle che si lacerava sotto le sue zanne. Mandò un ruggito, e a quello il ragazzino - Remie lo aveva chiamato il padre - lo fissò per un istante prima di alzarsi con una velocità inaspettata e correre via attraverso la porta di casa, fuori, nel bosco.
Per quanto volesse placare la sua fame, decise che un bel giro di caccia sarebbe stato la ciliegina sulla torta. Si avvicinò al corpo dell’uomo a terra e con una zampata violenta lo spazzò via dal suo cammino. John Lupin non emise neanche un gemito. Esitò sulla soglia, deciso a dare alla sua piccola preda un po’ di vantaggio. Quella famiglia era stupenda. Prima il padre che gli offriva su un piatto d’argento il pretesto per divertirsi un po’ con suo figlio, ora il marmocchio stesso, che lo invitava a quella meravigliosa partita di acchiapparella. E lui sapeva già come sarebbe finita, pensò passandosi la lingua sulle zanne sporche.
Fiutò l’aria in cerca dell’odore del bambino. Non ci volle molto per trovarlo in mezzo agli odori familiari del bosco. Era un odore più dolce, caldo. Appetitoso.
Si lanciò a rincorrerlo tra gli alberi, seguendo la sua scia, la fame che lo torturava, e alla fine l’odore si fece più intenso, anzi, adesso lo sentiva addirittura ansimare mentre correva … lascialo correre, che si diverta… suo padre, se mai vorrà farlo, dovrà venire a cercarselo nel folto. Mentre rallentava, dando tempo al bambino di allontanarsi ancora un po’, pensò che probabilmente non l’avrebbe fatto. Tutta quella smania di proteggerlo a costo della sua vita, e quando avesse capito cosa era successo al moccioso avrebbe lasciato perdere, forse ne avrebbe avuto paura, chissà, come ne aveva avuta il suo di lui.


Corri, corri, non fermarti, non guardare, corri e basta, corri…

 

L’odore si era affievolito di nuovo, di molto stavolta, tanto che ebbe paura di non riuscire a ritrovarlo. Ma doveva farlo, prima che quel maledetto moccioso riuscisse ad uscire dal bosco e magari trovare qualcuno disposto ad aiutarlo. Le cose potevano mettersi male. Cominciò a correre più veloce che poteva, al diavolo la caccia, aveva fame e quel cucciolo schifoso rischiava di scappargli sul serio - ma non sarebbe successo, come tutte le volte, lo avrebbe ritrovato e finalmente…
Aveva raggiunto una radura, dove di nuovo ritrovò la sua traccia, così vicina che si chiese come aveva fatto a non sentirla prima. I tre quarti dello spiazzo erano circondati dagli alberi, ma su un lato si apriva una caverna, profonda, buia. Si avvicinò, lì l’odore era fortissimo. Era là dentro. Bravo bambino, era un ottimo inizio cercarsi una bella tana da lupo cattivo.

 
Basta, ti prego, basta, lasciami stare, lasciami…

 

Un basso ruggito minaccioso gli uscì dalla gola mentre si addentrava nella grotta, il verso di una bestia affamata. E allora lo sentì. Doveva essere nascosto in una delle tante irregolarità della roccia, perché udì un piccolo squittio soffocato, come se avesse voluto muoversi e si fosse fatto male contro le pietre intorno a lui. Si avvicinò con lentezza al punto dai cui aveva sentito provenire il rumore, sempre con quel ruggito sussurrato in bocca, gustandosi il momento. Ancora due passi e lo avrebbe visto, nascosto dietro qualche masso, nell’oscurità, magari con le mani pigiate contro le labbra per non urlare.
 

Basta, lasciami, no… Corri, corri…
 

Ma prima che potesse raggiungerlo, il bambino si alzò in piedi, deciso a scappare di nuovo, anche se per farlo avrebbe dovuto passare accanto a quella bestia mostruosa. Stessa scena, vista tante volte. Patetica. Appena il bambino fu a tiro si lanciò su di lui, e insieme rotolarono a terra, contro la pietra ruvida. La sua preda doveva essersi graffiata, perché l’odore di sangue si fece insopportabilmente invitante, e a quel punto non riuscì più a resistere, vide i suoi occhi sbarrati solo per un istante prima di chinare la testa e affondare le zanne con violenza in quel punto così tenero, così bianco del suo collo. Lo sentì urlare con il poco fiato che gli era rimasto, e poi appesantirsi fra le sue braccia, svenuto.

 
Lasciami, lasciami, papà…
Basta…
No…

 

E finalmente, era in pace.

La sera dopo, seduto scompostamente sulla sua solita panca del pub, il bicchiere di birra in mano, penso che si era proprio divertito. Un altro presuntuoso con la bacchetta aveva avuto il cambio di prospettiva che si meritava, e lui aveva avuto il suo giocattolo della luna piena. Non gli importava veramente se il bambino era stato trovato o no, se Lupin era ancora vivo, ma ci sperava. Sì, sperava che il piccolo Remie tornasse dal padre e lo maledicesse per tutte le lune piene che sarebbe stato condannato a sopportare.
Per essere diventato una bestia.
Sorrise; un sorriso feroce.
“In bocca al lupo, cucciolo”.
 
 

Fu ritrovato, il bambino.
Suo padre, vivo per miracolo, lo cercò.

Lo trovò che piangeva, piangeva, piangeva.
Non riusciva a smettere.
Piangeva e tremava, stretto a suo padre.
Gli faceva male tutto, tutto.
Piangeva e tremava.
Non maledì mai suo padre, mai,
nemmeno quando questi gli disse la verità.
Nemmeno quando questi gli disse che era stata tutta colpa sua.

Mai Remus lo maledì.
Maledì invece quella bestia
che in una notte di follia gli aveva strappato la vita a soli quattro anni.
 
E quando, anni e anni dopo, si trovò di fronte proprio Fenrir Greyback,poté dirgli con fierezza:
- Hai sbagliato. Non sono mai diventato una bestia come te.
Queste furono le parole che gli disse prima di fare giustizia.
Prima di riprendersi la vita.

  
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