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Autore: Leireel    24/03/2011    23 recensioni
Tutto di me voleva tenerselo stretto, difenderlo dai morsi della coscienza con le unghie e coi denti e urlare che sì, era mio, e non mi importava di tutti gli altri, ne avevo bisogno anch’io. Me lo sono guadagnato! Sentivo il mio cuore gridare. Ne ho il diritto anch’io!
Erano solo patetici tentativi di ritagliarmi un po’ di felicità da quel quadro di orrori, giustificazioni che accampavo per convincermi che uno scenario in cui Ron e io non fossimo stati assieme non avrebbe mai potuto essere
giusto.
Prima classificata nel contest A kind of magic indetto da jaybree88 nel forum di Efp.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hermione Granger, Lavanda Brown, Ron Weasley | Coppie: Ron/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Nick autore: silvershiver (Leireel su EFP).
Titolo: Rolling in the deep.
Prompt: “One golden glance of what should be” (Queen, A kind of magic).
Pairing: Ron/Hermione,  Ron/Lavanda.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste.
Rating: Giallo.
Avvertimenti: What if…?
Note dell'autore: Il verso citato mi è stato d’ispirazione per l’intera storia, tanto da maritare una parafrasi al suo interno; stranamente mi ha comunicato immagini di malinconia e sconforto, da cui l’intera storia. Il what if si colloca subito prima dell’epilogo; ho provato a immaginare cosa sarebbe successo se Lavanda – ferita da Greyback durante lo scontro a Hogwarts – avesse in qualche modo richiesto, ancora convalescente, la presenza di Ron. Il risultato è tutto quello che segue, credo.
La citazione iniziale proviene da Harry Potter e i Doni della Morte; la canzone che ha prestato il titolo a questa storia è di Adele, e mi è stata molto d’aiuto nel ricreare l’atmosfera nella mia mente.

La storia si è classificata prima al contest A kind of magic indetto da jaybree88 sul forum di Efp, con un punteggio di 55/55. Non finirò mai di ringraziare jay per avermi dato l’opportunità di scrivere questa storia, e spero piaccia a voi tanto quanto è piaciuto a me scriverla.

 

Due corpi caddero dalla balconata e una macchia grigia che Harry prese per un animale attraversò l’ingresso a quattro zampe per affondare i denti in uno dei caduti.
«NO!» strillò Hermione, e con un fragoroso colpo di bacchetta spedì Fenrir Greyback lontano dal corpo di Lavanda che si muoveva appena.

Fu il suo nome, il primo suono a uscire dalle labbra di Lavanda. Probabilmente, se fosse successo una manciata di ore dopo, nessuno avrebbe avuto modo di sentirla; l’infermeria solitamente era così affollata da non lasciarci neanche lo spazio di ascoltare i nostri stessi pensieri, presi da un vortice concitato e stringente di frasi sussurrate e urla di dolore. Ma erano solo le tre del mattino, e noi tutti la sentimmo distintamente sconvolgere le nostre vite, come un’esplosione in pieno giorno.
Forse sono un po’ melodrammatica. L’unica vita sconvolta da quel «Ron» sussurrato a mezza voce, in realtà, fu la mia.

Rolling in the deep

«We could have had it all
You're gonna wish you never had met me
Tears are gonna fall, rolling in the deep
You had my heart inside of your hands»

(Rolling in the deep, Adele)

Non aveva proferito parola per due giorni interi. L’avevano soccorsa che ancora si dibatteva flebilmente, ma da quando era stata affidata alle cure di Madama Chips non si era mossa che di rado, complici forse le pozioni che le erano state somministrate per calmare il dolore. Aveva ferite e tagli dappertutto.
Non so dire perché io ricordi tanto bene certi dettagli; in quei momenti la mia attenzione era calamitata più dal dolore della famiglia Weasley che da qualsiasi altra cosa, e spesso ci ritrovavamo assieme, io, Harry e Ron, a stare abbracciati senza aver nulla da dire. Quella felicità che provavamo nel saperci tutti e tre vivi – era il più grande dei miracoli, senza dubbio – la manifestavamo quietamente, ancora scossi da tutto quello che era successo, ancora incapaci di reagire. Da parte mia, avevo il bisogno quasi opprimente di sentire la loro pelle sotto le mie dita: il contatto fisico era l’unica cosa che mi permettesse di realizzare che era tutto reale, che non sarebbero scomparsi davanti ai miei occhi, che non avrei più rivisto lo spettro della morte nei loro corpi candidi. Ogniqualvolta li vedevo allontanarsi per dedicarsi a qualcos’altro, una parte del mio cuore scoppiava in lacrime. Forse sentiva che quei momenti non sarebbero durati in eterno, o forse semplicemente sono più egoista di quanto mi piaccia ammettere. Li volevo tutti per me, per me e per nessun altro; credevo di averne il diritto, persino.
Calì era sempre al capezzale di Lavanda, a stringerle la mano e carezzarle i capelli, mentre cercava con gli occhi qualche segno che le dicesse che la sua migliore amica era ancora lì da qualche parte, che non era scomparsa del tutto. Accanto a lei, la signora Brown sedeva in silenzio, pallida ed emaciata: tormentava tra le dita un fazzoletto bianco, gli occhi fissi sulla figlia. Il marito, avevo scoperto in quei giorni, era in stato vegetativo da Natale, quando era stato attaccato da alcuni Mangiamorte. Il suo sguardo sulle lenzuola scomposte, terreo e vacuo, sembrava quello di qualcuno che ha appena incontrato un Molliccio; ricordo di aver pensato che i lettini d’ospedale non dovrebbero mai essere così familiari alla vista di una donna, chiunque essa fosse.

Eravamo rimasti a Hogwarts principalmente per Harry. C’è qualcosa, in lui, che quasi lo obbliga a farsi carico anche del dolore altrui; nonostante sapessi bene come l’unica cosa che desiderava fosse un po’ di intimità – lo sapeva benissimo anche lui, del resto – non riusciva proprio ad allontanarsi da quell’infermeria strapiena. Credo si sentisse scioccamente responsabile di tutte le vittime della guerra, e non erano bastate tutte le rassicurazioni da parte mia e di Ron per togliergli quello sguardo colpevole dal viso. Così, eravamo rimasti anche noi. Non avremmo potuto abbandonare Harry neanche a volerlo; l’immagine del suo corpo scomposto tra le braccia di Hagrid era impressa a fuoco nelle mie retine, e, nonostante non ne avessimo mai discusso, ero sicura che anche Ron provasse la stessa cosa. Ero sicura di tante cose su Ron, all’epoca.
Non avevamo avuto modo di sederci e parlare, solo io e lui, dopo la battaglia; c’era così tanto da fare, e così poco tempo per noi. Avevo iniziato ad aiutare madama Chips con gli incantesimi curativi più semplici, cullando ancora l’idea di diventare una Guaritrice, un giorno; era un sogno infantile che non avevo raccontato a nessuno, un po’ per scaramanzia, un po’ per il timore di deludere qualcuno. I depliant del San Mungo sono ancora nella mia vecchia stanza a Southampton, ad accumulare polvere e silenzi. Dopo quelle notti non ho avuto più il coraggio di riprenderli in mano.
Ron, da parte sua, cercava disperatamente di distrarsi dal dolore buttandosi a capofitto nella ricostruzione di Hogwarts; la McGranitt aveva accettato il suo aiuto con riluttanza, dopo aver fallito nel convincerlo a tornare a casa con la sua famiglia. Non voleva quasi metter piede nella Tana, e in tutta onestà non credo ci sia qualcuno che possa biasimarlo; rimanere a Hogwarts era una buona distrazione, almeno per un po’. Gli permetteva di non rimanere solo coi suoi ricordi.
Avevamo davvero un gran bisogno di parlare; io, almeno, sentivo l’urgenza quasi fisica di mettere in chiaro cos’era successo. Il ricordo di quel bacio sembrava in quei giorni più simile a un sogno; certe volte mi convincevo di aver immaginato tutto, di non essere riuscita a fare un passo avanti. L’avevo desiderato così tanto... Le sue labbra sulle mie sembravano un miraggio, al pari di tutte le fantasie intessute in quegli anni. Ancora adesso sorrido al ripensarci. Erano state veramente un miraggio, in fin dei conti: uno sguardo fugace a come tutto sarebbe dovuto andare, la promessa di un’oasi cui non ero mai arrivata. A volte mi dico che sarebbe stato meglio non vederla affatto, e vivere nell’illusione di non amarlo. Avrei potuto farmi forza, forse.
O forse no. Per tutta la vita non ho amato che lui; anche senza quel bacio, dimenticarlo sarebbe stato semplicemente impossibile.

Quella notte ci eravamo addormentati sulle sedie stringendoci piano le dita; il calore della sua pelle e il ricordo delle giornate a Grimmauld Place mi avevano strappato un sorriso prima che sprofondassi nell’incoscienza.

***

Era notte fonda quando sentii la voce di Lavanda. Era poco più che un sussurro, flebile e tremolante, tanto che all’inizio non riuscii neanche a capire cosa stesse articolando; Calì si era svegliata con un sussulto e le aveva stretto la mano, scrutandola preoccupata.
Mi riscossi dallo stato di dormiveglia in cui mi trovavo con una strana sensazione di ansia a stringermi il petto, un torpore che mi toglieva buona parte della mia abituale lucidità. Mi ci volle qualche istante per comprendere appieno le parole di Lavanda, e anche quando esse giunsero nitide alle mie orecchie rimasi quasi smarrita, come fossero suoni senza senso.
Solo dopo qualche istante riuscii a scrollare dolcemente Ron, cercando di svegliarlo nella maniera più quieta possibile. Ripensavo in maniera ossessiva al momento in cui era stato lui a mormorare il mio nome, steso in quello stesso lettino, poco più di un anno prima; mi ostinavo a non voler cogliere nessun collegamento tra i due fatti, a non dargli importanza. Non cambierà nulla, ripetevo. Non significa niente.
Ron mi rivolse un’occhiata interrogativa, ancora stropicciato e assonnato; non ebbi neanche bisogno di parlare – non so se ce l’avrei fatta, a dire il vero – che la voce di Lavanda risuonò ancora nell’infermeria silenziosa. Suonava come un lamento e una preghiera assieme.
Il volto di Ron era, se possibile, ancora più smarrito del mio; continuava a spostare lo sguardo da me a Lavanda, senza sapere che fare. Harry dormiva ancora, e ogni tanto lo sguardo di Ron cadeva anche su di lui, come se potesse dargli una qualche risposta. Fui a un tratto acutamente consapevole delle sue dita che sfioravano inavvertitamente le mie, e spostai di scatto la mano, tenendo gli occhi bassi.
«Hermione…» mormorò lui cercando il mio sguardo, quasi ferito. Calì si era voltata verso di noi, e mi sembrava di sentire la sua riprovazione scivolarmi sulla pelle come una coperta bagnata, gelida al punto da farmi quasi male. Come puoi essere così egoista? Non vedi che ha bisogno di lui?
Stavo immaginando ogni cosa, lo so; la mia coscienza proiettava su altri la mia costante necessità di fare la cosa giusta. Non che importasse qualcosa, comunque; faceva male lo stesso. Continua a far male allo stesso modo.

 

Non sapevo che dirgli. O meglio, sapevo esattamente cosa avrei dovuto dirgli, ma tutto di me voleva solo evitare la conversazione, ignorare quel bisogno cieco e pulsante di fare la cosa più giusta e andarmene, scappare da qualche parte con Ron, vivere la nostra vita insieme, com’era naturale che fosse. Tutto di me voleva tenerselo stretto, difenderlo dai morsi della coscienza con le unghie e coi denti e urlare che sì, era mio, e non mi importava di tutti gli altri, ne avevo bisogno anch’io. Me lo sono guadagnato! Sentivo il mio cuore gridare. Ne ho il diritto anch’io!
Erano solo patetici tentativi di ritagliarmi un po’ di felicità da quel quadro di orrori, giustificazioni che accampavo per convincermi che uno scenario in cui Ron e io non fossimo stati assieme non avrebbe mai potuto essere giusto. Non potevo combattere contro me stessa, lo sapevo. E la vita, quella non è mai giusta; non intenzionalmente, almeno.
Non sapevamo ancora se le cicatrici di Lavanda nascondessero realmente il segno della maledizione; ma, in quel caso, non aveva importanza. Aveva bisogno di qualcuno al suo fianco, qualcuno che la facesse sentire bellissima anche sotto quelle ferite e la baciasse in un giorno di pioggia e le tenesse la mano durante le notti di luna piena, sia che si fosse trasformata o meno; aveva bisogno di qualcuno al suo fianco, e Lavanda aveva scelto Ron. Poco importavano i miei sentimenti, le mie speranze e la mia felicità; persino quel miraggio dorato – quel bacio, quel dolcissimo bacio mentre la guerra infuriava e non c’era altro che noi – non mi sembrava che il sogno egoista di una ragazzina senza scrupoli. Forse qualcun altro avrebbe lottato, ma non io. Lo volevo per me, è vero; ma Lavanda ne aveva più bisogno, e non sarei stata io a rubarglielo, per quanto lo desiderassi.
Credo lo sapesse anche Ron, in cuor suo, che era così che le cose dovevano andare. Non poteva abbandonare Lavanda, non dopo tutte le sofferenze che anche – soprattutto – lui aveva dovuto patire, non dopo aver visto suo fratello, deturpato e ferito, ululare alla luna. Lo sapeva e non voleva accettarlo; aveva lo sguardo ribelle e oltraggiato di chi si vede strappare l’ultima cosa buona che gli ha lasciato la vita. Non è colpa mia, avrei voluto dirgli. È la vita a non essere giusta.

 

Fui io a spingerlo tra le sue braccia, con un discorso che doveva essere di incoraggiamento, ma che risultò troppo annegato da lacrime e dolore per riuscire ad avere anche solo un briciolo di persuasività. Fu l’ultima volta che parlammo a cuore aperto.
L’ultima cosa che ricordo di quella notte è lo sguardo che Ron mi rivolse prima di spostarsi al capezzale di Lavanda: ferito, limpido, senza lacrime. Non mi concedetti il lusso di guardarlo andare via da me; non appena sentii i suoi passi sul pavimento lucido, mi voltai e uscii fuori da quell’infermeria soffocante, un passo dietro l’altro, impedendo a me stessa persino di piangere. In quel momento desiderai che anche uscire da tutto quel dolore fosse così semplice.
Da allora non ci siamo visti che di rado; per quanto ci abbia provato, non sono mai riuscita a trovare il coraggio di rivolgergli la parola. Credo di avere semplicemente paura: paura che, alla fine, si sia convinto che sia tutto andato per il meglio, paura di vederlo illuminarsi quando parla di Lavanda, paura che si sia innamorato di lei e abbia scordato me.
Mi disse che mi amava, quella notte: conservo quel ricordo come il più prezioso dei tesori, accarezzandolo di tanto in tanto con tristezza e nostalgia, e mi dico che non ci sarà mai nessuno che potrà amarmi in quel modo. Di certo io non ci sono riuscita, ad amare qualcun altro.

A volte penso a come sarebbe andata se quella notte non mi fossi svegliata – se Lavanda non avesse mormorato il nome di Ron, se non fossi riuscita a convincerlo, se non l’avessi salvata io per prima dalle grinfie di Greyback – e mi sento orribilmente disgustata da me stessa, perché ci sono momenti in cui tornerei indietro e baratterei la sua vita con la mia felicità, solo per avere di nuovo Ron al mio fianco. E mi chiedo perché la vita debba far così schifo da portarmi addirittura a pensare che, se non fossi tanto nobile coraggiosa giusta stupida, forse non trascinerei i miei giorni nella tristezza. Da farmi desiderare che Ron sia infelice, e magari anche Lavanda, solo perché lo sono anch’io.
Sono attimi di debolezza che passano, dopo un po’, e mi lasciano tornare alla mia vita – casa, lavoro, qualche chiacchierata con Harry e Ginny quando sono di buonumore – senza troppi rimpianti. Basta rinchiudere sogni e memorie in qualche angolo buio e sperare di riuscire a dimenticare, un giorno. O almeno ricordare senza amarezza.

Sono quasi felice, in quei momenti. E quel miraggio dorato sembra un po’ meno vicino, almeno per un attimo. Tanto da farmi finalmente respirare, quasi libera.

   
 
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