Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |       
Autore: Marguerite Tyreen    25/03/2011    7 recensioni
Francesca, trent’anni, insegnante d’inglese, continua a sfuggire dal fantasma del suo ex, Enrico, tra i compiti da correggere, i disastri della collega Emma e qualche buon caffé al “James Joyce Irish Pub” di Sean. Le cose si complicano quando Enrico, bello quanto egoista, torna da lei, dopo mesi di promesse e illusioni, con il proposito di riconquistarla. Ma se Francesca per orgoglio non vorrebbe mai ammettere con l’ex di essere rimasta single aspettandolo vanamente e Sean avesse bisogno di una finta fidanzata da presentare al matrimonio del fratello in Irlanda, cosa potrebbe accadere? Può la magica Isola di Smeraldo far vibrare corde dell’animo di cui nemmeno si conosceva l’esistenza?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Miei cari,
questo è il mio secondo tentativo di scrivere una storia romantica in chiave brillante, in genere a chi è capitato di leggermi, sa che sforno certi melodrammi… Ecco, detto così vi avrò spaventati e sarete già scappati tutti. Se non lo foste – bontà vostra – vi auguro buona lettura e vi ringrazio per il tempo che mi dedicherete. Se volete anche lasciarmi due parole per sapere se vale la pena continuare, un altro grazie di cuore.
Un saluto,
Marguerite

 Alle Irlandomani di EFP
 

Imprevisti d'amore
Editor fotografico online

Immagine by PIEMME  

Prologo: Un leprechaun che fischia, un anello e una telefonata

 
 

Padova, 29 maggio 2010
 
C’erano solo due certezze nella vita di Francesca Fortini e, francamente, lei non ne voleva altre.
Amava troppo prendere la vita come veniva, senza essere sempre costretta a pianificare ogni istante, perdendo nella prevedibilità tutto il brivido dell’imprevisto.
Aveva impiegato trentadue anni per arrivare a sentenziarlo, ma ce l’aveva fatta.
Due certezze. La prima era che il leprechaun di ceramica, appollaiato sul bancone del “James Joyce Irish Pub”, fischiava all’ingresso e all’uscita di ogni cliente.
La seconda gliel’aveva rivelata il proprietario del suddetto leprechaun nonché del suddetto pub, in una sera di particolare tristezza e dopo una Guinness in più del dovuto. Quello che non si può curare con il burro o con il whisky allora non si può curare affatto.
Cominciava a credere che fosse vero, Francesca.
Per quanto si potesse tentare di applicare del burro sulle ferite del cuore, come se fossero state bruciature della pelle, non c’era verso di curarle. Eppoi aveva anche letto da poco su una rivista che il burro sulle ustioni non andava affatto bene, contrariamente a quello che aveva sempre pensato.
E, neanche a dirlo, lei non beveva mai whisky. Anzi beveva pochissimo, a essere sinceri, nonostante frequentasse assiduamente il “James Joyce” da anni. Ma c’era qualcosa, in quel luogo, che sapeva di magico, di casa, più di quanto non lo fossero le due stanze in affitto che poteva permettersi da insegnante in trasferta.
Poi, ormai, conosceva talmente bene il gestore e gli avventori, che nessuno si meravigliava più di vederla correggere i compiti seduta a tavolino, centellinandosi un caffé.
Le sembrava meno noioso, a lei che viveva sola, sfregiare con litri d’inchiostro rosso le composizioni e le aspettative dei suoi studenti.
- Cos’abbiamo, questa volta,  professoressa? – le chiese Sean da dietro il bancone, strofinando pigramente i bicchieri col canovaccio.
- Yeats! – rise lei -  Un tuo connazionale. Ma ai ragazzi sembra non essere piaciuto molto – e piegò nuovamente la testa sui fogli.
- Cosa vuoi, l’Irlanda va vista, altrimenti non ha la stessa magia.
Già, la magia. Dell’Irlanda sapeva solo quello che aveva letto sui libri o visto attraverso gli occhi degli autori che aveva studiato. Di Sean O’Brien sapeva ancora meno, nonostante frequentasse il “James Joyce” da quasi tre anni. E dire che non era un tipo taciturno, lui. Ma del perché avesse lasciato il suo paese e si fosse stabilito in quella città italiana del nord est che aveva ben poco da spartire con i verdi prati e i castelli di Erin, nessuno era mai stato certo. Si vociferava per una donna, di cui però null’altro si conosceva, se non che non era più assieme a lui, dato che lamentava frequentemente la sua solitaria vita da single. Gli lanciò un’occhiata furtiva.
Doveva avere qualche anno più di lei, i capelli di un biondo rame che denotavano la sua provenienza senza lasciare troppi dubbi e, a farlo apparire più giovane, una spruzzata di lentiggini sul naso. Ma quello che aveva di particolare erano gli occhi, che non si sarebbero detti verdi, se non a qualche specifica angolazione di luce. Non sapeva dire se fosse o meno un bell’uomo. A dire il vero, non ci aveva mai nemmeno pensato. Era il personaggio ideale per un racconto, quello sì, uno si quei racconti che scriveva poi teneva nascosti in un cassetto per paura che finissero nelle mani di qualcuno.
Chissà chi era la donna in questione: sarebbe stata una notevole fonte di ispirazione.
O l’intero “James Joyce”, i suoi frequentatori, i suoi studenti del liceo che incontrava al sabato sera, la pioggia che batteva insistente erano un’inesauribile fonte di ispirazione, se non fosse stato per quei compiti su Yeats da correggere.
La pioggia. La pioggia che cadeva incessantemente da quel pomeriggio, dando un umido benvenuto a giugno che avanzava. Sì, perché si era già al 29 di maggio. Il 29 di maggio!
Avesse potuto cancellarla quella data in cui, tre anni prima, Enrico l’aveva scaricata.
Enrico, se l’avesse incontrato adesso gli avrebbe cavato gli occhi con gli stuzzicadenti che i suoi studenti, nel tavolo di fronte, avevano scartato dalle olive.
È inutile che sprechi del fiato e della bile, si disse, tanto se te lo trovassi qui, in questo momento, gli stenderesti il tappeto rosso, gli getteresti le braccia al collo e gli diresti che lo ami. Perché è vero, scema, lo ami ancora. Nonostante tutto, lo ami ancora.
Mandò giù un’altra sorsata di Irish coffee e deturpò con un tratto deciso un periodo ipotetico che non sarebbe stato su nemmeno con un’impalcatura di sostegno.
Lo sai, Francesca Fortini, sei davvero la più stupida e degna protagonista del peggior romanzetto rosa che si possa scrivere. Nemmeno Moccia sarebbe riuscito tanto bene nell’impresa.
La 5^D, quasi al completo, festeggiava i diciannove anni della Rossini, una delle sue allieve più appassionate, che sapeva Shakespeare a memoria e conosceva The rime of the ancient mariner meglio di lei. Le sarebbe dispiaciuto lasciarli, dopo l’esame di stato.
La penna infierì spietata questa volta su un’ardita invenzione del passato del verbo “to think”, e lei si sentiva sempre più stupida. Anche se aveva lasciato Bologna, in cui era nata e vissuta, mettendoci quanti più chilometri era riuscita a farsi concedere col trasferimento, le cose non erano tanto cambiate. Tecum fugis. Seneca era tornato a tormentarla. Ma più che con se stessa era fuggita col fantasma di un vecchio amore.
E quello, per quanto Sean non ne sapesse niente, non si curava né col burro né col whisky. Ma non c’era giornata nera che almeno quel caffé non sapesse rischiarare.
Il leprechaun fischiò come al solito. Una risata argentina avvolse il locale, il fracasso di una borsa di pelle di dimensioni spropositate che urtava una delle sedie attirò l’attenzione della metà dei clienti.
Una valanga di fogli e libri che si rovesciava sul pavimento con inquietante scroscio.
- Oh, cielo, li avevo anche tutti corretti! E pensare che è l’unico compito in cui la metà della classe ha preso la sufficienza.
Emma. Fu il suo primo pensiero. Nessun altro sarebbe stato capace di portare un simile macello in quella manciata di minuti.
Appunto: Emma, un terremoto compresso nel corpo di una donna, che sembrava volersi esprimere nella massa riccia e informe dei suoi capelli biondi.
- Guarda che casino! – fece lei, appoggiandosi al suo tavolo.
- Vedi di non mischiarli, che poi lunedì consegno dei polinomi o delle frazioni, al posto di Yeats.
- Bambina, qui non stiamo mica a pettinare le bambole! Altro che polinomi, viaggiamo già con la trigonometria.
Francesca si finse sorpresa, agitando a mezz’aria la mano.
- Ma tu, non hai di meglio da fare che stare alle nove di sabato a correggere i compiti in un pub? – Emma ricacciò i compiti nella borsa.
- Sì, avrei da insegnare al leprechaun a dire “Erin go bragh”, ma non ne vuole sapere.
- Ma quanto sei matta? No, a parte gli scherzi, Fran, io sono preoccupata. Ma con Parenti, quello di filosofia, com’è andata? Non siete usciti un paio di volte?
- Tre, per l’esattezza. Una ad un convegno sulla metempsicosi nella filosofia di Giordano Bruno. La seconda a vedere un film strappalacrime, con lui straconvinto che  tutte le donne amano notoriamente piangere, altrimenti non apprezzano la pellicola. E l’ultima ad una rassegna sul cinema muto russo.
- Senti, sembra una barzelletta, Fran: l’ultima scelta è di un romanticismo sconcertante anche per me che sono un’arida donna dei numeri. Hai fatto bene a lasciarlo perdere, accidenti che noia. Non credevo, sai, altrimenti mica ti avrei convinta.
- E’ stata mia, la decisione, volevo scoraggiarlo.
- Così ci sei riuscita di sicuro. Ma perché, Fran? Dopotutto, tre anni di lutto per una storia finita male sono più che sufficienti.
- Lo so, a livello razionale lo so. Ma è che Enrico è, come dire?, lui è…
- Uno stronzo?
- Ti dirò: non era questa la parola che cercavo ma…
- Ci sono andata vicino.
Scoppiarono a ridere: c’era sempre stata sintonia tra di loro.
- Ma tu, piuttosto, non dovresti essere con Giulia, stasera?
- Giulia è a Milano, a un convegno di chirurgia. Da quando è primario, la vedo sempre meno. Ma è il suo lavoro – il volto di Emma si illuminò di tenerezza – e io la amo troppo per farglielo pesare.
- Almeno voi state bene insieme… - sospirò.
- E la Rossetti si fa suora! - cantilenò il gruppo, nel pieno, certamente, di uno scherzo organizzato ai danni della festeggiata.
- No che non mi faccio suora!
- Non l’abbiamo mica stabilito noi. È colpa di James Joyce, tu dovresti saperlo bene!
Francesca rise di quella predizione improvvisata, come quella che James Joyce aveva raccontato in Dubliners, dove al candidato a cui doveva essere letto il futuro venivano disposti davanti vari piattini fra i quali, egli, bendato, doveva sceglierne uno.
Il contenuto del piattino indicato avrebbe simboleggiato l’avvenire della persona in questione.
E c’era proprio tutto, constatò avvicinandosi, persino il breviario che avrebbe predetto la vita di monastero alla Rossetti.
- Ne sapete una più del diavolo! – rise, rivolta ai suoi ragazzi, scrollando benevolmente la testa.
- Alla Chiara, visto che ama tanto quel mattone di Joyce, dovevamo farglielo sto scherzo. Siamo anche nel posto giusto.
- Prof, vuole provare?
- No, no, per carità: divertitevi voi.
- Via, cosa le costa?
I suoi modi alla mano avevano suscitato da subito simpatia nelle sue classi.
- Va bene, proviamo pure… - si arrese. Chiuse gli occhi e poi: - Scelgo questo.
Fu sommersa dalle congratulazioni.
- L’anello, l’anello! Si sposa entro l’anno, prof!
Sorrise anche lei, nascondendo l’amarezza. La sua presenza sembrava suscitare in loro tutt’altro che soggezione, ma tornò comunque al suo tavolo.
Il cellulare prese a squillare, inaspettatamente.
Le mancò il fiato, nel leggere il nome sul display.
Enrico.
Lasciò che suonasse. Una, due, tre volte.
Poi spinse il tasto verde e, fredda: - Adesso non posso, ti richiamo io.- prima ancora di lasciarlo parlare.
Adesso non posso.
No, non sarebbe stata abbastanza lucida.

 

   
 
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Marguerite Tyreen