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Autore: Ekathle    27/03/2011    1 recensioni
L'incipit è la fine del famoso racconto di Poe "La casa degli Usher", ma non ha niente a che vedere con il racconto originale. E' una storia nuova, che utilizza il racconto di Poe solo come ambientazione. Scritto per una sfida di scrittura (ecco perchè quell'incipit, era il tema della sfida). Spero vi piaccia! Sono curiosa di sapere il vostro parere
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Notte Antica
 

 

Da quella camera e da quella casa io fuggii inorridito. L’uragano infuriava ancora in tutta la sua collera mentre io attraversavo l’antico sentiero selciato. A un tratto rifulse sul viottolo una luce abbagliante e io mi volsi a guardare donde poteva provenire un così insolito fulgore, poiché dietro di me avevo soltanto l’immensa casa e le sue ombre. Il chiarore proveniva dalla luna calante, al suo colmo, sanguigna, che ora splendeva vividamente attraverso l’unica fessura appena discernibile di cui ho già parlato, e che si stendeva dal tetto dell’edificio in direzione irregolare, serpeggiante, fino alla sua base. Mentre guardavo, questa fessura rapidamente si allargò, il turbine di vento infuriò in un supremo anelito, tutta l’orbita del satellite si rivelò improvvisa alla mia vista, il mio cervello vacillò, mentre i miei occhi vedevano le possenti mura spalancarsi, s’intese un lungo tumultuante urlante rumore simile al frastuono di mille acque, e il profondo stagno ai miei piedi si chiuse cupo e silenzioso sui resti della casa.
Continuai a correre a perdifiato giù per la collina ignorando il dolore lancinante che mi perforava il petto. I fogli della tesi che avevo tenuto sottobraccio volteggiavano impazziti sopra la mia testa, e io li scacciai via come mosche fastidiose. Maledizione alla mia curiosità e alle ricerche riguardo alle dicerie sulla casa dei Carter! Il vecchio aveva ghignato, e quella luce! –gli occhi mi bruciarono al solo ricordo. Non me l’ero immaginato, rivedevo quella sua bocca congelata da anni muoversi lentamente, come risvegliandosi da un lungo sonno, e trasformarsi prima in un sorriso stiracchiato, poi in una risata, malvagia come l’aura che circondava la casa. Avevo fatto in tempo a malapena a lasciar cadere la fotografia e ad osservare il vetro frantumarsi al suolo, e poi la casa si era suicidata, stridendo come la risata della foto.
Il mio cervello era preda di questi pensieri, e intanto le mie gambe volavano; la luna, che aveva vegliato su di me illuminando con la sua luce livida e tuttavia confortante il sentiero che portava al paese, aveva appena cominciato a scendere e già la piazza silenziosa, spazzata dal venticello dell’uragano lontano, si apriva ai miei occhi. Ero salvo.
Le casette tutte uguali lungo il viale lastricato erano immerse nel sonno. Mi domandai come facessero, udivo mille passi che mi seguivano, le gocce della recente pioggia precipitavano dalle foglie delle siepi con tonfi prepotenti come percussioni che mi facevano sussultare. Percorsi meccanicamente la via che portava alla mia abitazione; i piedi mi guidavano, mentre la mente scorreva per la centesima volta ogni fotogramma di ciò che era successo. Il ghigno, gli occhi, il crollo, il ghigno, gli occhi…
VROOOM! Una moto che sfrecciò lungo la strada mi strappò via dal turbine di immagini che vorticavano sempre più veloci nel mio cervello. Misi a fuoco la visuale: avevo appena sorpassato la porta di casa, le mie gambe ormai erano in un mondo a parte. “Complimenti a voi, volevate riportarmi a dare un salutino al vecchio mattacchione eh?”. La stizza lasciò il posto ad un sorriso tirato non appena mi resi conto che stavo parlando con i miei piedi, “ e non li conosco tanto bene, non avevo messo le scarpe blu? Perché sono nere? Ah beh, al buio tutti i gatti sono bigi”, e con aria filosofica mi cacciai le mani in tasca per cercare le chiavi.
Quello che seguì fu decisamente meno socratico: rivoltai tutto ciò che avevo indosso, ma neanche l’ombra di quei maledetti pezzi di ferro. Il mio urlo dovette essere piuttosto forte perché la signora della casa di fronte mise la testa piena di bigodini fuori dalla finestra e mi intimò il silenzio. Neanche il tempo di aprire bocca per domandarle aiuto, e lei aveva già sbattuto gli scuri lasciandomi solo come un cane. Seduto sul gradino, pensai, rigirandomi tra le mani la giacca. Un momento, io ero partito da casa in maglietta. Da dove veniva questa giacca di tweed scozzese? D’istinto la lanciai lontano, indovinando che la sua provenienza dovesse essere la vecchia casa, e per un po’ rimasi a fissarla circospetto come si fa con qualche insetto particolarmente ripugnante. Tuttavia il vento dispettoso che soffiava sul mio collo nudo mi fece rapidamente cambiare idea e riagguantai la giacca per coprirmi. Magnifico. Ora restava solo il problema di come entrare in casa, giacché di tornare a cercare le chiavi tra le rovine non se ne parlava proprio.
Alla fine prevalse in me lo stesso spirito avventuroso che mi aveva portato in quella casa, e malauguratamente decisi di assecondarlo di nuovo. Dopo un balzo non molto agile, penzolavo dal balcone della camera.
Scalare le pareti lisce di una casa è un’impresa a dir poco titanica, e quando finalmente le dita toccarono il marmo gelido del balconcino, avevo già mentalmente insultato ogni minimo particolare della giornata appena trascorsa. Mi tirai su, ritrovandomi seduto sul bordo della finestra; una leggera brezza mi accarezzava il viso. La mia mente però non era affatto calma; mi voltavo continuamente verso il buio all’interno della casa, spaventato all’idea di immergermi in esso, e in ogni momento i miei occhi cercavano quelli del vecchio, la sua bocca storta in una smorfia di disprezzo verso di me, profanatore di segreti, che gli avevo turbato la pace della morte.
Mi voltai di scatto verso la casa di fronte, e vidi una bocca. Non la sua però, bensì quella della signora in bigodini; non in atto di deridermi, ma aperta in un urlo di terrore. Poi caddi dal balcone.


Il resto è una nebbia confusa, e più cerco di ricordarlo, più immagini torbide mi si accavallano nella mente turbinando, finché il mio cervello non protesta e mi intima di conservare il ricordo così com’è, un frastuono di luci e colori.
Forti braccia in giacca blu mi alzarono da terra, costrinsero i miei piedi a sorreggermi e i miei occhi a vedere; lo scintillio metallico del distintivo, che recava scritto Polizia, li abbagliò per un istante. Tra la folla di signori di mezz’età assonnati e nottambuli appena usciti dal bar, tutti riuniti per assistere a quello che prometteva essere l’argomento di conversazione per parecchio tempo, molte facce incuriosite mi fissavano e dal loro sguardo non sembravano vedere il loro ormai abituale vicino di casa, ma anzi mormorii confusi e indistinti passavano tra di loro, una Babele di mezze frasi e sussurri che morivano prima che li potessi udire.
Cercai di risvegliarmi dal sogno in cui dovevo per forza essere immerso, ma per quanto scuotessi la testa le mie braccia restavano bloccate strettamente dietro la schiena, finché fui costretto ad ammettere che ero più sveglio che mai. Come potevo venir arrestato davanti a  casa mia? Come potevano il lattaio, il fornaio, la pasticcera di cui ero cliente abituale e che in quel momento sbirciavano da sopra le spalle del poliziotto fissarmi così, come se non mi avessero mai visto prima d’ora?
Un momento dopo mi divincolavo e urlavo e la folla si ritraeva spaventata, ma non mi diedi per vinto e continuai a rivendicare strillando la mia identità, pregandoli, ma quelli si allontanavano sempre di più, o forse mi stavano trascinando via, non lo so, non osavo chiudere gli occhi per paura che una volta riaperti non ci sarebbe stato più nessuno. Quando non ebbi più fiato, finalmente levai gli occhi e sentii che il silenzio più totale era calato sulla strada e sulle persone, ma non un silenzio piacevole, bensì una calma innaturale, come quella che precede le tempeste più violente e ti culla nella falsa speranza che tutto andrà bene.
Una vecchina si stava facendo largo tra i curiosi: mi fissò e sembrò riconoscermi e mi puntò un dito artritico contro: “Non può essere…”. La sua voce era niente più che un sussurro, eppure rimbombò nel mio cervello. “ E’ morto troppo tempo fa…”. Mosse pochi incerti passettini nella mia direzione, sfoderò il crocifisso dalla vestaglia di flanella e “Vattene, servo di Satana! Ritorna nell’ombra della tua casa!” tuonò, con una potenza che non avrei mai immaginato possedesse, la cara e fragile nonnina.
La scena sarebbe stata veramente comica, se gli astanti non l’avessero presa sul serio. Invece all’improvviso le voci si ridestarono, più forti, un crescendo di sospettosi cenni d’assenso, come se avessero capito davvero! Sentii un distinto “Assassino!” provenire dal fondo, ma non seppi mai a chi appartenesse la voce. Man mano che tutti mi si avvicinavano invece, io venivo tratto indietro fino a che la porta della volante si chiuse dietro di me e le sirene squarciarono l’aria della notte.
Durante il tragitto cercai come meglio potevo di riassettarmi i capelli e gli abiti: il mio aspetto doveva essere talmente alterato da farmi sembrare addirittura un'altra persona, e del resto ciò che era successo in quella casa non era stata una passeggiata. Ma il pensiero che dovesse esserci qualcos’altro che non andava mi ronzava fastidiosamente per la testa. Come spiegare altrimenti le espressioni dei due agenti, nei cui occhi vedevo guizzi di autentica paura? La situazione era così paradossale che non riuscivo a formarmi un’idea plausibile, eppure ogni pensiero si ricollegava senza motivo alla vecchia casa e al suo misterioso crollo, poiché nonostante essa fosse decisamente un rudere fatiscente non aveva mai manifestato intenzione di abbandonare la sua posizione di guardia in cima alla collina.
Fui portato alla centrale, e per quanto frugassi in ogni angolo della giacca che mi ero trovato addosso, non c’era traccia di documenti. Ciò sembrò abbastanza per trattenermi, e mi scortarono in una stanzetta dove, mi dissero, avrei dovuto aspettare fino a nuovo ordine.
L’intera faccenda stava cominciando a stufarmi; si trattava certamente di un grosso equivoco e non ero disposto a pagarne le conseguenze. Il pezzo grosso in divisa che venne ad interrogarmi non prestò la minima attenzione alla mia versione, e si limitò ad alzarsi dalla sedia dicendomi di aspettare ancora. Era ora di finirla.
Non so ancora quale demone folle si impadronì di me, o con quale forza riuscii a fracassare la sedia sulla testa dell’agente; l’unica cosa certa è che poco dopo stavo correndo nella notte, con un senso di libertà che mi riempiva il cuore e alimentava le gambe, portandomi in salvo.
L’urlo acuto delle sirene si affievolì pian piano, finché a farmi compagnia rimase solo il mio respiro concitato. Non avevo idea di dove stessi andando, ma ciò non mi tormentava, anzi mi sentii stranamente contento di allontanarmi dal marasma delle ore precedenti. Passando accanto ad un’auto parcheggiata, gettai uno sguardo allo specchietto retrovisore, illuminato dalla luce del lampione, e mi fermai di colpo. Il vecchio proprietario della casa era accanto a me.
Quando ebbi levato le mani dal volto e il mio grido si fu sopito, girai su me stesso e non vidi nessuno, eppure i miei occhi non si erano ingannati. Il suo volto era lì, riflesso nel minuscolo vetro, e come misi una mano davanti a me in difesa, la mise anche lui. E ogni gesto che facevo, ecco ch’egli lo ripeteva, infilato nella mia stessa giacca: che avessi preso per sbaglio la sua? La pozzanghera limpida ai miei piedi sciolse l’arcano, creandone uno ancora maggiore: io abitavo il suo corpo.
 
La chiesetta era immersa nell’ombra, anche le statue dormivano in attesa del nuovo giorno, coperte da un telo che le faceva assomigliare a fantasmi immobili e sospesi, pronti ad attaccare. Quando varcai la soglia però, nel mio cuore non c’era spazio per la paura, né per qualsiasi altro sentimento, ma vi si agitavano dentro una moltitudine di emozioni, violente e tranquille, spaventate e curiose.
L’idea della chiesa era stato un lampo di genio. Ragionando in modo lucido e preciso, come accade solo nei momenti in cui si è veramente sconvolti, e la nostra ragione cede il passo a quell’istinto che ci appartiene fin dalla nascita e che spesso ci conduce in salvo, avevo supposto che, se l’adorabile vecchina mi aveva minacciato con il crocifisso, il vecchio corpo in cui mi trovavo non aveva dovuto essere un assiduo frequentatore di luoghi sacri, e conoscendo la gente, ora quelli lì fuori non cercavano più me, ma bensì il vecchio Carter, e quindi sarei stato decisamente al sicuro.
Un cappellano disordinato aveva lasciato accanto al portacandele una scatoletta semivuota di fiammiferi: ne presi un paio e poco dopo un confortevole tepore si diffuse per la fredda navata; la luce calda dei ceri aveva sempre avuto un effetto calmante su di me. Seduto su un banco di legno, esaminai a più riprese la mia situazione, senza peraltro cavarne il proverbiale ragno dal buco. Nella tasca dei pantaloni, tra pezzi di intonaco e polvere, avevo scovato anche un foglietto ingiallito dall’aria antica, su cui però non c’era alcuna scritta e che, conclusi, doveva essere inutile. Appoggiai la testa sul banco, avvicinandomi alle candele, e abbandonai il mio cervello alle sue fantasticherie.


Mi svegliai con le gocce di sudore che scendevano giù fin dentro al colletto della camicia. Dovevo essermi addormentato, e durante il sonno mi ero spostato, portandomi con il viso accanto alle candele. Per fortuna che il vecchio era praticamente calvo, o sarei diventato io stesso un cero votivo. Mentre riguadagnavo possesso di me, lo sguardo mi cadde sul pezzetto di carta piegata che avevo appoggiato sotto al portacandele, per non rovinare il bel legno lucido con le gocce di cera. La cera colata si era depositata sul foglio, ma anziché fonderlo come sarebbe stato naturale, si era come volatilizzata, e dove era caduta, al posto della macchia erano comparsi segni di inchiostro rosso. Parole. Mano a mano che la cera fusa crollava sulla carta, una mano invisibile intrecciava lettere sinuose, rosso vivo, fluide come un rivolo di sangue. Scottandomi appena, levai i residui dal foglio finché non fu pulito e facilmente leggibile, e lo accostai agli occhi. L’inchiostro odorava di ferro, esattamente come il sangue. Brrr, non voglio pensarci.
Ci misi credo un’oretta abbondante per venir fuori da quel labirinto di schizzi, ma quando ebbi finito, subito mi sentii più tranquillo. Basta vagabondare, era giunta l’ora di riprendermi il mio vero corpo, e sapevo esattamente come fare.


Forse vi starete chiedendo cosa mai possa spingere una persona di senno, come spero abbiate capito che io sono, a tentare una formula magica ripescata nelle tasche di un cadavere maledetto per ritornare nel proprio corpo. Questa domanda in effetti mi tormentò per tutta la lunga e penosa strada fino al luogo in cui era sorta la casa. L’idea di praticare un rito che aveva tutta l’aria di essere magia nera, a cui non credevo ma che data la situazione non era da escludere, non mi attirava e arrivai addirittura a pensare se rifare lo scambio di corpi mi avrebbe portato qualche vantaggio: così ridotto, il direttore della mia banca non mi avrebbe mai riconosciuto e non avrei dovuto pagare lo scoperto sul conto, mi dissi sorridendo. Ma mentre mi inerpicavo per il sentiero, una luce bianca mi illuminò di colpo, e  mi aspettai di sentire nelle orecchie i passi dei poliziotti, le urla della gente, i latrati dei cani, tanto che mi gettai a terra facendomi scudo con le braccia. Invece la luce di colpo si oscurò, e alzati gli occhi, essa si rivelò essere solo la luce della luna, ora coperta da un grosso nuvolone. Non potevo vivere così, era necessario tentare.
Oltrepassai il grande arco in ferro battuto del giardino che già cominciava ad albeggiare, e il sole spandeva la sua luce rossastra sui resti della casa, donandole un aspetto meno minaccioso, più magico; e dato quello a cui mi accingevo, non poteva essere che una nota positiva.
La prima cosa che feci fu rovistare tra le rovine in cerca del mio corpo, e dopo aver sollevato qua e là alcune assi marce della veranda, eccolo! Giaceva immobile, bello, disteso prono sull’erba. Ero io, o meglio il mio corpo. La felicità che sgorgò in me come da una cascata fece sì che non facessi alcuna fatica a trasportarlo al centro di uno spiazzo libero dalle assi, dove avrebbe avuto luogo il mio ritorno a casa. Senza indugiare troppo a guardarlo, impaziente com’ero di riprenderne possesso, presi ad ammucchiare alcune assi della casa maledetta e poi, seguendo le indicazioni, vi  appoggiai la foto del vecchio, che il mio corpo stringeva in mano.
Bruciai le assi, non senza un qual certo senso di vittoria, e raccolsi la cenere. Infine, creai un cerchio con sassi bianchi e neri che avevo raccolto, e posizionai il mio corpo all’interno, per poi distendermi a fianco. Era ora. Dissi mentalmente addio al mondo sfocato del vecchio proprietario e sparsi la cenere sui nostri capi, recitando la formula rituale appuntata da Carter.
Il cerchio si mise a girare vorticosamente, i sassi erano una lunga scia grigia, il senso di incoscienza si impadronì di me, stavo per perdere i sensi. Trovai la forza di sorridere e tirai a me il mio corpo affettuosamente, per dargli il benvenuto, per vedere il bel viso di ragazzo che tra poco sarebbe stato nuovamente il mio. L’ultima cosa che vidi, prima che il rituale si compisse, fu il largo squarcio che attraversava il mio petto.
 
Mi sono chiesto spesso cosa si provi a morire. Immaginavo il nulla assoluto, semplicemente il non svegliarsi più. Invece, in quei pochi secondi in cui la mia anima si staccò dal corpo del vecchio, entrò nel mio e subito se ne volò via, ebbi piena coscienza di ciò che stava avvenendo, e la mia parte ancora terrena urlava e pregava per tornare indietro, ma durò un attimo. La pace si impadronì di me, e sorrisi ironicamente al ripensare a tutte le maledizioni che avevo lanciato al vecchio e alla casa, per avermi privato del mio corpo.
Ah, se voi uomini poteste vedere ogni minima sfumatura di ciò che vi accade, quanti dolori risparmiereste, se pensaste prima di ogni altra cosa che non tutto ciò che sembra malvagio lo è davvero! Quanto a me, il mio ultimo scopo, quello di avvertirvi, l’ho portato a termine. Ora mi inghiotta l’oblio.
  

  
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