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Autore: BlackClover    28/03/2011    5 recensioni
Questo capitolo che vede i primi confronti e divergenze che il giovane Ciel Phantomhive nutre e affronta con il suo Demone, è ambientato in uno scenario quotidiano. Spero di riuscire a rendere l'atmosfera che poteva aleggiare tra i due agli albori e allo stesso tempo, muovere bene un personaggio dall'intelligenza così particolarmente acuta e al suo carattere apparentemente sempre grigio del nostro piccolo conte.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ciel Phantomhive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il suo Maggiordomo


 




I suoni e la luce del mattino filtravano attraverso le imposte aperte dello studio, relegato come sempre nel silenzio di una grigia penombra. Si sentiva solo il fruscio dei fogli, mentre il vento giocava a creare scompiglio sulla superficie levigata della scrivania. Un foglio svolazzante andò a sfiorarmi il dorso della mano e lentamente aprii l’occhio sinistro  a contemplare di nuovo il fondo bianco della tazza. A quanto pare mi ero nuovamente appisolato lì in quella stanza e forse avevo dato l'ordine di lasciarmi in pace. Avevo la bocca come impastata e le palpebre ancora pesanti, segno che mi ci voleva senz'altro un'altra tazza di Tea e forse un bagno caldo. 
Tentai di raccogliere i fogli su cui avevo passato una intera nottata, ma poi vidi che ne giacevano molti ai miei piedi e altri si erano sparpagliati ovunque per il tappeto che ricopriva lo studio.
Esalai stancamente un profondo respiro e mi lasciai andare lungo lo schienale imbottito della poltrona: Alzarmi a raccoglierli, era fuori questione.
La testa mi pulsava dolorosamente così sfilai la benda e lasciai incurante, mi scivolasse sul petto. Cercai di darmi conforto massaggiandomi le tempie provando inutilmente a rilassarmi, ma abbandonai presto ogni tentativo.
Il freddo di Londra entrando dalla finestra era venuto a farmi visita:
Puntuale, come al suo solito. 
Ignorandolo, contemplavo il bordo della tazzina passando con le dita lungo i tratti delicati del manico. Stavo solo indugiando, finche potevo permettermelo. 
Seppur lui  è solo un mezzo fine ai miei scopi, non sapevo privarmi di covare del risentimento ogni qualvolta mi accingevo a pronunciare il suo nome, così ero solito a dilungare i tempi, per i più delle volte. Ma anche nella mia svogliatezza, dovevo convenire che, non potevo fare a meno di chiamarlo. A meno che, oltre a dover sorbirmi la sua impeccabile farsa di ogni giorno non intendessi avere a che fare con il suo insopportabile sarcasmo anche a letto, mentre è alle prese con un mio eventuale raffreddore.

Con una protesta da parte delle mie ginocchia, mi alzai lentamente dalla poltrona per riattivare la circolazione alle gambe poggiando la benda con poca curanza, sopra la scrivania. Camminai avanti e indietro per un po’, memorizzando nel frattempo le intricate trame del tappeto che mi portarono a studiare la massiccia libreria in  mogano scuro che prendeva gran parte della parete sinistra dello studio, da che io ricordi era sempre stata colma di volumi. Erano meticolosamente in ordine catalogati per grandezza, autore, casa editrice, anno di pubblicazione e poi suddivisi ulteriormente per argomento in vari settori con una attenzione quasi maniacale. Di certo io non ero così pignolo e meticoloso. Il disordine, come si poteva vedere dai fogli che ancora mi svolazzavano intorno, non mi preoccupava granché. Sfiorai con i polpastrelli il dorso ruvido delle copertine scorrendovi sopra le dita pigramente leggendo i titoli. Per la maggioranza erano tutti volumi che conoscevo a memoria e altri invece, in anni, vi avevo semplicemente dato una svelta occhiata. Ma quella in realtà non era niente, se volevo paragonarla, all’immensa libreria che giaceva al secondo piano in cui solevo mettere piede raramente. Non che avessero solo una funzionalità estetica, semplicemente erano libri ereditati da generazioni e generazioni, che riguardavano arti, opere, manoscritti o studi che avevano appassionato i miei avi lungo lo scorrere del loro tempo. Ma che non riuscivano ad’appassionare me.

Il mio interesse da qualche anno, era divenuto uno solo.

Ironico pensare che tanta cultura era destinata ad’andare perduta e ad’ammuffire sepolta dalla polvere con me, l’ultimo erede della famiglia Phantomhive.
Distratto da quel pensiero, mi soffermai un momento di fronte alla finestra da cui una folata d’aria gelida continuava ad’entrare. L’esterno sembrava immobile e silenzioso, avvolto in una tenue foschia bianca. Nell’ampio cortile d’ingresso la scultura in pietra levigata di una donna versava da una brocca dei limpidi rivoletti d’acqua al centro della fontana, imprigionata per sempre in quell’unico gesto.
In quel silenzio, l’unica cosa che si poteva udire erano i cinguettii che arrivavano dalla foresta circostante, con il sopraggiungere delle prime luci del mattino. Per il resto, ogni cosa sembrava regnare in uno stato di pace. Il ché, era piuttosto insolito.
Per di più, gli alberi del viale avevano tutti i rami e le foglie al loro posto... curioso.

Com’è che il mio giardiniere alle prime armi, oggi li aveva generosamente risparmiati?
Per non parlare del solito trambusto nelle cucine di quel nuovo cuoco improbabile o alle improvvise esclamazioni della cameriera che andava sempre a sbattere contro qualche angolo della villa, visto che si rifiutava energicamente di cambiare il suo vecchio paio di occhiali.
Perché tutto sembrava invaso da tanta tranquillità?
Un altro al posto mio, ne sarebbe stato grato e ne avrebbe tirato un sospiro di sollievo. Di tutt’altro avviso, invece, quella strana atmosfera contribuiva a rendermi più nervoso del solito. 
Era inutile, rimandare ancora l’inevitabile.

«  ... Sebas ».

Neanche il tempo di finire il nome, in una folata di vento una voce bassa e vellutata, che ti dava l’illusione di essere accarezzato come da una calda pelliccia di  visone, dal nulla si era insinuata nella stanza.

« Avete chiamato, giovane padrone ? ». 

Non avevo mosso un passo, ero ancora fermo. Davanti alla finestra, raggelato per alcuni istanti. Era , dietro di me. Ora come ora, era superfluo stare a chiedersi come avesse fatto o da quanto tempo attendesse nei dintorni di essere chiamato. Il fatto di non aver sentito neppure i suoi passi mentre varcava la soglia, era del tutto irrilevante. Mi voltai. Davanti a me, avevo una serafica creatura dai capelli corvini che scendevano perennemente spettinati ai lati del suo volto sfuggente come la cornice di un bel quadro. Seppur ricordassero vagamente un corvo spennacchiato, possedeva un viso e una figura talmente avvenente da riuscire a farmi prudere le mani. Nonostante avesse qualche ciuffo ribelle che sembrava fare a pugni con la linea perfetta del naso che tendeva leggermente in basso e alla forma delle labbra perversamente invitanti, ben volentieri invece, si sposava con la sua espressione accattivante insieme al curioso colore scarlatto delle sue pupille che si intravedeva appena sotto le lunghe ciglia scure. Ad un’ occhio più attento, questo avrebbe suggerito qualcosa, su quale fosse la sua vera indole..
La verità è che quando ti trovi faccia a faccia con qualcosa che di umano ha davvero poco, il tuo cervello se ne va a passeggio senza di te. Sostituendo la realtà con qualcosa che la tua coscienza ritiene accettabile per la tua sanità mentale.
Amava essere impeccabilmente irritante e perfetto in ogni gesto. Il suo stesso scopo, in realtà,  lo finalizzava ad’esserlo. Assolveva con efficienza e rapidità i suoi compiti sempre e dovunque, era votato ad’eseguire i miei ordini anche solo per mio capriccio, a prescindere da dove volessi impiegarlo. Cosa che non mi riusciva di sopportare era il suo talento di fare dell’Ironia, un gioco di sguardi. Non aveva bisogno di stipendio, ne di vitto o alloggio. Riparava hai danni degli altri tre domestici, assolvendo i suoi compiti insieme ai loro. Poteva sradicare alberi come se si stesse occupando di togliere le erbacce da un giardino o terminare lavori onerosi che normalmente richiederebbero una settimana per dieci uomini e che lui riusciva ad ultimare in una sera sola.
Sotto ogni aspetto era fuori dal comune. Gli avevo dato una stanza per pura formalità, come copertura che reggesse la sua recita anche davanti alla servitù.
Perché, che io sappia, non aveva bisogno neanche di dormire.

Tutto ciò lo faceva per una ragione. E non era certo per debito nei miei confronti, ne per un bel sentimento come la riconoscenza. No, avevamo un patto. Lui mi apparteneva per contratto e sempre per contratto, io sarei stato suo una volta che questo avrebbe raggiunto inesorabilmente la fine.
Dovevo avere il viso contrariato dalla sua tempestiva apparizione - non richiesta - perché increspo un angolo delle labbra come se non sapesse trattenere il sorriso.
Aveva voluto cogliermi alla sprovvista e l'aveva fatto di proposito.
Era l’ora di metterlo in riga.

« Cancella quell’aria di superbia che ti leggo sul viso, Sebastian. »
L’impeccabile servitore portò una mano al petto in cenno di scuse e l’espressione addolorata che assunse sembrava disegnata da Raffaello in persona, impazzito dopo esser stato preso dalla smania di dipingere il volto perfetto.
« Sono desolato.. »
In verità se qualcuno non avesse saputo cosa nascondeva realmente, quella maschera di menzogne dietro la figura in nero di un semplice maggiordomo, ci avrebbe perfino creduto. Ma io non ero quel qualcuno, se non sapessi che mandarlo al Diavolo, dato la sua natura per lui non facesse alcuna differenza, gli avrei augurato volentieri di andare a farsi fottere all’Inferno!
« Se hai tempo da sprecare, vedi di impiegare le tue energie per i miei propositi. E non per intrattenerti con le mie reazioni durante il lavoro o a questo punto, devo dubitare della tua determinazione nel portare a termine ciò per cui ci siamo accordati? ». 
Questo pose immediatamente fine alla sua recita o almeno gli occhi ora, non ridevano più.
« Perdoni la mia insolenza di poco fa. No. Non la deluderò. »
Immediatamente si scusò apparendo più sincero.
Dalla mia gola uscì un tono freddo e irremovibile, non avevo intenzione di bermela. Istintivamente chinò il capo reverente.
« Fa in modo, che non ti ricapiti di nuovo. »

« Yes, my Lord. »

Ma avvertivo in quella figura che mi giurava obbedienza, una brama impaziente.
Che poteva appartenere ad’una belva feroce e letale che si contiene quando studia la sua preda da dietro le grosse sbarre di una gabbia, che pian piano vanno allargandosi sempre di più, assottigliando così la distanza tra me, lui.. e la mia Vendetta.
In fin dei conti si trattava solo di un gioco pericolosamente interessante, dove mettevo costantemente in palio me stesso
La sua vera natura attendeva lì, affamata, oltre la soglia di quelle due fiamme color scarlatto che danzavano intrappolate nel suo sguardo, fissandomi, non riuscendo a nascondere oltre il proprio bisogno.
Immagino dovesse rodergli non poco, l’idea di dover obbedire costantemente a quello che dovrebbe essere solo il suo pasto. 
Beh, in compenso l’idea divertiva me. 


Maledettamente





   
 
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