Storie originali > Favola
Ricorda la storia  |      
Autore: MarchesaVanzetta    28/03/2011    0 recensioni
I due personaggi sono gli anteroi delle fiabe, dei Tersiti semi moderni. Ma a modo loro si amano, e cosa può fermare l'amore?
Questa fiaba è dedicata a Camilla. Perchè è lei. Perchè se fosse una principessa della Disney sarebbe la forte e fragile Jasmine e se fosse la protagonista di un romanzo sarebbe Sherazade. Perchè è un'amica speciale, ma questo non è oggettivo. Perchè è una persona speciale, e questo non lo può contestare nessuno (ed è oggettivo u.u). Semplicemente perchè lei è Camilla. E io le voglio un bene dell'anima. Sei nell'anima...
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 C'era una volta, in una terra lontana lontana e bellissima, dove gli uccelli cinguettavano anche a mezzanotte e i fiori crescevano rigogliosi e colorati, una bellissima fanciulla dai lunghi capelli color del grano maturo, gli occhi pervinca e le labbra come due petali di rosa, tanto bella quanto povera e un bellissimo principe gentile, che con i suoi capelli mori, gli occhi di uno straordinario verde smeraldo, il fisico atletico e la sua innata cortesia faceva innamorare di sé tutte le dame, ma non aveva ancora trovato il Vero Amore, quando...
 
No, no aspetta, ho sbagliato incipit! Dunque, ricominciamo da capo.
 
C'era una volta, in un paese né troppo lontano né troppo vicino (diciamo tre giorni a cavallo), in una terra dove la gente lavorava duramente ma il più delle volte otteneva un buon raccolto, una principessa bruttina, dai capelli letteralmente come spighe, i capelli di un anonimo nocciola e il fisico piuttosto robusto. Ma la caratteristica che più colpiva di lei (in senso letterale) era il naso adunco, rosso e con un porro peloso sulla punta, da cui colava spesso del moccio giallognolo. Il padre di Gertrudegenoveffa -tale era il nome della gentile donzella- aveva cercato con ogni mezzo di levare sì orrore dal viso della figlia, arrivando anche a impugnare egli stesso il bisturi, ma senza successo.
Così Gertry (così l'avrebbero chiamata gli amici se ne avesse avuti) varcò la soglia dei sedici anni con un viso devastato dal naso e dai brufoli tipici dell'adolescenza, che vomitavano pus tanto frequentemente quanto il naso colava muco, con un fisico deforme -peggiorato da anni e anni di studio piegata allo scrittoio della sua torre, dove la madre l'aveva pressoché rinchiusa per evitarle l'umiliazione di girare a corte- e nessun pretendente.
All'epoca infatti l'unica qualità che contava in una futura regina era il bell'aspetto e -ahimè!- Gertrudegenoveffa non l'aveva.
Era però straordinariamente intelligente e sapeva scrivere, leggere e parlare correttamente in quattro lingue oltre la sua lingua madre, conosceva la geografia e l'astronomia, aveva i fondamenti dell'alchimia e della scienza ma, in modo particolare, cantava come un usignolo. Nessuno si aspettava che una ragazza tanto brutta potesse cantare così soavemente, ma era così.
Non potendo esibirsi di fronte a un pubblico, di questo dono erano a conoscenza solo i suoi genitori e il maestro di musica, che -anch’esso gobbo e brutto- esortava l'allieva a ignorare i pregiudizi della gente e mostrare al mondo il proprio talento. Ma la fanciulla si schermava con un braccio il viso deforme, che abbassava poi verso i piedi -così oscenamente grossi!- coperti dalle preziose stoffe degne del suo rango e arrossiva, dicendo che proprio non si poteva umiliare a tal modo gli augusti genitori.
 
Un giorno la principessa stava passeggiando nei suoi giardini privati, cantando una nuova canzone che le aveva insegnato il maestro proprio quella mattina.
Non si preoccupava di andare in giro velata come era solita, le alte siepi e i la puntita recinzione assicuravano tutta la riservatezza che la principessa abbisognava per riposare e cantare felice. Il piccolo giardino, oasi di pace della ragazza, era circondato da un fitto bosco, dove non si avventurava mai nessuno per paura degli spiriti e delle streghe.
Quel giorno però un ragazzo si era avventurato nella selva, per cercare di acchiappare qualcosa per la cena. Era infatti l’ultimo di undici fratelli, con due genitori anziani a loro carico e un misero fazzoletto di terra sassosa da coltivare.
Una vecchia, vedendolo avviarsi verso quel luogo maledetto gli aveva intimato di fermarsi, ma lui non se ne era curato: la sciocca gente di campagna credeva a quelle favole, lui piuttosto dava retta al suo stomaco che gli intimava di riempirlo con uno stufato di coniglio, o un piccione arrosto…
Quel mattino aveva posto le trappole e ora le stava controllando, sperando di trovarci qualche animale rimastoci intrappolato; e la sua speranza si concretizzò in un coniglio marrone che dimenava la zampetta costretta nella trappola, in un vano tentativo di liberarsi. Senza alcuna pietà lo prese per le lunghe orecchie vellutate e lo mise nel sacco che si era portato.
Quella era l’ultima trappola e ora voleva solo schiacciare un pisolino, per riposarsi della fatica della giornata. Si ritrovò sotto un grande albero ombroso, circondato da un praticello verde che sembrava quasi invitarlo a sdraiarsi e sognare le prelibatezze che avrebbero cucinato le sorelle con la preda da lui tanto faticosamente catturata.
Stava per abbandonarsi al dolce ristoro del sogno quando udì una melodiosa voce, che cantava di fate e uccellini, di unicorni e cerbiatti, di lepricani e conigli. Un verso in particolare attirò la sua attenzione: “Libera il portatore di lunghe orecchie e Madama Natura con tutto ciò che vorrai ti ricompenserà”.
Quelle parole sembravano dirette a lui e pensò alla creatura spaventata a tremabonda intrappolata nel suo sacco grezzo, che sicuramente feriva il povero corpicino, già dilaniato dalla trappola.
Ah, quanto era impietosito da quella triste scena che gli si parava in mente!
Decise di liberare il coniglio e offrirlo alla Natura come dono alla voce della fanciulla che gli aveva rapito il cuore e la mente. Ma poi l’immagine dei suoi fratelli e delle sue sorelle tristi, a stomaco vuoto da giorni, lo attanagliò: poteva decidere forse della loro sopravvivenza, privarli del necessario, per una fanciulla di cui non conosceva né il volto né il nome?
Ma la canzone parlava di una ricompensa… poteva lasciare libero il coniglio e chiedere alla generosa dama il sostentamento per i fratelli e, al tempo stesso, compiacere la fanciulla per il suo gesto tanto cavalleresco. Sì, era un ottimo piano!
Così prese il sacco, ne estrasse il coniglio prendendolo delicatamente, sentendo sotto le dita la dolce carne tremante. Lo posò cautamente a terra, dove l’animaletto stette un po’ perplesso, stupito della svolta che aveva preso la sua vita: stava per morire, abbandonare i campi arati e i prati verdi, abbandonare il bosco ombroso e la campagna chiara, la dolce erbetta primaverile e soprattutto la sensazione di essere ancora vivo, di poter correre, mangiare, unirsi a delle conigliette dal morbido codino candido e rischiare di finire in padella. Ma questo non importava mai a nessuno, men che meno a quel rozzo e ignorante contadino che in lui non vedeva un’anima, una creatura di Dio, un suo fratello (benché con pelo e zampe) ma solo una gustosa cenetta. Zotico!
Ma tornando a Piertoldo, il ragazzo invocò la Natura: “Madama Natura, ho liberato questa tua creatura per amor tuo e di quella deliziosa fanciulla che canta e mi fa fremere di gioia. Fa come canta la mia diva: che io, in cambio della vita del coniglio, possa avere la ricompensa che mi spetta! Fa che la mia famiglia non patisca la fame e che io possa conquistare quella soave donzella!”
Apparve allora una donna florida, dai capelli intrecciati a fiori e foglie e rami, con le vesti di erba e i capelli scalzi, che sprofondavano nella terra come radici.
“Giovane contadino, una misera offerta come quella di un coniglio non basta certo per ciò che tu chiedi!” “Signora!” esclamò il giovane, inginocchiandosi di fronte alla Natura “sono disposto a pagare qualsiasi prezzo per avere ciò che desidero!”
“Ne sei sicuro?” indagò la lussureggiante creatura.
“Qualsiasi cosa!” esclamò deciso il giovane; e lo pensava davvero!
“Ebbene, io sono generosa con chi mi ama. Ascolta attentamente ciò che ti dirò: il campo che nutre la tua famiglia sarà grande il triplo e produrrà tre volte tanto: così nutrirai la famiglia.
Ogni tre anni mi donerai un terzo del raccolto. Così mi onorerai.
Tre volte avrai la possibilità di parlare con la tua dama: così la conquisterai.” E proferite queste parole, Madama Natura scomparve, in un turbinio di piume, foglie e petali.
Il giovane era stupito e ammaliato della bontà della Natura e decise di osare subito il primo approccio con l’incantevole fanciulla.
Si diresse verso la fonte della musica, che durante il suo incontro con la creatura non aveva mai cessato di risuonare tra le fronde e si fece un varco tra la siepe con le mani callose che, benché giovani, erano state indurite dal lavoro. E la vide, girata di spalle, la ricca veste costellata di gemme preziose e il corpo di lei mollemente adagiato sul bordo di una fontana dove si lavavano degli uccellini muti, intimoriti da una rivale così virtuosa.
Non appena si girò, entrambi trasalirono: Gertrudegenoveffa non si aspettava di vedere un intruso –perdipiù un uomo!- nel suo piccolo paradiso e Piertoldo perché dalla voce immaginava una bella ragazza, mentre gli si presentava innanzi una creatura di una bruttezza paragonabile a quella di un troll di montagna.
Non che lui fosse una bellezza: i capelli castani gli cadevano mal tagliati, lunghi sulla fronte e corti sulla nuca, gli occhi erano un po’ strabici, il fisico era allampanato, aveva già la pancetta tipica dei vecchi e una gamba più corta dell’altra, cosa che lo faceva zoppicare un po’.
Dopo lo stupore iniziale, il giovane si presentò, perché in fondo era lui ad averla disturbata e, pensandoci bene, preferiva una ragazza brutta e semplice che una bella e viziata.
“Piacere, sono Piertoldo. Ho udito la vostra voce così meravigliosa da far impallidire gli usignoli più esperti e me ne sono innamorato. E ora penso di essermi innamorato di voi, nell’istante in cui vi ho vista, simile a una dea per abilità e bellezza.”
“Il piacere è mio, gentile Piertoldo. Sono la principessa Gertrudegenoveffa e, ora che vi ho visto penso anche io di essermi innamorata di voi. Sento nello stomaco come mille libellule che si agitano e svolazzano, e –oh cielo!- non sono mai stata tanto a disagio con qualcuno e il rossore mi sale veloce alle gote. Ditemi, caro Piertoldo, che mestiere fate? Potremo mai un giorno unirci per sempre?”
Il giovane impallidì alla domanda, ma decise di rispondere con sincerità: le bugie non portavano a niente. “Mia signora, sono solo un umile contadino” disse, abbassando vergognosamente la testa
“Ahinoi, poveri amanti sfortunati! Mai potremo coronare il nostro sogno d’amore! Ma orsù, luce degli occhi miei, alza il capo così che io possa ammirare il tuo volto! Non concedere questo onore alla verde erba e alle umili formiche!”
“Sia fatto ciò che vuoi, ragione della mia esistenza!” esclamò innamorato il ragazzo, sollevando il viso e offrendolo al dolce sguardo dell’amata e del sole.
“Pensiamo, mio caro, a come trarci da questo impiccio! Ora che ho conosciuto l’amore non posso viverne senza! E non posso vivere senza di voi!” lo esortò la principessa, dopo aver goduto a lungo della visone dell’amato. Pensarono a lungo, seduti vicini sul bordo della fontana, nascosti al castello e al bosco.
“Ho trovato!” esclamò “potresti fuggire con me! Ti esibiresti nei più grandi teatri e alle corti di re e imperatori, e con i soldi guadagnati0 vivremo felici insieme!” la principessa esitò qualche minuto: si trattava di abbandonare il suo nido ma… era davvero il suo nido? Vivere segregata in casa, morire zitella e lontana dall’amato? Forte del’esempio delle eroine delle canzoni dei poemi, accettò con entusiasmo, donando il suo primo bacio all’uomo della sua vita.
 
Da quel giorno i due vissero felici, girando il mondo sulla scia del successo di Gertrudegenoveffa. Non ebbero figli ma il loro amore reciproco li faceva sentire talmente bene da non desiderare altro che la reciproca vicinanza, per essere felici e questa bolla meravigliosa li faceva apparire belli agli occhi degli altri, illuminati dal riflesso l’una dell’altro, beandosi della semplicità che quel meraviglioso sentimento poneva loro nel cuore.
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Favola / Vai alla pagina dell'autore: MarchesaVanzetta