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Autore: Imaginary82    31/03/2011    1 recensioni
I binari sono avvolti dalla nebbia, una coltre spessa e densa che ricopre ogni cosa.
È l’alba e sono poche le persone che, come me, saliranno sul primo treno della giornata.
Poggiato al muro, gli occhi chiusi, mi godo gli ultimi istanti di silenzio. Mi stringo nel giubbotto, nella speranza di ritrovare un calore simile a quello delle coperte, che ho lasciato fin troppo presto stamattina.
Succede tutto in un attimo, talmente breve che mi costringo ad aprire gli occhi per rendermi conto se sia vero o se io abbia solo sognato.
Non so come ho fatto a sentire il suo passaggio. È talmente piccola… e avvolta dalla foschia sembra inconsistente.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Love In the fog

titolo

I binari sono avvolti dalla nebbia, una coltre spessa e densa che ricopre ogni cosa.

È l’alba e sono poche le persone che, come me, saliranno sul primo treno della giornata.

Poggiato al muro, gli occhi chiusi, mi godo gli ultimi istanti di silenzio. Mi stringo nel giubbotto, nella speranza di ritrovare un calore simile a quello delle coperte, che ho lasciato fin troppo presto stamattina.

Succede tutto in un attimo, talmente breve che mi costringo ad aprire gli occhi per rendermi conto se sia vero o se io abbia solo sognato.

Non so come ho fatto a sentire il suo passaggio. È talmente piccola… e avvolta dalla foschia sembra inconsistente.

Ma il suo profumo è così reale. È come se si fosse fuso con la nebbia, lo vedo sospeso nell’aria, intrappolato nelle piccole particelle d’acqua e, se inspiro, lo sento forte e dolce nelle narici.

E’ un odore di letto caldo, di viso pulito, di sapone, di caffè bevuto al volo e solo dopo tutto questo si sente un profumo delicato, fiorito, che ha il potere di rendere il resto assolutamente irresistibile.

Come gli altri, anche lei è una sagoma indistinta. Non riesco a vederle il volto, il bavero del cappotto è alzato fino a coprirle le orecchie ed un buffo berretto di lana le avvolge il capo, ricadendo morbido da un lato. Ha le mani in tasca ed una grossa borsa a tracolla, dall’aspetto pesante e vissuto, le nasconde gran parte del corpo.

 Si dondola avanti e indietro, ma non come se fosse ansiosa. Ha freddo. Sbatte le punte dei piedi sull’asfalto, prima uno, poi l’altro. Stringendosi nelle spalle, continua a guardare il grande orologio della stazione.

Quando la voce registrata annuncia l’arrivo del treno, la vedo incamminarsi lentamente. Le mani in tasca, il capo basso.

Non so perché improvvisamente mi sento teso. Il cuore ha accelerato il ritmo ed il respiro è corto. Non salgo mai nelle prime carrozze, ma quando la vedo dirigersi proprio in quella direzione penso solo che non voglio allontanarmi troppo da lei, voglio sentire di nuovo il suo profumo e vedere il suo viso, i suoi occhi.

Quando sale, va subito a sedersi in fondo al vagone, vicino al finestrino, dal lato di marcia del treno…come piace a me. Ma per oggi posso fare un’eccezione, sedendomi dalla parte opposta, per poterla guardare.

Tutto questo ha un non so che di sbagliato, di morboso. Non mi è mai capitato prima, ma non riesco a farne a meno. Mi sento attratto da lei come se fosse una calamita.

Sono mesi che prendo questo treno, non l’ho mai vista, ne sono certo, questa è la prima volta. E le domande si affollano nella mia testa:

Chi sei?

Dove stai andando?

Ti vedrò di nuovo?

Riuscirò a rivolgerti la parola?

Si alza di scatto sbottonando il cappotto. Cerco di cogliere ogni gesto, ogni particolare, cercando di non sembrare un idiota, o peggio un maniaco.

 È voltata verso il sedile e mi dà le spalle. Dopo essersi liberata di quell’ingombrante indumento, riesco a vederla per intero, ancora più esile e minuta di quanto non mi fosse apparsa poco prima. Un maglioncino rosa, lungo, la avvolge segnando le spalle sottili, le scapole sporgenti e la vita stretta e si posa su un paio di jeans chiari, che aderiscono alle gambe magre e si arricciano abbondantemente alla caviglia, sopra un paio di converse, anch’esse rosa.

Con una mano sistema il cappotto accanto alla borsa e con l’altra afferra il cappello di lana e lo tira verso il basso mentre si gira verso di me.

Di solito nei film, quando lei toglie il berretto, una folta massa di boccoli dorati ricadono ondeggiando morbidi sulla schiena e, quando si volta, i due si scambiano uno sguardo così intenso da lasciarli senza fiato.

Non è questo il caso.

I suoi capelli sono corti, le lasciano scoperta la nuca, sottolineando la forma perfetta del capo e, quando si gira, non mi degna di uno sguardo.

Illuso.

Io non posso fare a meno di registrare ogni particolare.

La pelle del viso è chiara, lattea, e sembra liscia e morbida. Il freddo le ha fatto arrossare le guance ed il naso, piccolo, perfetto. È un viso da accogliere tra le mani, da accarezzare, da scaldare.

Non riesco a vedere il colore degli occhi, ma, mentre sistema le sue cose, chinata verso il sedile, sulle gote posso notare l’ombra delle ciglia lunghe e folte.

Sospira mentre sembra cercare qualcosa nella borsa.

“Accidenti” esclama a bassa voce e mi fa sorridere, perché sono sicuro che sia impossibile trovare qualcosa là dentro. Sembra la borsa di Mary Poppins!

Fruga ancora per qualche attimo, estraendo un paio di occhiali da sole ed un i-pod.

Maledico mentalmente colui o colei che ha inventato gli occhiali da sole! In questo modo il colore dei suoi occhi è nascosto e, probabilmente, non lo vedrò mai.

Mette le cuffiette nelle orecchie e, appena parte la musica, poggia la testa contro la testiera del sedile. Dalle lenti scure posso comunque vedere che ha gli occhi chiusi, così mi metto comodo e continuo a guardarla.

Una mano stringe il lettore, l’altra è posata su un ginocchio. Segue il ritmo della musica, sia con le dita, sia col piede, ogni tanto muove anche impercettibilmente la testa e sorride.

Osservandola, le due ore di viaggio trascorrono più in fretta del solito, ma, a differenza delle altre volte, oggi vorrei che questo treno non facesse fermate, che non arrivasse mai al capolinea.

Purtroppo, quando è il momento di scendere, lei lo fa in fretta, troppo in fretta.

Piccola com’è sgattaiola via tra la gente, mentre io rimango incastrato tra la folla che si dirige velocemente al sottopassaggio.

La giornata all’università passa lentamente. Le lezioni si susseguono senza che nulla desti un mio particolare interesse. Prendo appunti in maniera disordinata. Penso al viaggio di ritorno e spero di incontrarla di nuovo, magari di riuscire a vedere il colore dei suoi occhi , o sentire la sua voce.

Ultima lezione: Letteratura latina medievale.

Prendo posto tra le ultime file e non apro nemmeno il quaderno. Questa è tra le lezioni più inutili del secondo anno, ma la prof ha un’incredibile memoria fotografica e presenziare alle sue lezioni è una grossa spinta per superare l’esame.

L’aula è una di quelle ad anfiteatro, con un ingresso in basso, in corrispondenza della cattedra, ed uno in alto. Ed è proprio da lì che, poco prima dell’inizio della lezione, proviene un rumore di passi che si affrettano per le scale.

Il solito ritardatario…

In un attimo, lo stesso profumo di stamattina mi avvolge, meno intenso, contaminato dal trascorrere delle ore, ma ugualmente irresistibile.

Sorpassa la mia fila e si va a sedere decisa nella fila sottostante, due posti alla mia destra.

Rimango per un attimo paralizzato. È vicina, troppo vicina. Posso vedere perfettamente l’intero profilo ed è, se possibile, più bella di stamattina.

La professoressa comincia la lezione, ma le sue sono parole indistinte che non arrivano nemmeno alle mie orecchie.

Lei invece è una studentessa diligente. Prende appunti con cura e annuisce ascoltando la spiegazione. Ha una grafia chiara e leggera e, durante le due ore, riempie pagine e pagine del suo piccolo quadernetto.

Quando comincia a guardare ripetutamente l’orologio, lo faccio anch’io e mi accorgo che se la lezione non dovesse finire a breve perderò…perderemo il treno.

Come al solito la Cataldi si dilunga su come e quando consegnare lo statino perché “puntualmente c’è chi sbaglia buca, giorno, codice dell’esame” ecc. Non si accorge che siamo tutti in pole position per scappare via.

Anche lei ha già preparato la borsa e infilato il cappotto e,con discrezione, scivola lateralmente sulle sedie, per raggiungere l’uscita in fretta.

Alla parola “arrivederci” un boato irrompe nell’aula, che in pochi minuti si svuota.

Scendo le scale, mantenendomi dietro di lei, che sembra correre al massimo delle sue possibilità. Usciamo dall’ateneo e percorriamo la stessa strada che porta alla stazione. Mancano pochissimi minuti e questo è l’unico treno decente da prendere. Per il successivo ci sarebbe da aspettare ore, arrivando in paese a notte fonda.

La vedo arrancare. Si mantiene la borsa con entrambe le mani. È ingombrante e le intralcia i movimenti. Senza nemmeno pensarci la raggiungo.

“Dai qua” dico afferrando i manici “dobbiamo sbrigarci”.

Non so cosa stia pensando, non so se le sia venuta voglia di gridare “al ladro”, ma quando le afferro la mano e le prendo la borsa per sgravarla dall’eccessivo peso, i suoi occhi, i suoi meravigliosi occhi color nocciola, si allargano a dismisura.

Corriamo insieme. Raggiungiamo il binario mentre il controllore, fischiando, fa cenno al macchinista di partire. Riusciamo a salire, un attimo prima che le porte si chiudano, entrambi sfiancati dalla corsa, piegati in due dal fiatone.

Solo quando il cuore riprende a battere normalmente e il respiro si fa meno ansante, mi rendo conto di trattenere ancora la sua piccola mano. Per un attimo realizzo che la sto toccando, che la sue pelle è a contatto con la mia, liscia, morbida, anche se gelida, per il freddo e per la corsa.

Senza lasciarla apro le porte del vagone e mi dirigo verso due posti vuoti. Si lascia guidare ed io quasi tremo dalla paura, paura che improvvisamente si accorga del mio tocco e si allontani, privandomi di una delle sensazioni più forti e belle che io abbia mai provato.

Quando raggiungo un sedile vuoto, poggio la sua borsa e mi giro a guardarla. Ha il capo abbassato ma posso vedere distintamente il rossore che le colora le guance…è deliziosa. Quando le dita sciolgono la presa, la prima cosa che sento è il freddo, poi il vuoto…poi il panico.

“Grazie” dice sollevando lo sguardo.

Per evitare di contemplare la mano, vuota, la porto dietro la nuca, sfregandomi la testa.

“Di niente” rispondo quasi balbettando.

Si siede ed io rimango in piedi come un idiota, non sapendo se occupare il posto accanto a lei o proseguire e cercarne un altro.

“È sempre così?”

 Essa parla. Oh, parla ancora, angelo sfolgorante!*

Per fortuna è solo la mia mente a formulare il pensiero. Dal modo in cui mi guarda sembra proprio che io non abbia proferito parola.

Ora sì che capisco l’emozione di Romeo al suono della voce di Giulietta. Solo che non capisco cosa stia succedendo a me, che non sono mai stato incline a certe romanticherie, nemmeno col pensiero!

Punto primo: appena arrivato a casa, frantumare il dvd di Romeo e Giulietta che mia sorella si ostina a vedere a ripetizione. Punto secondo: vedi di rispondere, idiota!

“Ehm..cosa? Chi?”

La mia domanda deve apparirle alquanto bizzarra. Si mette a ridere, coprendosi le labbra con le dita e abbassando il volto.

“La Cataldi. E’ sempre così…prolissa?”

“Oh! Lei…sì. Beh, in effetti spesso si dilunga. Non sai quante volte ho rischiato di perdere il treno. Le abbiamo chiesto di finire cinque minuti prima ed ha anche acconsentito. Poi, però, quando comincia a parlare non la ferma più nessuno. Inoltre abbiamo avuto la fortuna di far parte del suo ultimo corso: il prossimo anno andrà in pensione. E dovresti vederla all’esame: parla più lei degli studenti e questo potrebbe sembrare positivo. Potrebbe però, perché in realtà tutto dipende da come…”

Nonostante faccia di tutto per trattenersi, non riesce a celare uno sbadiglio e, solo adesso, mi rendo conto di come sia partito a raffica!

“Scusami” dico, sedendomi, finalmente, di fronte a lei.

“No, no. Scusami tu” risponde lei, sventolando una mano “non era per te. Sono un po’ stanca”.

Non era per me. Non era per me. Non era per me…

Il mio cuore sta eseguendo un triplo carpiato.

È stanca!

“Già, immagino. È dura svegliarsi così presto al mattino. Ma il treno delle 5:58 è l’unico che mi permette di arrivare prima dell’inizio delle lezioni”

“Eri anche tu su quel treno stamattina?”

Ero anch’io su quel treno stamattina?

Non mi ha visto.

Il mio cuore ha eseguito un triplo carpiato…e la vasca era vuota!

“Sì” mi affretto a rispondere “lo prendo almeno tre volte a settimana. Nemmeno io ti ho mai vista” concludo con tono un po’ troppo duro forse.

“Prima vivevo a Pisa, frequentavo lì” dice con un filo di voce. La sua espressione è cambiata e gli occhi si sono intristiti. Le gote sono rosse e mi sembra quasi di sentire un singhiozzo.

“Sono ritornata in paese da poco, per motivi personali, e frequento la tua facoltà, adesso. Oggi era il primo giorno di lezioni per me”.

Non so che dire. Non so quali siano i motivi che l’hanno spinta a trasferirsi. Dall’espressione che ha, sono sicuro che non siano piacevoli.

È lei che parla di nuovo.

“Credo che non sarà facile inserirmi ad anno accademico inoltrato, ma spero proprio di farcela” e con un sorriso spazza via tutta la tristezza di poco prima…o almeno ci prova.

Si mette più comoda, poggiando il gomito sul bracciolo e la guancia sul palmo della mano, una mano piccola, dalle dita sottili, con le unghie corte ma curate. Mi guardo istintivamente le mie, sbeccate e mangiucchiate, e le nascondo immediatamente nelle tasche del giubbotto.

Guarda fuori dal finestrino, nonostante sia buio, nonostante, con le luci accese all’interno, fuori non si veda nulla.

Ed io vorrei solo chiederle di parlarmi, di raccontarmi di lei, di ciò che le piace, di cosa la turba…il suo nome…vorrei tanto sapere il suo nome…

“Se vuoi, io potrei aiut…”

Fortuna che riesco a fermarmi.

Dorme. Gli occhi sono chiusi ed il capo è poggiato lateralmente sul sedile.

La guardo. La guardo attentamente. Se chiudo i miei riesco a visualizzare perfettamente il suo volto. Potrei elencare i punti di ogni lentiggine, da quelle più scure sul naso a quelle più piccole e chiare sulle guance. Ha due piccoli nei, uno sul mento, delizioso, non proprio al centro, più spostato verso destra, e l’altro su una tempia, sempre a destra. Sono come piccoli richiami per posarvi sopra le labbra, delicatamente.

Quando ha un impercettibile tremito, distolgo di scatto lo sguardo. Mi sento il viso in fiamme. Spero che non si sia svegliata, spero che non mi abbia visto fissarla a quel modo. Mi giro lentamente e tiro un sospiro di sollievo. Forse ha freddo.

In effetti nel vagone la temperatura si è notevolmente abbassata. Devono aver spento il riscaldamento, oppure sarà guasto…come al solito!

Grazie per aver scelto Trenitalia.

Ma grazie un corno! Ci fosse l’alternativa…

Mi sfilo il giubbotto e, senza pensarci due volte, lo appoggio delicatamente su di lei, con l’intenzione di levarlo non appena dia qualche segno di risvegliarsi.

Dorme profondamente. Ed io mi sento come ipnotizzato. Ipnotizzato da lei, dal suo respiro, da quei suoi capelli corti tra i quali vorrei passare le dita, dalle guance lisce che fremo di sfiorare.

Mi sporgo in avanti, poggiando le braccia conserte sulle gambe. Sono così vicino al suo viso che sento distintamente il profumo della sua pelle.

Siamo quasi arrivati. Il viaggio è finito. Il sogno è finito.

Che accadrà domani?

Potrò avvicinarmi a lei?

Potrò parlarle?

Il treno si sta fermando ed io devo svegliarla.

Avrei quasi la voglia di far finta di niente e continuare fino al capolinea…altri cento chilometri con lei. Le luci della stazione sono gialle e forti e si vedono distintamente alcune sagome. Forse c’è qualcuno che la aspetta.

Il mio cuore sembra impazzito. La mente è strattonata tra ciò che dovrei fare e cioè che , invece, vorrei fare.

Comincia la frenata e gli scossoni diventano più forti.

O adesso o mai più.

Senza nemmeno pensarci, mi sporgo di più verso di lei, mentre la mia mano compie un cammino inarrestabile verso il suo viso.

Che diavolo sto facendo!

Quando la punta delle dita sfiora la sua pelle, dal contatto si diparte come una scossa. Sento i brividi pervadere il mio corpo e riesco a pensare solo che voglio di più.

Il treno si sta fermando.

Risalgono sulla tempia, mentre il palmo comincia ad aderire alla curva della guancia.

Il treno si sta fermando.

La mia mano si riempie di lei, del suo calore, della sua morbidezza. Talmente estasiato dalle mille sensazione che sto provando per la prima volta, non mi accorgo del movimento del suo corpo. Non mi accorgo che le ciglia vibrano e che gli occhi si aprono.

Il treno è fermo. Le porte si spalancano…così come i suoi occhi.

Succede tutto in un attimo. Mi allontano ritirando di scatto la mano. Lei si alza ed il giubbotto cade per terra. Afferra la borsa e corre via.

Resto immobile per quella che mi sembra un’eternità, ma per fortuna sono solo pochi secondi, infatti riesco a prendere le mie cose ed a scendere dal treno mentre il fischio annuncia la chiusura delle porte.

La stazione è avvolta dalla nebbia. Non so in che direzione sia andata. Non ho guardato ma sarebbe stato impossibile vederlo. Mi incammino con la giacca in mano, incurante del freddo e dell’umidità che sento entrarmi nelle ossa. È un altro il freddo che sento adesso. È il freddo del vuoto, dell’angoscia, della paura.

Arrivato a casa, mi butto sul letto dopo una rapida doccia. Non mangio, non ho fame. Non rispondo alle domande di mia madre, alle provocazioni di mia sorella. Voglio  stare solo.

Mi abbandono ad un sonno popolato da incubi.

Devo averlo memorizzato proprio bene il suo viso. Mi appare chiaramente. I suoi occhi non sono dolci come li ho visti, ma carichi di disprezzo.

Quando la sveglia suona è un sollievo. Un sollievo che svanisce in fretta quando realizzo ciò che è successo, ciò che ho fatto. Potrei non andare in stazione oggi, non andare all’università. Ma so che non posso. Per fortuna  il mio senso del dovere è davvero sviluppato…fin troppo!

Mi avvio lentamente, sperando di arrivare poco prima del treno, infilarmi nella carrozza di coda e mimetizzarmi col sedile e, invece, arrivo anche prima degli altri giorni. Non c’è nessuno. Solo io, la nebbia e il grande orologio che mi ricorda quanto sia ormai un caso senza speranza.

Poggiato al muro, gli occhi chiusi, cerco di non pensare. La mia mente formula un’unica preghiera, che spero venga esaudita.

Arriva treno.

Arriva treno.

Arriva treno.

E invece arriva lei.

Anche stamattina, come ieri, mi accorgo dell’esatto momento in cui mette piede in stazione.

I passi sono più lenti e…si avvicinano!

Stringo gli occhi e aspetto che si fermino. Invece si avvicinano ancora, finché sento distintamente la sua presenza accanto a me.

Mi irrigidisco, se possibile, più di prima. Abbasso il piede che era poggiato contro il muro, le mani lungo i fianchi. Sento il suo profumo, il suo calore, la sua spalla contro il mio braccio, in un contatto reale, tranquillo. E quando le piccole dita sottili avvolgono il mio pugno chiuso, non posso fare a meno che aprire la mano e intrecciare le mie alle sue.

Spalanco gli occhi e la guardo e, quando lei mi sorride, io mi chiedo quale eroica impresa debba aver compiuto nella mia vita precedente per meritare questo.

-Emma. Il mio nome è Emma.

- Io…io mi chiamo E…mi chiamo Edoardo.

 

 

 

 

   
 
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