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Autore: Invader_from_Hell    22/01/2004    5 recensioni
Adesso qualcosa di diverso. Una riflessione sul concetto di divino, che passa attraverso lo struggimento del tramonto e le sensazioni che hanno caratterizzato tutta l'umanità che si riassumono nel protagonista. Forse anche un implicito attacco al bisogno umano di avere un guardiano. E forse anche un suggerimento a cercare nella vita di tutti i giorni un po' di pace. A mio avviso è il mio miglior lavoro, ma forse questo è dovutoal fatto che finalmente ho trovato le parole per esprimere questo concetto. R & R
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E sparisce

Tra cielo e divino

 

Esordisco facendo le mie scuse al recensore del precedente lavoro, e mi rallegro del fatto che abbia poi chiarito il suo punto di vista, in modo peraltro molto costruttivo e utile. Per questo mi auguro di poter ricevere nuovamente le sue impressioni, che fa sempre piacere essere recensiti da qualcuno che se ne intende ^_^ (ma in generale tutti coloro che mi recensiscono sembrano avere una notevole esperienza).

Spero che questo nuovo lavoro possa essere di vostro gradimento ^_^

 

Aveva provato diverse volte a descrivere la sensazione che provava quando il sole spariva all’orizzonte, e nondimeno la sensazione provata quando la palla infuocata inumidiva di rosso i contorni del tardo pomeriggio estivo. Fin dai primi tentativi aveva trovato l’impresa quantomeno difficile, non tanto per una sua negligenza intellettuale, e neppure riteneva che ciò fosse da imputarsi ad una scarsa capacità espressiva orale o scritta. Il fatto lo avvicinava ad un pittore che non riesce a dipingere un sogno, e definirlo tale non sarebbe stato del tutto sbagliato. Il fulcro della vicenda era appunto la difficoltà di definire il puro concetto di etereo. Mettere su carta o affidare alle ali del verbo la rappresentazione della luce liquida e delle profonde gole illuminate dal colore vermiglio del tramonto, era qualcosa di assolutamente difficile, quasi proibito.

È facilmente comprensibile quanto per Lui questa incapacità e questo impedimento dimostrassero l’esistenza di una dimensione divina, lontana, sconfinata, difficilmente raggiungibile, e talmente egoista e vanitosa da mostrare senza reticenze i propri confini ed i propri contorni, proiettandoli direttamente sulla Terra, facendola luccicare di gradevoli e sfumati contorni di un tardo pomeriggio estivo. E tuttavia, non pareva assolutamente disposta a concedersi.

Uno scritto nel quale l’autore fosse riuscito a penetrare i confini di tale dimensione, rendendoli visibili a tutti, senza comunque la pretesa di renderli facilmente comprensibili, sarebbe sicuramente stato un esempio di rappresentazione del divino, che sarebbe passata inosservata ai più, e avrebbe mancato di suscitare l’attenzione e nondimeno la preoccupazione dei capi e delle organizzazioni religiose, così gelose del pudore che ritengono necessario mostrare quando si viene ad affrontare il tema della rappresentazione della divinità. Si sarebbe quindi senza dubbio trattato di far passare la conoscenza del divino in secondo piano, spacciandola per lirica pagana dedicata alla luce solare. C’è più divino nella luce solare di quanto non ce ne sia nel vangelo.

Lui tuttavia non riusciva a capacitarsi di questa sua incapacità, e pur non considerandola inettitudine, non aveva intenzione di accettarla.

L’ora migliore della giornata è sicuramente quella in cui il giorno inizia a fondersi con la notte, partorendo un neonato cielo insanguinato, che stenta a consegnarsi tra le braccia della madre notte e sente il bisogno impellente di affermarsi come entità a sé stante, presentando comunque caratteri del padre giorno e della madre. Un bambino che cresce troppo in fretta, che impressiona chi lo osserva e che riesce a modellare quello che vuole a sua immagine e somiglianza, che inonda di vermiglio sanguigno parenti ed amici. Un bambino sorprendentemente mite e romantico, che attrae nel suo colore il ragionamento umano, come un pronome relativo attrae nel suo caso un dimostrativo in latino. Il padre lascia al ragazzo un’eredità luminosa e piacevolmente temperata, che con la dote oscura materna confluisce in un immenso lago di luce soffusa e impastata, seppure estremamente pulita. La madre tuttavia non è magnanima come il padre, è gelosa del figlio, è gelosa perché esso ha ciò che a lei manca: la luce e la capacità di esaltare i contorni del paesaggio. Lei oscura, copre, spaventa. Non esita un secondo ad imporsi piano piano sul figlioletto sognante e a plasmarlo a sua immagine e somiglianza. Benchè il figlio man mano che i mesi si susseguono acquisti sempre maggiore forza e splendore, è sempre vittima del plagio della madre, che conta su una vittoria endemica e sicura. E dove il bimbo imperversa per mesi interi ininterrotti, la madre prima o poi prenderà la sua vendetta per altrettanto tempo. In realtà, padre e madre hanno generato un figlio solo per frapporlo nei loro contrasti, per non vedersi più del necessario, per non dover sopportare una separazione netta, per disperdersi a velocità variabile  e ritrovarsi fusi nel figlio tramonto.

Questa è l’ora che gli uomini prediligono, in estate, per molte attività. È infatti l’ora in cui il calore afissiante si mitiga con i tristi sospiri frigidi della notte. Un’ora adatta all’attività sportiva di chi non si cura dell’indiscutibile bellezza del momento, pensando piucchealtro al clima favorevole che non si ripeterà per altre ventiquattro ore. È quindi il momento di rimediare alla propria inerzia giornaliera. Giustificata dall’atroce soffocare del giorno.

È  l’ora prediletta dal poeta per comporre: un verso, un epigramma, una lirica, il testo di una canzone, un haiku, un’ ode. Il poeta mostra una narcisistica sensibilità nei confronti del figlio. Lo apprezza nella stessa misura nella quale lo stesso gli consente di mostrare le sue doti liriche e la sua straordinaria capacità cognitiva; il poeta  tesse le lodi del tramonto, cosciente ma non consapevole dello showcase che gli viene offerto. Una vetrina di estrema complicità tra l’artista e il tramonto.

Diversa è la posizione del musicista che scrive il testo della sua ultima canzone d’amore, che se d’amore non è, presenterà un contenuto nostalgico ravvedibile ed apprezzabile.

Il tramonto sarà per lui l’occasione di plasmare la propria mente ad immagine e somiglianza di questo. Erediterà i contorni sfumati e le tonalità calde, farà tesoro della luce soffusa e la userà per illuminare le proprie idee ed i propri ricordi. Così facendo attenuerà i dolori arrecati dalle delusioni, esaltandone però il carattere ineluttabile e nascondendo la propria colpa in ognuna di esse. Sarà capace di arrotondare i contorni della rabbia, rendendo il ricordo delle sue liti peggiori un insieme confuso di reticenze e scene teatrali.

La luce soffusa e di un caldo arancione riuscirà a modellare la violenza dei suoi amori, tingendoli di sospirata nostalgia, di promesse da mantenere e di baci sottto le stelle, e magari, sulla spiaggia davanti allo spettacolo stesso dal quale adesso trae questi preziosi filtri.

Il ragazzo sensibile e sognatore saprà invece trarre dallo spettacolo del giorno che presenta al mondo suo figlio, il tramonto, una spiccata somiglianza con se stesso. Intuirà senza saperlo l’arrivo incombente della notte, e ne carpirà il carattere vendicativo. Ravvedrà nella madre lo sguardo vendicativo ed invidioso, destinato a far eclissare il figlio, bello come il sole ma completamente libero nel far sognare gli uomini.

Soffrirà e si riempirà di strazio pensando al sangue versato dal tramonto nella dura battaglia con la madre notturna, ma non dispererà e si preparerà a sostenere la battaglia, pur sapendo che svilupperà metastasi devastanti anche dentro il suo misero corpo umano. Il cielo, infatti, sarà lo specchio dei suoi struggimenti giovanili – ingiustificati e repentini- più fedele che si possa trovare.

Il professionista stressato e plagiato da una giornata proficua dal punto di vista lavorativo, sarà piacevolemnte sorpreso nel vedere come anche la bellezza del cielo sembri festeggiare il suo successo di uomo impegnato e realizzato. Crederà che quella sia l’occasione adatta per invitare un paio di amici a prendere un aperitivo prima di cena, prima di far ritorno dalla sua famiglia, che paradossalmente è rimasta impassibile al cielo.

Si chiuderà con gli amici in un bar, ma sceglierà quello più luminoso e con più finestre, se ci sarà disponibilità chiederà di poter stare all’aria aperta. Il cielo per lui è tinto di successo e di occasioni guadagnate, ma silenziosamente il lavoro mentale che si svilupperà in lui non è molto diverso da quello del musicista, anch’egli saprà sfruttare la capacità occultatoria del tramonto: renderà più sopportabile il peso del successo.

Il chitarrista si sentirà terribilmente ispirato e non capirà il perché. Gli basterà imbracciare lo strumento per notare come ogni accordo sembri generare un vortice che va a colpire il cielo alle fondamenta, scuotendolo dal basso come si farebbe come un albero carico di succulenti frutti, e facendo cadere su chi ascolta la sua canzone una sensazione di vuoto stomacale colmata solo dal tramonto. Osserverà poi come si sviluppi pienamente il suono che l’amplificatore diffonde, sentirà la durata dell’accordo sotto le dita e sotto il cielo. Si sentirà in verità messaggero del tramonto e suo erede testamentario.

 

Tutto ciò contribuiva a creare in Lui una profonda confusione. Pareva da questa riflessione che ognuno avesse un modo differente di interpretare il tramonto, a seconda delle proprie condizioni, del proprio impiego, della propria disposizione spirituale e della propria ricerca che nel tramonto riusciva spesso a trovare se non un compimento, una fonte di ispirazione. Pensò che tra l’osservazione -più o meno volontaria- del tramonto e la preghiera, la differenza fosse invero minima. Se è vero che taluni usano la preghiera come fonte di conforto, di ispirazione, di comunicazione con una dimensione divina e di ricerca di forza, non era forse simile all’attività di osservazione del cielo. Il musicista che trova ispirazione per la stesura del suo nostalgico testo, non sta forse prostrato alla magnificenza di un’entità superiore avente pieno potere decisionale sull’interpretazione dei suoi ricordi intrisi di amore, violenza e nostalgia del passato?

Tuttavia, qualcosa sembrava sfuggire ugualmente alla Sua comprensione. Non era forse un processo simile a quello attuato dal’aedo greco che tentava di farsi portavoce della musa? Se questo è ravvedibile nell’Iliade – pensò poi- non lo è più nell’Odissea, nella quale il poeta si considera l’autore, ispirato però ugualmente dall’entità ispiratrice.

Questo forse poteva essere visto come l’inizio del rapporto attivo e paritario tra uomo e divino. Una collaborazione stretta e ventaggiosa per entrambi. Il divino esiste per merito dell’uomo, e l’uomo grazie al divino riesce ad esibirsi in opere di mirabile grandezza e a trovare il conforto e la forza necessari.

Tutto ciò però, prescindeva dal suo pensiero prettamente ateo. In questo clima di incertezza teologica si inserì però la comprensione di una differenza fondamentale. Se un dio è l’esagerazione del bisogno umano di conforto e forza, se è vero che una divinità è un presidio che gli uomini hanno messo a guardia di ciò che trascende la loro capacità di comprensione, il cielo non è altro che una forma più sana e terrena di credo religioso. Questo perché l’uomo si affida a lui per trovare un luogo nel quale indirizzare le domande, e verso il quale gridare le proprie sofferenze con la sicurezza che saranno custodite gelosamente. Il cielo è il rifugio dell’ateismo, in quanto considerato interlocutore, musa e responsabile delle attività creative. E qualche volta anche dell’umore, nei soggetti metereopatici. Ma soprattutto, il cielo è ininfluente nel destino umano, non lo conosce e non vuol far credere di conoscerlo. La divinità è un presidio che custodisce le risposte che l’umanittà gli ha consegnato in una busta chiusa che non sarà mai aperta. La divintà è totalitaria e compassionevole perché rispettata dagli stessi che l’hanno data alla luce.

La sensazione che Lui provava quando il tramonto stava per lasciare il posto alla notte appariva adesso come un profondo vortice di nostalgia, appartenenza, origine e allontanamento.

Nostalgia simile a quella del musicista, poiché la luce soffusa aiuta a riportare alla luce i ricordi e a renderli idilliaci anche nella loro eventuale inconsistenza. Non è difficile sentire un rivolo salato solcare la guancia mentre si sta pensando ad una serata tra amici di qualche anno prima.

Appartenenza a Suo parere imputabile alla dipendenza che si poteva sviluppare nei confronti del cielo o del bel tempo. Un’appartenenza globale, poiché la volta celeste è uguale per tutti gli abitanti del pianeta. A questo proprosito non  riteneva azzardato affermare che il credo del cielo fosse un credo globale, che poteva veramente accomunare tutti i popoli.

Origine, sì. La familiarità che gli essere umani hanno col cielo, tanto da avere l’idea di usarlo come via di transito, non può forse essere un innato senso di appartenenza? È l’unica vera visione che ci accomuna tutti. Possibile che siamo stati generati da essa?

La questione comunque era arrivata alla conclusione. Una definizione poteva quasi essere azzardata.

La sensazione restava indefinita, e a Lui andava bene così. Si fermò ad osservare il mare che riluceva come da copione. Le parole per definire tutto quello ancora non avevano fatto irruzione nella sua testa, ci sono cose che trascendono la comprensione umana. E devono continuare a essere tali. Finchè ci sarà qualcosa che non riusciremo a spiegare, divinità, madri, padri, figli popoleranno la nostra immaginazione e ci intratterranno nella nostre più profonde riflessioni.

A Lui, in quel momento, bastava la dolce immagine di un bambino che piange e che prima o poi crescerà e sarà capace di raccontare agli uomini tutto quello che devono sapere sull’origine e sul divino. Ma non c’era fretta.

 

  
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