Tra cielo e divino
Esordisco
facendo le mie scuse al recensore del precedente lavoro, e mi rallegro del
fatto che abbia poi chiarito il suo punto di vista, in modo peraltro molto
costruttivo e utile. Per questo mi auguro di poter ricevere nuovamente le sue impressioni,
che fa sempre piacere essere recensiti da qualcuno che se ne intende ^_^ (ma in
generale tutti coloro che mi recensiscono sembrano avere una notevole
esperienza).
Spero che questo nuovo lavoro possa essere di vostro
gradimento ^_^
Aveva provato
diverse volte a descrivere la sensazione che provava quando il sole spariva
all’orizzonte, e nondimeno la sensazione provata quando la palla infuocata
inumidiva di rosso i contorni del tardo pomeriggio estivo. Fin dai primi
tentativi aveva trovato l’impresa quantomeno difficile, non tanto per una sua
negligenza intellettuale, e neppure riteneva che ciò fosse da imputarsi ad una
scarsa capacità espressiva orale o scritta. Il fatto lo avvicinava ad un
pittore che non riesce a dipingere un sogno, e definirlo tale non sarebbe stato
del tutto sbagliato. Il fulcro della vicenda era appunto la difficoltà di
definire il puro concetto di etereo. Mettere su carta o affidare alle ali del
verbo la rappresentazione della luce liquida e delle profonde gole illuminate dal
colore vermiglio del tramonto, era qualcosa di assolutamente difficile, quasi
proibito.
È
facilmente comprensibile quanto per Lui questa incapacità e questo impedimento
dimostrassero l’esistenza di una dimensione divina, lontana, sconfinata,
difficilmente raggiungibile, e talmente egoista e vanitosa da mostrare senza
reticenze i propri confini ed i propri contorni, proiettandoli direttamente
sulla Terra, facendola luccicare di gradevoli e sfumati contorni di un tardo
pomeriggio estivo. E tuttavia, non pareva assolutamente disposta a concedersi.
Uno scritto nel quale l’autore fosse riuscito a penetrare i
confini di tale dimensione, rendendoli visibili a tutti, senza comunque la
pretesa di renderli facilmente comprensibili, sarebbe sicuramente stato un esempio
di rappresentazione del divino, che sarebbe passata inosservata ai più, e
avrebbe mancato di suscitare l’attenzione e nondimeno la preoccupazione dei
capi e delle organizzazioni religiose, così gelose del pudore che ritengono
necessario mostrare quando si viene ad affrontare il tema della
rappresentazione della divinità. Si sarebbe quindi senza dubbio trattato di far
passare la conoscenza del divino in secondo piano, spacciandola per lirica
pagana dedicata alla luce solare. C’è più divino nella luce solare di quanto
non ce ne sia nel vangelo.
Lui tuttavia non riusciva a capacitarsi di questa sua
incapacità, e pur non considerandola inettitudine, non aveva intenzione di
accettarla.
L’ora migliore della giornata è sicuramente quella in cui il
giorno inizia a fondersi con la notte, partorendo un neonato cielo
insanguinato, che stenta a consegnarsi tra le braccia della madre notte e sente
il bisogno impellente di affermarsi come entità a sé stante, presentando
comunque caratteri del padre giorno e della madre. Un bambino che cresce troppo
in fretta, che impressiona chi lo osserva e che riesce a modellare quello che
vuole a sua immagine e somiglianza, che inonda di vermiglio sanguigno parenti
ed amici. Un bambino sorprendentemente mite e romantico, che attrae nel suo
colore il ragionamento umano, come un pronome relativo attrae nel suo caso un
dimostrativo in latino. Il padre lascia al ragazzo un’eredità luminosa e
piacevolmente temperata, che con la dote oscura materna confluisce in un
immenso lago di luce soffusa e impastata, seppure estremamente pulita. La madre
tuttavia non è magnanima come il padre, è gelosa del figlio, è gelosa perché
esso ha ciò che a lei manca: la luce e la capacità di esaltare i contorni del
paesaggio. Lei oscura, copre, spaventa. Non esita un secondo ad imporsi piano
piano sul figlioletto sognante e a plasmarlo a sua immagine e somiglianza.
Benchè il figlio man mano che i mesi si susseguono acquisti sempre maggiore
forza e splendore, è sempre vittima del plagio della madre, che conta su una
vittoria endemica e sicura. E dove il bimbo imperversa per mesi interi
ininterrotti, la madre prima o poi prenderà la sua vendetta per altrettanto
tempo. In realtà, padre e madre hanno generato un figlio solo per frapporlo nei
loro contrasti, per non vedersi più del necessario, per non dover sopportare
una separazione netta, per disperdersi a velocità variabile e ritrovarsi fusi nel figlio tramonto.
Questa è l’ora che gli uomini prediligono, in estate, per
molte attività. È infatti l’ora in cui il calore afissiante si mitiga con i
tristi sospiri frigidi della notte. Un’ora adatta all’attività sportiva di chi
non si cura dell’indiscutibile bellezza del momento, pensando piucchealtro al
clima favorevole che non si ripeterà per altre ventiquattro ore. È quindi il
momento di rimediare alla propria inerzia giornaliera. Giustificata dall’atroce
soffocare del giorno.
È l’ora prediletta
dal poeta per comporre: un verso, un epigramma, una lirica, il testo di una
canzone, un haiku, un’ ode. Il poeta mostra una narcisistica sensibilità nei
confronti del figlio. Lo apprezza nella stessa misura nella quale lo stesso gli
consente di mostrare le sue doti liriche e la sua straordinaria capacità
cognitiva; il poeta tesse le lodi del
tramonto, cosciente ma non consapevole dello showcase che gli viene offerto.
Una vetrina di estrema complicità tra l’artista e il tramonto.
Diversa è la posizione del musicista che scrive il testo
della sua ultima canzone d’amore, che se d’amore non è, presenterà un contenuto
nostalgico ravvedibile ed apprezzabile.
Il tramonto sarà per lui l’occasione di plasmare la propria
mente ad immagine e somiglianza di questo. Erediterà i contorni sfumati e le
tonalità calde, farà tesoro della luce soffusa e la userà per illuminare le
proprie idee ed i propri ricordi. Così facendo attenuerà i dolori arrecati
dalle delusioni, esaltandone però il carattere ineluttabile e nascondendo la
propria colpa in ognuna di esse. Sarà capace di arrotondare i contorni della
rabbia, rendendo il ricordo delle sue liti peggiori un insieme confuso di
reticenze e scene teatrali.
La luce soffusa e di un caldo arancione riuscirà a modellare
la violenza dei suoi amori, tingendoli di sospirata nostalgia, di promesse da
mantenere e di baci sottto le stelle, e magari, sulla spiaggia davanti allo
spettacolo stesso dal quale adesso trae questi preziosi filtri.
Il ragazzo sensibile e sognatore saprà invece trarre dallo
spettacolo del giorno che presenta al mondo suo figlio, il tramonto, una
spiccata somiglianza con se stesso. Intuirà senza saperlo l’arrivo incombente
della notte, e ne carpirà il carattere vendicativo. Ravvedrà nella madre lo
sguardo vendicativo ed invidioso, destinato a far eclissare il figlio, bello
come il sole ma completamente libero nel far sognare gli uomini.
Soffrirà e si riempirà di strazio pensando al sangue versato
dal tramonto nella dura battaglia con la madre notturna, ma non dispererà e si
preparerà a sostenere la battaglia, pur sapendo che svilupperà metastasi
devastanti anche dentro il suo misero corpo umano. Il cielo, infatti, sarà lo
specchio dei suoi struggimenti giovanili – ingiustificati e repentini- più
fedele che si possa trovare.
Il professionista stressato e plagiato da una giornata
proficua dal punto di vista lavorativo, sarà piacevolemnte sorpreso nel vedere
come anche la bellezza del cielo sembri festeggiare il suo successo di uomo
impegnato e realizzato. Crederà che quella sia l’occasione adatta per invitare
un paio di amici a prendere un aperitivo prima di cena, prima di far ritorno
dalla sua famiglia, che paradossalmente è rimasta impassibile al cielo.
Si chiuderà con gli amici in un bar, ma sceglierà quello più
luminoso e con più finestre, se ci sarà disponibilità chiederà di poter stare
all’aria aperta. Il cielo per lui è tinto di successo e di occasioni
guadagnate, ma silenziosamente il lavoro mentale che si svilupperà in lui non è
molto diverso da quello del musicista, anch’egli saprà sfruttare la capacità
occultatoria del tramonto: renderà più sopportabile il peso del successo.
Il chitarrista si sentirà terribilmente ispirato e non capirà il perché. Gli basterà imbracciare lo strumento per notare come ogni accordo sembri generare un vortice che va a colpire il cielo alle fondamenta, scuotendolo dal basso come si farebbe come un albero carico di succulenti frutti, e facendo cadere su chi ascolta la sua canzone una sensazione di vuoto stomacale colmata solo dal tramonto. Osserverà poi come si sviluppi pienamente il suono che l’amplificatore diffonde, sentirà la durata dell’accordo sotto le dita e sotto il cielo. Si sentirà in verità messaggero del tramonto e suo erede testamentario.
Tutto ciò contribuiva a creare in Lui una profonda
confusione. Pareva da questa riflessione che ognuno avesse un modo differente
di interpretare il tramonto, a seconda delle proprie condizioni, del proprio
impiego, della propria disposizione spirituale e della propria ricerca che nel
tramonto riusciva spesso a trovare se non un compimento, una fonte di
ispirazione. Pensò che tra l’osservazione -più o meno volontaria- del tramonto
e la preghiera, la differenza fosse invero minima. Se è vero che taluni usano
la preghiera come fonte di conforto, di ispirazione, di comunicazione con una
dimensione divina e di ricerca di forza, non era forse simile all’attività di
osservazione del cielo. Il musicista che trova ispirazione per la stesura del
suo nostalgico testo, non sta forse prostrato alla magnificenza di un’entità
superiore avente pieno potere decisionale sull’interpretazione dei suoi ricordi
intrisi di amore, violenza e nostalgia del passato?
Tuttavia, qualcosa sembrava sfuggire ugualmente alla Sua
comprensione. Non era forse un processo simile a quello attuato dal’aedo greco
che tentava di farsi portavoce della musa? Se questo è ravvedibile nell’Iliade
– pensò poi- non lo è più nell’Odissea, nella quale il poeta si considera
l’autore, ispirato però ugualmente dall’entità ispiratrice.
Questo forse poteva essere visto come l’inizio del rapporto
attivo e paritario tra uomo e divino. Una collaborazione stretta e ventaggiosa
per entrambi. Il divino esiste per merito dell’uomo, e l’uomo grazie al divino
riesce ad esibirsi in opere di mirabile grandezza e a trovare il conforto e la
forza necessari.
Tutto ciò però, prescindeva dal suo pensiero prettamente
ateo. In questo clima di incertezza teologica si inserì però la comprensione di
una differenza fondamentale. Se un dio è l’esagerazione del bisogno umano di
conforto e forza, se è vero che una divinità è un presidio che gli uomini hanno
messo a guardia di ciò che trascende la loro capacità di comprensione, il cielo
non è altro che una forma più sana e terrena di credo religioso. Questo perché
l’uomo si affida a lui per trovare un luogo nel quale indirizzare le domande, e
verso il quale gridare le proprie sofferenze con la sicurezza che saranno
custodite gelosamente. Il cielo è il rifugio dell’ateismo, in quanto
considerato interlocutore, musa e responsabile delle attività creative. E
qualche volta anche dell’umore, nei soggetti metereopatici. Ma soprattutto, il
cielo è ininfluente nel destino umano, non lo conosce e non vuol far credere di
conoscerlo. La divinità è un presidio che custodisce le risposte che l’umanittà
gli ha consegnato in una busta chiusa che non sarà mai aperta. La divintà è
totalitaria e compassionevole perché rispettata dagli stessi che l’hanno data
alla luce.
La sensazione che Lui provava quando il tramonto stava per
lasciare il posto alla notte appariva adesso come un profondo vortice di
nostalgia, appartenenza, origine e allontanamento.
Nostalgia simile a quella del musicista, poiché la luce
soffusa aiuta a riportare alla luce i ricordi e a renderli idilliaci anche
nella loro eventuale inconsistenza. Non è difficile sentire un rivolo salato
solcare la guancia mentre si sta pensando ad una serata tra amici di qualche
anno prima.
Appartenenza a Suo parere imputabile alla dipendenza che si
poteva sviluppare nei confronti del cielo o del bel tempo. Un’appartenenza
globale, poiché la volta celeste è uguale per tutti gli abitanti del pianeta. A
questo proprosito non riteneva
azzardato affermare che il credo del cielo fosse un credo globale, che poteva
veramente accomunare tutti i popoli.
Origine, sì. La familiarità che gli essere umani hanno col
cielo, tanto da avere l’idea di usarlo come via di transito, non può forse essere
un innato senso di appartenenza? È l’unica vera visione che ci accomuna tutti.
Possibile che siamo stati generati da essa?
La questione comunque era arrivata alla conclusione. Una definizione poteva quasi essere azzardata.
La sensazione restava indefinita, e a Lui andava bene così. Si fermò ad osservare il mare che riluceva come da copione. Le parole per definire tutto quello ancora non avevano fatto irruzione nella sua testa, ci sono cose che trascendono la comprensione umana. E devono continuare a essere tali. Finchè ci sarà qualcosa che non riusciremo a spiegare, divinità, madri, padri, figli popoleranno la nostra immaginazione e ci intratterranno nella nostre più profonde riflessioni.
A Lui, in quel momento, bastava la dolce immagine di un
bambino che piange e che prima o poi crescerà e sarà capace di raccontare agli
uomini tutto quello che devono sapere sull’origine e sul divino. Ma non c’era
fretta.