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Autore: saraviktoria    04/04/2011    0 recensioni
ok.. ormai per molti sono una mente malata, ma ho ritrovato questa storia che avevo iniziato quando andavo ancora a scuola, e adesso ho intenzione di finirla... una ragazza lasciata dal fidanzato spenderà tutte le sue energie per dimenticarlo e diventata più grande si trasferirà in America. lì conoscerà un bellissimo attore che le cambierà la vita....
ringrazio in anticipo tutti quelli che leggeranno la storia e chi vorrà lasciarmi un piccolo commento, giusto per sapere cosa ne pensano
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jackson Rathbone, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Perché non riesco a dimenticarti? O più semplicemente ad azzerare tutto? Basta. È finita. Ma il mio cuore non lo vuole capire. Perché continuo a pensare a te? Perché mi devono sempre tornare in mente i pomeriggi passati a ridere, a prenderci in giro? Perché alla fine ritorno sempre a guardare le tue foto? Perché sono una stupida. Perché ci soffro ma non riesco a togliermi il vizio di volerti vedere. Perché io non sono capace di dimenticare, non posso chiudere un capitolo e aprirne un altro, come se niente fosse. Perché ogni cosa che faccio, ogni persona che incontro, entrano a far parte di me e mi cambiano. Ecco, tu mi hai cambiato. E azzerare tutto è contro la mia natura. Ma in questo momento vorrei essere un computer: mi resetterei e ricomincerei da capo. Ma non posso, perché non sono un computer. Soffrire fa parte della natura umana. Ma è normale che mi venga da piangere ogni volta che vedo i tuoi occhi azzurri? È possibile che mi tremino le gambe ogni volta che sento pronunciare il tuo nome? È normale voler sbattere la testa contro il muro, pur di non pensarci? No, non credo sia normale. E perciò sono ancora più stupida, ancora più infantile, piccola. Persino i bambini dopo un po’ si dimenticano perché piangono. Io no. Ma crescerò anch’io e magari fra qualche anno riuscirò a ricordare senza soffrire. Allora riuscirò a innamorarmi un’altra volta. Allora ti sarò grata per avermi fatta felice. Ma ora no. È difficile sorridere quando dentro ti senti morire. È difficile ignorare tutto e andare avanti, ma ci devo riuscire e anche bene se non voglio che qualcuno mi faccia domande. Ci devo riuscire e ci riuscirò perché è la mia vita, è una sola e voglio viverla al meglio.
È passata un’altra giornata. Un’altra giornata senza di te. Oggi entrando in classe mi sono ricordata di quando, non molto tempo fa, mi abbracciavi non appena varcavo la soglia dell’aula. E sentivo il tua calore sul mio corpo, anche se magari eri appena sceso dalla moto e ti stavi congelando. Ma stamattina non c’era nessuno ad abbracciarmi, solo il ‘ciao’ di qualcuno, qualche più raro ‘buongiorno’ e poi la prof che dice di andare a posto. Mi siedo al mio banco e prendo i libri dallo zaino. Mi ricordo di quando vicino a me c’eri tu, di quando mi mandavi dei bigliettini durante la lezione. Ma ora vicino a me c’è una ragazza, una nuova, di cui non ricordo neanche il nome. Appoggio la testa sul banco e non ascolto più nessuno. Così per sei ore. Quando torno a casa non c’è nessuno, come al solito. Faccio i compiti, preparo la cartella con una frenesia improvvisa, senza neanche accorgermene. Prendo la borsa, poi le chiavi, come quando uscivamo al pomeriggio. Ma arrivata in corridoio mi ricordo che oggi non sarai sulla panchina ad aspettarmi. Mi butto sul letto e comincio a piangere. Ti odio. Ma ti amo. È così difficile far andare d’accordo due sentimenti tanto opposti. Sento la chiave nella porta. Poi la maniglia che gira e la voce dolce di mia mamma. Do un calcio alla porta perché si chiuda, ma lei è più veloce. Ecco, penso, ora mi sgrida. Invece si avvicina e mi abbraccia e non dice niente. Così anche la sera: mi bacia sulla fronte e mi augura la buona notte. Mio fratello dorme già. Ascolto un po’ di musica, poi mi addormento anch’io.
Sabato mattina. Oggi niente scuola. Forse sono le otto, ma non mi va di alzarmi a controllare. Lancio un’occhiata al calendario: è il 10 dicembre. È passato un mese da quando mi hai detto che di me non ti importava più niente. In questo mese ho toccato il fondo, mentre tu ti divertivi con gli amici. Sento la mamma avvicinarsi, si siede ai piedi del letto e inizia uno strano discorso. “la vita è come trovarsi in un porto , dove ogni giorno partono e arrivano navi. Sei tu a scegliere quale prendere. Ma può capitare che la nave affondi a qualche miglio dalla costa. E allora bisogna nuotare per salvarsi, per poter prendere un’altra nave. E dopo tanti naufragi troverai una nave solida, che ti porterà a destinazione. Hai capito a cosa mi riferisco?” e come potrei sbagliarmi? Annuisco e lei continua. “devi tornare a riva e riprovare, ok? Prova a cambiare aria per un po’, cerca di ritornare a sorridere. Fallo per te” conosco già la frase successiva. Infatti la mamma mi consiglia di trasferirmi da papà per qualche tempo. Ma papà abita lontano, in un paesino di cui non ricordo neanche il nome. Talmente diverso da qui che non riuscirei a immaginarti …. Ma forse la soluzione è proprio questa. Decido di provare, tanto cosa mi è rimasto da perdere? Accetto e la mamma tira un sospiro di sollievo. Faccio colazione e mi vesto, senza badare a cosa metto. Non è la prima volta.                             Poi mi chiudo in camera e cerco il numero di papà sul telefono: 0463 … solo il prefisso mi preoccupa e controllo di avere abbastanza credito.              Uno … due … tre squilli, poi qualcuno risponde: è la voce di una donna, mai sentita prima.                                                                                 “pronto? Buongiorno , casa Kiel”                                                                              “salve, sono la figlia di Stephan, potrei parlare con lui?”                             la donna esita un attimo , poi chiama qualcuno. Silenzio. Aspetto e dopo un po’ riprendono in mano la cornetta                                                               “Laure? Sei tu?”                                                                                                                  “si, ciao , papà. Sono io, come stai?” e dopo i primi convenevoli vado al dunque “papà mi piacerebbe venire a Cles per un po’. È un problema?” “perché? Non stai bene? E comunque a me va benissimo” ha capito che c’è qualcosa che non va, ma l’unica cosa che gli viene in mente che mi costringa ad andare da lui è un motivo di salute.                                                Già , perché Cles, il posto in cui vive, è un comune microscopico del Trentino Alto Adige, dove l’unica cosa buona è l’aria pulita. Ho sempre detestato quel posto, ma ora il mio odio è confluito in un'altra parte del mio cervello, quindi …                                                                                             Così parte l’organizzazione della partenza. Papà è felicissimo di avermi a casa con lui. Io, per ora, non riesco a provare emozioni positive. So solo che così facendo taglio definitivamente i ponti con il mio passato, soprattutto con la parte più dolorosa del mio passato. Ma comunque peggio di così non può andare, posso solo sperare in un miglioramento.
Nei giorni seguenti preparo le valigie, sorrido a chi mi augura buon viaggio, piango assieme alle mie compagne di classe che sono dispiaciute. Ma da te niente, neanche un misero saluto. Non piango perché sono dispiaciuta di lasciare le mie amiche, piango perché non voglio allontanarmi da te. Perché non voglio dimenticarmi dei tuoi occhi azzurri , dei tuoi capelli neri come il carbone, del tuo sorriso che mi fa fermare il cuore. Mi scendono altre lacrime. Si avvicina una mia compagna, Antonella, che mi abbraccia                                                                               “vedrai che in Trentino ti troverai bene” sorrido e mi asciugo gli occhi. Annuisco, saluto e me ne vado. Cammino lungo il corridoio della scuola, poi giù per le scale. Sento una voce  che mi chiama, la tua.                                   Mi giro e ti avvicini.                                                                                               “Laure … io …”  sospiri “ … niente, volevo solo augurarti buon viaggio …” poi rimango da sola. Fantastico!                                                                                  Piango ancora uscendo da scuola. Passato il cancello mi guardo indietro. Dico addio al liceo, alle mie amiche, alla mia adorata Firenze. E piango.
Arrivo a casa senza accorgermene, apro meccanicamente la porta e vado in camera a finire le valigie. Non manca molto. Apro l’ultimo cassetto e sotto alla camicia bianca che ho preso a Roma vedo la maglietta che mi hai regalato tu. La prendo in mano e rimango così.                                      E in quella posizione mi ritrova mio fratello, tre quarti d’ora più tardi. “Laure, non puoi andare avanti così. Devi reagire”                                                  “Mark, non ce la faccio. Ci ho provato, te lo giuro, ma non ci riesco” e lui sorride.                                                                                                                             Mio fratello Mark ha venticinque anni, è alto e moro come me, con i capelli mossi e gli occhi nocciola. Con me è sempre gentile, mi capisce; gli piace considerarmi la sua piccolina, perché abbiamo otto anni di differenza. Otto anni e mezzo per essere precisi.                                     Prende la maglietta e la mette in un sacchetto. Alza i vestiti della valigia e la mette sotto                                                                                                ”promettimi che non la tirerai fuori fino a quando non tornerai a sorridere” prometto e poi mi aiuta a finire i bagagli.                        Qualche ora più tardi la mamma ci chiama per andare in aeroporto. Prendo la valigia, il borsone e la sacca con le scarpe. Mark mi passa il giubbotto e la mamma mi infila sciarpa e cappello. Usciamo. Inciampo nelle scale, nelle ruote della valigia e anche nei miei piedi. L’equilibrio non è mai stato il mio forte. Arriviamo all’aeroporto Amerigo Vespucci di Firenze e mi metto in fila per il check-in. Porgo i miei documenti alla guardia che controlla la carta d’imbarco.                                                                “buon viaggio, signorina” mi invita a salire a bordo.                             Controlla il biglietto e poi i posti: 26 A  … 27 B  … 28 A  … e finalmente mi siedo, vicino al finestrino. Dopo mezz’ora una voce gentile annuncia l’imminente partenza invitandoci ad allacciare le cinture.                           Guardo la città rimpicciolirsi e penso.                                                                     Penso a mia mamma, francese di nascita, che sposò papà a vent’anni, già incinta di mio fratello. Comprarono una casa nel paese di papà, Cles appunto. Otto anni più tardi nasco io . Ma la mamma non è abituata a vivere in un posto così piccolo e litigano sempre. Qualche mese dopo lei se ne va, portandoci con sé. Si trasferisce a Firenze, dove un’amica la aiuta a trovare una casa e un lavoro.                                                                            Non ho molti ricordi di papà. L’ho visto una volta sola e lo sento tutti gli anni per Natale e Pasqua. Niente di più. Provo a immaginare la sua vita.                 Si sarà risposato? Avrà avuto altri figli? L’unica cosa che testimoniano le foto è una grande casa bianca circondata di alberi. Il resto sarà una sorpresa. Poi penso a quello che sa lui di me , a quanto dovrò raccontargli. Che cosa risponderò alla domanda: come mai vuoi vivere qui? Non ho mai nascosto il mio odio per Cles, dovrei dirgli la verità? Raccontargli che sto impazzendo perché mi hai detto che non mi ami più? O farei meglio a inventare una bugia plausibile? Un singhiozzo interrompe le mie riflessioni e prendo in tempo il fazzoletto per asciugarmi gli occhi. A un certo punto mi addormento. Mi sveglia il suono delle cinture di sicurezza. Le allaccio e mi preparo all’atterraggio. Quando le ruote dell’aereo toccano la pista dell’aeroporto Francesco Baracca di Bolzano sento che sta per cominciare qualcosa di nuovo, e non è detto che sia un male.
 
 
   
 
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