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Autore: Agartha    28/01/2006    12 recensioni
Un prigioniero in fuga che desidera solo vendetta. Un professore che è stanco di vivere una vita da reietto. Un animale magico dagli strani comportamenti umani. Tre vecchi “amici” il cui futuro incontro era già deciso dal destino. Questa è una riedizione del terzo libro di Harry Potter come non l’avete mai letta prima, ispirata alla celebre fic in inglese “Shoebox Project”. Storia © Agartha; Grafica © Georgia Lupin; Disegni © Lucie Lupin & Momorin. Kaya è supervisore e beta reader. Sito © Chiaki. Volevo fare una piccola premessa riguardo a questa nuova storia che mi accingo a postare. The Runaway è la prima parte di un progetto capillare e molto esteso. Io (Agartha) insieme ad altre ragazze (Chiaki, Georgia Lupin, Kaya, LucieLupin e Momo) appassionate della fic inglese shoebox abbiamo deciso di scrivere una fic che prende spunto da tale storia, sia a livello grafico (l’utilizzo di foto, disegni ed altro), sia a livello di trama. L’idea è quella di riscrivere i libri della Rowling dal terzo in poi con chiave di lettura Sirius/Remus. È un lavoro gigantesco ma spero apprezzerete il nostro sforzo e ci sosterrete facendoci sentire la vostra voce. Aspetto vostre considerazioni. Agartha
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash | Personaggi: Peter Minus, Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: Remus/Sirius
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Luglio 1993. La Gazzetta del Profeta. Una cella oscura, una notizia inaspettata ed un topo spaventato.

 

“Colazione.”, esclama una voce monotona, da uomo, oltre le sbarre, mentre una mano scheletrica  posa, sul pavimento della piccola cella, un vassoio.

Si sente un cigolio come di un carrello poco oleato che viene spinto in avanti e, dopo qualche minuto, di nuovo la stessa voce grida la medesima parola.

Per qualche istante, nella prima segreta visitata dall’uomo addetto ai pasti nella prigione per maghi di Azkaban, nessuno da segno di aver fatto caso al suo passaggio andando a ritirare il cibo portato.

Nella cella, priva di finestre e dalle luci soffuse, è tutto silenzioso; se si guarda oltre le inferriate alla prima occhiata sembrerebbe che non ci sia nessuno.

La vecchia e traballante branda sembra che sia da secoli che non abbia l’onore di ospitare qualcuno tra le sue coltri. Le coperte sono divorate dalle tarme che ne hanno fatto il loro rifugio. Il materasso ha innumerevoli buchi da cui fuoriesce la soffice imbottitura. La polvere è depositata a iosa.

L’unico altro mobile, oltre al letto che si trova nella stanza, è un armadietto alla sua sinistra. Un armadietto di due miseri piani in legno scuro. E’ privo di una delle due ante mentre l’altra è aperta a rivelare che al suo interno non è contenuto nulla: nessun effetto personale di un qualche galeotto, nessun cimelio conquistato durante la prigionia. C’è solo il vuoto. 

Alla destra del letto ci sono poi le latrine che emanano un odore tremendo; è una puzza stantia che ormai ha impregnato completamente i muri incrostati, il soffitto lercio ed il pavimento a tratti polveroso.

Quel posto per via dell’odore, della precarietà e delle temperatura gelida, che si potrebbe fronteggiare senza avere un fuoco vicino solo con l’ausilio di un paio di maglioni pesanti addosso, sembra in vivibile per un essere umano, è più un rifugio per topi. Tuttavia di quei roditori in giro non se ne scorge nemmeno uno. Un tempo dovevano essere stati numerosi ma ,da alcune macchie di sangue ormai vecchie da mesi se non di anni, che impregnano il pavimento con la loro caratteristica sagoma, si deduce che qualcuno in modo violento li debba aver massacrati tutti. Sembra che qualcuno abbia infierito su di loro in modo crudele, con un odio profondo, desiderando che i ratti sparissero tutti  completamente dalla sua vista.

Ma chi è stato? E se la cella sembra disabitata perché il secondino ha lasciato la colazione? E se se fosse abitata, invece? Ma da chi? Quale uomo può resistere in quelle condizioni di vita precarie quando  solo un animale o nemmeno quello potrebbe farcela?

Un rumore sordo echeggia nella stanza. Un rumore che sembra provenire dal punto maggiormente immerso dalle tenebre della cella: l’angolo in alto a sinistra.

L’attenzione viene subito focalizzata in quel punto per scoprire chi ha prodotto quello strano suono basso e, finalmente, si scorge una sagoma che si muove; una sagoma talmente oscura di cui però è difficile distinguere i contorni esatti.

E’ un uomo od un animale?

Un mugugno proviene dallo strano essere. E’ un verso stridulo che ancora non permette di capirne l’identità.

La “creatura” comincia ad agitarsi con frenesia, sembra quasi che fino a quel momento sia stata addormentata, rannicchiata a ridosso del muro e che ora, invece, abbia deciso di aprire gli occhi al mondo per iniziare una nuova giornata.

Improvvisamente l’ombra inizia ad avanzare per dirigersi verso il cibo lasciato dal secondino.

Si muove con difficoltà, a gattoni.

Con ansia si attende che la creatura arrivi sotto il fiotto di luce soffusa, per capire con chi si ha a che fare e finalmente ciò accade.

La sorpresa è grande.

Quell’essere è un uomo, ma il suo aspetto ed il suo comportamento sono più quelli di una bestia selvatica.

Si muove a quattro zampe ed ogni pochi passi si ferma ad annusare l’aria, come alla ricerca di un nemico invisibile. E’ molto guardingo  e segue la sua via con molta attenzione.

E’ vestito con una tunica nera, lercia e strappata in più punti. La pelle che s’intravede, da quei squarci, è grigio cenere, deve essere da anni che non vede più  la luce del sole. E’ estremamente magro, tanto che gli si vedono sia le ossa del collo che delle mani.

Il viso scarno è circondato da una lunga chioma nera sporca ed arruffata che gli ricade davanti agli occhi e sembra fare un tutt’uno con la barba incolta. Poco del suo viso è visibile. La bocca è scomparsa dietro i peli ispidi, il naso è così nero, a causa del lerciume, che è impossibile distinguerlo.

Gli occhi, di un intenso grigio-azzurro che s’intravedono da dietro i capelli, sono l’unico elemento di quell’uomo che rivela ancora la sua umanità. Il luccichio che emanano, è il luccichio della follia ma anche della determinazione a non lasciarsi sopraffare dall’ambiente che lo circonda.

Raggiunge il vassoio con la colazione e l’annusa. Una smorfia di disappunto si dipinge sul suo volto, per poi essere sostituita da un’espressione vacua.

Si siede incrociando le gambe, in un gesto fluido, dimostrando di essere ancora capace di agire come un uomo e poi affonda le mani nella tazza con la brodaglia marrone che compone il suo pasto mattutino.

Dovrebbero essere dei biscotti imbevuti nel latte ma, in realtà, il sapore è irriconoscibile. Il latte è scaduto da mesi ed i biscotti sono raffermi. L’uomo prende il primo biscotto zuppo e se lo porta alla bocca insudiciandosi dappertutto. E’ più il cibo che gli finisce tra i capelli o che si disperde nei suoi abiti che quello che riesce ad ingurgitare. La stessa operazione viene ripetuta per quattro volte prima che l’uomo si decida ad afferrare la ciotola e portarsela alla bocca. Beve il resto della colazione continuando a non far caso se è più la sostanza che perde che quella che mangia. Sembra che la colazione per lui sia soltanto un rito giornaliero, un obbligo utile per non morire di fame.

Ed infatti è così.

Ormai è da tanto tempo che quell’uomo è rinchiuso in quella prigione senza avere contatti con l’esterno.

I suoi giorni non vengono più scanditi dagli elementi atmosferici: dal sole, di giorno; dalla luna, di notte. No, i suoi giorni vengono scanditi da riti sempre uguali. Le luci soffuse della stanza si attivano alle sei del mattino. La colazione viene servita alle  sei e mezza, alle sette e trenta il secondino viene a ritirare il vassoio ed a portare una bacinella d’acqua per permettere ai prigionieri di lavarsi il stretto indispensabile; il pranzo viene consegnato all’una del pomeriggio, e la cena alle otto di sera. La luce infine, viene spenta alle undici e poi il giorno dopo si ricomincia tutto da capo. Non ci sono mai novità, se non eccezionalmente.

I prigionieri non possono parlare fra loro ed incontrarsi, chi ci prova viene duramente punito. A volte le urla di qualche nuovo galeotto arriva alle orecchie del nostro prigioniero, sono urla di odio, di scherno, di minaccia rivolte a tutti e nessuno, però dopo qualche mese di prigionia, quando anche il nuovo arrivato capisce che sono inutili, che fanno solo perdere il respiro, passano e solo il silenzio rimane nella prigione.

La vita dei galeotti si svolge in perfetta solitudine e silenzio nella loro piccola cella. Le uniche “vere” compagnie che hanno, se si possono chiamare compagnie, sono i secondini, che passano agli orari stabiliti dicendo sempre le stesse frasi di rito e, soprattutto, i loro veri carcerieri, che controllano i prigionieri continuamente sia di giorno che di notte; ad esclusione dei pasti. Chiamarli carcerieri non sarebbe proprio corretto, visto che non lo sono ma è difficile trovare per loro un nome adatto.

Non sono essere umani, sono creature oscure. Il loro vero essere nessuno, da vivo, l’ha mai visto dato che si proteggono dietro dei cappucci. Chi ha la sfortuna d’incontrare il loro sguardo, di essere “baciati” da loro perde completamente la sua anima di colpo. Chi però ha la sfortuna di viverci a stretto contatto per diverso tempo la perde lentamente e non si sa sinceramente cosa sia peggio. Il loro nome è “Dementors”.

Il prigioniero comincia a ridacchiare tra sé amaramente a quel pensiero.

Appoggia la ciotola, pulisce le mani sporche sulla tunica, insozzandola ancora di più, e si appoggia alle sbarre cominciando a grattarsi i capelli, molte pagliuzze bianche e nere cadono da essi a quel gesto. La forfora che si sparge sul pavimento non è quantificabile, così come non lo sono i pidocchi morti.

L’uomo chiude gli occhi e rimane in attesa.

Sente avvicinarsi il secondino e si sposta per permettergli di portare via il vassoio.

Quando l’altro fa entrare la bacinella con l’acqua, lui se ne impossessa subito e vi immerge la testa per rinfrescarsela. Non gli importa della pulizia, vuole solo che il prurito passi per qualche istante. Scuote la testa per asciugarsi velocemente i capelli e poi, si lava le mani con fare sbrigativo.

Alla fine, per non sprecare nemmeno un goccio d’acqua, la beve, noncurante di averla appena usata per pulirsi la testa e le mani.

Riconsegna il catino al secondino e torna, sempre camminando a carponi, verso l’angolo sinistro della cella che usa come luogo di riposo. E’ da tanto che non dorme nel letto, preferisce stare accucciato a ridosso del muro, nella più completa oscurità. Se non altro non è costretto a vedere i “Dementors”, che odia profondamente, passare davanti alla sua gabbia, può fingere che non esistono, anche se la loro presenza raggelante è troppo ingombrante per permettergli di non subire lo stesso i loro influssi.

Sta di nuovo per accomodarsi quando la voce monotona del secondino lo riscuote: “Oggi ho un annuncio da fare.”, dice per attirare l’attenzione dei prigionieri.

Strano, pensa il nostro carcerato, di solito capita di rado che ci siano degli avvisi, almeno che… Non riesce nemmeno a finire la frase dentro di sé, che subito la sua supposizione trova conferma.

Il secondino come se stesse leggendo un gobbo e probabilmente è davvero così, in modo impersonale esclama: “E’ con grande gioia che vi informo che, quest’oggi, il carcere di Azkaban avrà l’onore di accogliere tra le sue mura il nostro amato Ministro della Magia nella sua usuale visita semestrale. Passerà questa mattina verso le undici e i vostri responsabili si augurano che voi carcerati vi comporterete bene. Ogni forma di dissidio ed ogni azione offensiva verrà severamente punita con l’ausilio de Dementors.”

La voce si ferma per qualche istante per poi concludere dicendo: “Questo è tutto.”

Si sente il rumore di una porta che si apre e che poi si chiude sbattendo con violenza. Il secondino deve essersene andato.

Dopo qualche istante un altro cigolio interrompe il silenzio del carcere, è il cigolio del portone da cui entrano i Dementors. Le creature oscure cominciano a vagare per il carcere, sono di nuovo a caccia dell’anima delle persone, dei loro sentimenti più belli, dei loro ricordi più felici, delle loro emozioni più vere.

Il nostro carcerato però sembra avere altri pensieri per la testa in quel momento, sembra noncurante di quelle creature che di solito lo terrorizzano.

Nella sua mente continua a ripetersi che sono già passati altri sei mesi.

Si alza in piedi e, finalmente, decidendosi a camminare a due gambe, corre verso il lato opposto della cella.

Si ferma di fronte ad un muro in cui s’intravedono degli strani segni.

All’inizio sono innumerevoli poi ,però, cominciano a diminuire, diventando sempre meno e saltuari.

Il prigioniero si siede per terra e, con le unghie sporche e spezzate in vari punti, scalfisce il gesso facendo un’altra tacca. Il sibilo fa venire la pelle d’oca.

Successivamente il carcerato comincia a contare quelle incisioni. Tralascia le prime, conta solo quelle che sono un po’ separate dalle altre, quelle che sono di meno. Ne conta ventiquattro ed un ghigno si dipinge sul suo volto, razionalizzando che sono già passati dodici anni da quando è stato portato ad Azkaban.

All’inizio imprimeva una tacca sul muro ogni mattina, ma poi rendendosi conto che era stancante, aveva cominciato ad inciderle solo prendendo in considerazione le visite del Ministro della Magia.

Quello delle tacche è un metodo di cui ha sentito parlare da un suo amico tanti anni addietro, nella sua vita precedente. Se non ricorda male quel sistema lo deve aver usato un qualche naufrago, protagonista di un libro, in un ignota isola deserta per contare il tempo passato lontano da casa. A quel suo amico che conosceva piaceva leggere, lui amava i libri, aveva sempre qualche aneddoto da raccontargli, qualche informazione da dargli.

Al pensiero del suo amico gli occhi del prigioniero si incupiscono per farsi, però, più vitali.

La luce folle sparisce per qualche attimo, ora sta guardando di fronte a sé con molta intensità.

Si viene quasi inghiottiti dalla intensità che vi si legge dentro e, senza accorgersene per qualche istante, si ritrova a viaggiare tra i propri conturbanti pensieri. E’ impossibile distinguere, tra i suoi pensieri ,delle immagini ben nitide, i suoi ricordi sono confusi e si accavallano l’uno all’altro. Ci sono solo dei volti ricorrenti, quello di un ragazzo dai capelli castani, arruffati e strani occhiali tondi che sorride in modo furbo. Quello di una ragazza dai capelli rossi dall’aria forte e decisa. Quello di un ragazzo dai capelli castani ed occhi d’ambra che guarda qualcuno, non si capisce chi, in modo dolce. Quello di un ragazzo tozzo dai capelli biondi ed occhi di un azzurro slavato che si guarda intorno con fare disperato come a cercare una soluzione.

Improvvisamente così come si è stati inghiottiti da quel caos di sensazioni e ricordi, si viene rigettati.

Il prigioniero, con violenza, prova ad allontanare da sé la marea di ricordi che gli affollano la mente, ma non ci riesce. Scuote il capo per non farsi sopraffare da tutto ciò che il passato porta con sé: momenti sereni ma soprattutto episodi dolorosi.

Si guarda in giro disperatamente per trovare un qualche oggetto che possa catturare la sua attenzione e che gli impedisca di pensare ma è inutile.

Il suo sguardo si posa sulle chiazze di sangue lasciate dai topi ed una grande rabbia s’impadronisce di lui. Il suo odio per quei  roditori deve essere enorme, è come se fossero la principale causa della sua disperazione, della sua situazione.

Batte con forza i pugni a terra diverse volte fino a quando le sue mani non cominciano a sanguinare.

In trance guarda il liquido rosso che scorre senza fare niente per tamponarlo.

Nel sangue gli sembra per qualche istante di vedere il riflesso del suo viso, non sa se è davvero così ma ciò che vede non gli piace.

Di fronte a lui c’è un uomo irriconoscibile: scarno, lurido, mostruoso.

Si passa le mani sulla tunica per pulirle dal sangue, le ferite erano superficiali dato che hanno già smesso di sanguinare ed a tastoni l’uomo si tocca il viso.

La barba ispida gli punge le mani, sente la presenza di rughe nella sua pelle e si accorge di essere diventato veramente magro. Lui è davvero scarno, lurido e mostruoso.

Senza che possa farne a meno, ripensa ancora una volta al suo amico che amava i libri e si ritrova a rivolgersi a lui nei suoi pensieri in modo assurdo, gli dice che non è vero che l’oscurità del carcere mantiene la pelle giovane, dato che lui è diventato vecchio.

Ma d’altra parte non c’è nemmeno un prete, nella cella vicina alla sua, che tenti di mettersi in contatto per lasciargli le coordinate del luogo dove si trova un tesoro. Il ricordo di uno dei libri preferiti del suo amico, di cui non si ricorda il titolo, gli è rimasto indelebile dentro. All’epoca, quando l’altro gli aveva raccontato la trama, lui annoiato aveva finto che non gli interessasse ed ora, invece, se la ricordava benissimo. La vita è strana: ti fa venire in mente le cose più buffe nei momenti più incredibili.

Il prigioniero sospira ed amaramente è costretto ad ammettere che, mentre il carcerato del romanzo era stato messo in galera seppur innocente e forse era quello il motivo per cui il suo aspetto aveva mantenuto la giovinezza diventando etereo, lui invece è stato imprigionato perché colpevole. Forse non colpevole di ciò che l’hanno accusato per rinchiuderlo, ma comunque colpevole di essere stato la causa della morte del suo migliore amico e di sua moglie.

Tutte le sofferenze del carcere, quella schifosa vita  che è costretto ad affrontare, lui se le merita. È la giusta punizione per ciò che ha fatto. È la sua forma di espiazione.

Ad un tratto si accorge che calde lacrime stanno solcando le sue guance. Era da anni che non piangeva più.

I ricordi fanno male, a volte pensa che sarebbe davvero bello lasciarsi andare, permettere ai Dementors di prosciugarlo della sua anima, ma poi si riscuote subito. Prima di morire, lui ha un’altra missione da compiere, deve sopravvivere per quella.

Si accuccia per terra prendendosi la testa tra le mani. Si obbliga a non pensare più. In condizioni normali andrebbe nell’angolo più oscuro della cella e si trasformerebbe in un cane, visto che è un animagus anche se nessuno lo sa, ma quel giorno non può. C’è la visita del ministro della magia e nessuno deve scoprire la sua segreta capacità, è solo, infatti, grazie alla sua facoltà di mutare il suo corpo in quello di un animale che è riuscito a sopravvivere per dodici anni in quell’inferno. Quando si trasforma le sue capacità mentali si riducono, i suoi pensieri diventano più elementari ed i Dementors non riescono ad angosciarlo come fanno invece quando è un uomo.

Il prigioniero sospira, chiudendo gli occhi. Deve trovare un altro modo per non permettere ai ricordi di affliggerlo.

Comincia a canticchiare una ninna nanna, la stessa che la donna dai capelli rossi dei suoi ricordi cantava ad un bambino.

Con quella nenia nella mente si appisola sul nudo pavimento in posizione fetale.

E’ così che alcune ore dopo, i secondini, seguiti dal Ministro della Magia, lo trovano quando entrano nella cella.

Senza troppi complimenti, i nuovi arrivati, per fargli aprire gli occhi, gli rovesciano addosso dell'acqua gelida apparsa dal nulla grazie ad un colpo di bacchetta.

Il risveglio dell'uomo è brusco. Si mette seduto di scatto e si guarda in giro spiritato. Chi ha osato svegliarlo in quel modo? Stava così bene nel mondo del sonno. Era nero come la pece e gli permetteva di riposarsi senza avere brutte idee per la testa.

Quando i suoi occhi si posano sul ministro della magia un ghigno gli si dipinge sul volto ricordandosi della sua visita.

Il ministro della magia è un uomo corpulento dall'aria bonaria. Non è molto intelligente e quando parla straparla. Il suo nome è Fudge. In quel momento sta guardando il carcerato con sufficienza. "Allora come sono passati questi sei mesi?", dice con la sua voce stridula.

Il prigioniero non risponde, non è abituato a farlo. Considera l'uomo che ha davanti un pallone gonfiato, incapace di fare qualsiasi cosa senza l'aiuto di Dumbledore, il preside di Hogwarts fin dai tempi in cui lui aveva frequentato quella scuola.

Non ottenendo risposta, Fudge come ad ogni sua visita, sorride all'uomo in modo fintamente comprensivo, mentre si siede sulla seggiola portata nella cella, per l'occorrenza, dai secondini. Ha con sé un giornale e comincia a passarselo nervosamente di mano in mano. I secondini hanno estratto le bacchette rivolgendole verso il prigioniero, pronti ad intervenire in caso di aggressione.  Aggressione che però non si è mai verificata negli anni passati, fino a quel giorno.

Il prigioniero continua a guardare il ministro con una smorfia. E' chiaro a tutti che non ha una bella opinione di lui ed infatti Fudge gli serve solo perché è l'unico contatto che ha con l'esterno; altrimenti lo manderebbe volentieri a quel paese.

Il carcerato sa benissimo che se anche lui non parla, l'altro lo farà e ciò che gli dirà gli farà capire come il mondo al di fuori di Azkaban va avanti.

Il ministro è un uomo più portato per il compromesso che per prendere delle decisioni importanti. Per mantenere la falsa calma che in quel momento c'è nel mondo della magia, sarebbe capace anche di negare il negabile. Inoltre, come ministro, ha anche il brutto vizio di parlare troppo. Quando arriva in un luogo, sia che qualcuno gli ponga domande, sia che non lo faccia, lui dice sempre ciò che gli passa per la testa.

Era stato durante la sua visita al carcere di tre anni prima che, dopotutto, il prigioniero aveva scoperto che il suo figlioccio aveva cominciato a frequentare Hogwarts. Fudge se l'era fatto scappare mentre gli rinfacciava le sue accuse. Gli aveva detto che i suoi reati erano troppi per nominarli tutti ma che, ormai lì ad Azkaban, non avrebbe più potuto nuocere a nessuno e soprattutto non avrebbe potuto nuocere al bambino che era sopravvissuto dato che ora era a Hogwarts sotto il controllo di Dumbledore. Il bambino che era sopravvissuto non poteva che essere Harry Potter, il suo figlioccio. Lui aveva finto che il discorso non gli interessasse, tanto anche sapere dov’era il ragazzo, non l’avrebbe aiutato a sconfiggere i suoi sensi di colpa e l'altro nemmeno si era accorto di ciò che aveva detto, continuando a sproloquiare per nulla. Se fosse stato davvero un delinquente quell’informazione gli sarebbe stata molto utile, una volta che fosse riuscito ad evadere, per raggiungere il giovane ed ucciderlo, ma Fudge era stupido e non aveva nemmeno capito l’errore che aveva commesso.

Un altro modo poi, per il carcerato di ottenere informazioni dall’esterno sempre grazie al ministro, è il giornale che l’uomo mai si dimentica di portare con sé. Il giornale è sempre la Gazzetta del Profeta ed i suoi titoli sono così enormi che il prigioniero riesce sempre a leggiucchiarne qualcuno.

Fudge comincia a passarglielo sotto il naso agitandolo mentre, come al solito, gli cita le sue colpe in una filippica che durerà almeno mezz’ora.

Facendo finta di essere annoiato, l’uomo, con sguardo vigile, concentra la sua attenzione sul giornale.

Il primo titolo è poco interessante, parla solo di un incidente verificatosi nel nord dell’Inghilterra, alcuni babbani sono stati aggrediti da dei vampiri e gli Auror sono intervenuti a salvarli.

Il secondo titolo è già più interessante; almeno parla di persone che il carcerato conosceva prima di finire ad Azkaban. Sono suoi lontani parenti: i Weasley. Hanno vinto un viaggio in Egitto e ci sono andati con tutta la famiglia. Buon per loro, non hanno mai navigato nell’oro e quel viaggio deve essere stato un toccasana, pensa l’uomo. 

La sua attenzione, poi, viene attirata dalla foto a corredo dell’articolo. Certo che Arthur ne ha avuti di figli, considera, cominciando a contarli: uno, due, tre, quattro, cinque, sei… Quando il suo sguardo finisce su un ragazzino di tredici anni molto alto per la sua età, dai capelli rossi, che saluta con una mano, si accorge di una cosa. Il giovane ha sulla spalla un topo. Il prigioniero, vedendo il roditore, dimentica all’improvviso la sua volontà di essere riservato. 

Quel topo assomiglia a… Non finisce il pensiero, si sporge di più per guardare meglio la foto.

Fudge continua a parlare e non vuole saperne di tenere fermo il giornale in una posizione.

Lui però ha bisogno di controllare meglio quella foto, deve bloccare la mano con cui l’uomo davanti a lui la tiene. Di scatto è sul ministro.

Lo assale quasi senza pensarci, vede solo la foto.

Fa cadere dalla sedia Fudge e gli è subito sopra.

Con violenza, prima che l’altro si renda conto di ciò che è successo, gli strappa il giornale dalle mani.

I secondini intervengono con tempestività.

Lo allontanano dal ministro con un incantesimo e lo fanno sbattere contro il muro. L’uomo prova dolore ma l’eccitazione per quello che ha scoperto, rende dolce anche il malessere fisico.

Continua a guardare la foto ed ormai è certo di aver visto bene. Non può sbagliarsi. Legge l’articolo velocemente e trova ciò che gli interessa.

Fudge viene scortato dalle guardie  fuori dalla cella e le sbarre vengono immediatamente richiuse dietro di lui.

Il prigioniero comincia a ridere in modo sguaiato.

Fra una risata e l’altra urla: “E’ a Hogwarts. E’ a Hogwarts.”

Quasi non sente i secondini che lo minacciano di fargli incontrare quella sera stessa i Dementors visto ciò che ha osato fare al ministro.

Tanto lui quella sera non sarà più ad Azkaban, no finalmente ha capito che la sua espiazione non passa più per la prigionia.

Alle prime luci della sera, prima che i secondini possano far diventare realtà le loro minacce, l’uomo si trasforma in cane. Magro com’è riesce a passare attraverso le sbarre e abilmente evita i Dementors che vagano per i corridoi.

Si trasforma in uomo solo per aprire la porta che lo porterà nella sezione del carcere in cui si trovano i secondini e poi ritorna a mutarsi in cane.

E’ molto fortunato perché, gli addetti alla prigione ancora galvanizzati dalla visita del ministro, sono tutti rintanati nelle loro stanze. Non incontra nessuno, i secondini hanno troppa fiducia nei Dementors per pensare che qualcuno possa scappare,  e riesce ad uscire all’aperto senza grosse difficoltà.

E’ già lontano quando il secondino che avrebbe dovuto introdurre il Dementors nella sua cella, per torturarlo con la sua presenza senza “baciarlo”, da l’allarme della sua fuga.

Il prigioniero evaso, mentre cammina per le strade deserte, ha solo un pensiero fisso in testa: andare a Hogwarts.

La sua espiazione infatti ora si chiama Vendetta.

***

Sono le prime luci dell’alba e, nelle strade deserte della piccola cittadina nel sud della Scozia, un uomo cammina con fare spedito lungo le vie deserte.

E’ un signore di cui è difficile capire l’età. Ha i capelli castani che iniziano ad imbiancare alla radice e qualche ruga comincia a nascere ai bordi della bocca e degli occhi ma, nel complesso, i suoi lineamenti sono giovanili. Ha alcune cicatrici che gli solcano il viso che però non riescono a rovinarne la gradevolezza. I suoi occhi sono di un bel colore ambrato ed ispirano tranquillità, tuttavia se si osservano con attenzione non si può non notare la vena malinconica che li travaglia.

I suoi vestiti, un completo verde formato da giacca e pantaloni, hanno visto di sicuro tempi migliori. Sono rattoppati in più punti ed il colore ha perso la sua brillantezza originale diventando pallido. Devono di sicuro essere stati acquistati molti anni prima.

Alla prima occhiata si può già dedurre che quel tizio non naviga di sicuro nell’oro.

Il suo aspetto infatti è sì piacevole e pulito ma, nel contempo, trasandato.

Svolta in un angolo ed entra in un piccolo edificio che porta l’insegna “Pensione Mamma Rose”. E’ una piccolo fabbricato fatiscente, i cui muri esterni sono imbrattati da strani disegni, le finestre sono sbilenche ed il tetto è in buona parte scoperchiato. 

Sembra impossibile che qualcuno ci possa vivere, eppure è così.

L’uomo, nel piccolo atrio, incontra una vecchietta seduta alla reception. “Buongiorno Mamma Rose.”, la saluta con una voce dolce ma nel contempo decisa.

“Buongiorno.”, risponde la donna per poi chiedere: “Sei appena tornato dal lavoro?”

“Sì.”

“Com’è andata stanotte?”

“Abbastanza bene.”

“Sono felice per te, deve essere dura lavorare di notte.”

“Non tanto, ho fatto lavori peggiori del guardiano notturno.”

“Capisco.”, il tono di voce della vecchietta è partecipe. Fa una piccola pausa prima di informarsi dicendo: “Per quanto tempo hai detto che ti serve ancora la stanza?” Porge le chiavi all’uomo che le prende rispondendo: “Grazie. Lavoro per un’altra settimana per cui dopo sarò costretto a trasferirmi altrove.”

“Mi dispiace. Sentirò la tua mancanza, sei uno dei pochi avventori della mia pensione che paga regolarmente e soprattutto parla con me civilmente.”

“Purtroppo il lavoro di guardiano durava solo tre mesi, ora dovrò cercarmi qualcos’altro.”

“Come sei costretto a vivere è deplorevole, sei una persona così per bene, è ingiusto che tu debba lavorare una tantum, vivere in posti come questo, buoni solo per dei reietti come lo sono anch’io, e non possa avere una vita facile e serena.”

“Sono un licantropo mamma Rose e la vita non è mai giusta per i licantropi, ma non mi lamento, potrebbe andare peggio.”

“Lo so, dopotutto anch’io sono un licantropo, e so cosa significhi vivere in questa società che ci condanna solo per il nostro stato. E’ già tanto se sono riuscita ad aprire questa attività che mi permetta di tirare avanti fino a quando non morirò. Non guadagno molto, il giusto per vivere, altrimenti ti assumerei volentieri io qui come aiutante, infatti, non potrò mai dimenticarmi cosa hai fatto per me la settimana scorsa, se non fossi intervenuto, quel Troll di sicuro mi avrebbe devastato completamente la pensione. Grazie ancora.”

“Si figuri. Chiunque sarebbe intervenuto al mio posto, mi domando solo chi possa aver portato qui un Troll.”

“Non ne ho le prove ma deve essere stato il pensionato della stanza vicina alla tua. Il giorno dopo, infatti, è sparito senza pagarmi l’affitto.”

“Mi dispiace.”

“Non devi. Nella mia pensione capitano di continuo questi inconvenienti. E’ uno dei problemi nel non chiedere informazioni a chi si ferma a dormire qui, potrebbero essere dei delinquenti, ma d’altra parte solo chi ha un qualche motivo per nascondersi o qualche problema come te, viene qui. Non è un posto eccezionale e poi io sono quello che sono, un licantropo da temere.”

L’uomo vorrebbe continuare a parlare con la donna, ma uno sbadiglio gli blocca le parole sul nascere.

Si porta la mano alla bocca per nasconderlo e quando l’allontana la vecchietta lo guarda dolcemente e gli dice: “E’ meglio se vai a dormire. Dopo il turno notturno è naturale essere stanchi. Se vorrai parlare ancora con me, mi trovi qui nel pomeriggio, come al solito.”

“Penso che tu abbia ragione, è meglio se vado a coricarmi per qualche ora. Ci vediamo nel pomeriggio.”

Detto questo l’uomo percorre in tutta la sua lunghezza la sala d’entrata per dirigersi verso le scale. Le sale fino al secondo piano dove si trova la sua camera.

Percorre il piccolo corridoio e si ferma davanti ad una porta in legno massiccio il cui colore una volta era marrone scuro ed ora è castano slavato. C’è un numero scritto in rosso su di essa, ovvero il 201.

Nel frattempo, l’uomo sta ripensando ad alcuni pezzi della sua conversazione con Mamma Rose. La vita è davvero ingiusta e non solo per i licantropi, infatti se fosse stata giusta, lui in quel momento, non sarebbe stato lì ma con i suoi amici dei tempi delle scuola a ridere e divertirsi. Una smorfia attraversa il viso dell’uomo, mentre scuote la testa per ricacciare indietro quel pensiero.

Non deve pensare più al passato, fa troppo soffrire, deve concentrarsi sul presente.

Quel giorno per quel signore è una giornata strana, è da ore che prova una brutta sensazione che gli opprime la bocca dello stomaco e periodicamente il suo pensiero va al passato senza che possa fare niente per impedirselo. Perché?

Si obbliga a non pensarci; non è il caso di farlo lì fuori nel corridoio.

L’uomo apre la porta e la richiude dietro di sé entrando nel piccolo appartamento immerso nelle tenebre.

Sussurra una parola e subito la luce si accende rivelandone l’interno.

Il locale è composto da tre stanze: una cucina che fa anche da salotto, un letto ed un bagno.

L’appartamento è arredato in modo sobrio e nei tre mesi in cui l’avventore ci è rimasto, ha apportato poche modifiche.

L’uomo sembra voler far rimanere la sua vita nell’anonimato, forse per motivi di segretezza, forse per essere pronto ad andarsene in ogni momento, forse per abitudine.

Quell’uomo deve essere abituato a cambiare città e casa più volte all’anno ed ovunque vada tenta sempre di fare amicizia il meno possibile.

Nessuno è mai andato a trovarlo da quando vive lì e solo Mamma Rose  è riuscita a farlo sbottonare e farlo parlare un po’ di sé. Il fatto che fosse anche lei un licantropo, ha aiutato la loro intesa, ma non è solo per quello.

La vecchietta sembra aver visto molte cose brutte del mondo, le stesse cose brutte che ha visto l’uomo.

La donna sembra aver perso molte persone care durante gli anni della sua vita, e lo stesso è anche per quel signore.

L’uomo sospira rendendosi conto che la sua mente sta vagando di nuovo verso pensieri pericolosi e per l’ennesima volta, quel giorno, si ritrova ad allontanare quei ricordi dolorosi tentando di pensare ad altro.

L’entrata dell’appartamento da subito sulla cucina – salotto e l’uomo si guarda intorno per trovare qualche appiglio che faccia concentrare la sua mente su qualcosa di più sereno.

Il cucinino è formato da un piccolo lavello, un piccolo fornello ed un piccolo frigorifero. E’ tutto piccolo in quella casa, oltre che essere quasi completamente vuota. L’uomo sorride a quel pensiero. Nel lavello non ci sono posate e piatti, nel fornello non ci sono pentole e nel frigo non c’è quasi per nulla del cibo ma, d’altra parte, i soldi che il signore ricava dal suo lavoro sono ben pochi, il giusto per comprarsi da mangiare giorno per giorno.

Anche il divano nel salotto è piccolo e così pure la scrivania.

A differenza però degli altri mobili, la scrivania è colma di carte e libri. Libri di difesa contro le arti oscure più che altro.

Un tempo l’uomo possedeva anche molti romanzi e tanti dischi e se li portava sempre dietro, perché amava leggere ed amava la musica, ma era da anni ormai che quei libri e quei dischi giacevano tutti impolverati nella vecchia casa appartenuta ai suoi genitori.

E’ da quando ha scoperto che nei libri non ci sono tutte le soluzioni ai problemi del mondo, è da quando è stato tradito perdendo tutti gli affetti più cari che, lui, ha smesso di credere nelle favole ed ha cominciato a vivere come fa ora.

Nessun contatto con l’esterno se non è strettamente indispensabile e nessuna passione bruciante per non venirne fuori carbonizzati, sono queste le regole della sua vita. Meno illusioni e più fatti concreti.

L’uomo si dirige verso la scrivania e ne guarda il contenuto attentamente.

Forse per cacciare quei brutti pensieri che gli affollano la mente, invece che dormire, potrebbe continuare la ricerca che sta facendo sul “patronus”, l’unico metodo per proteggersi contro certe creature oscure e per comunicare. Gli piace fare alcuni saggi durante il suo tempo libero per diletto, lo fanno rilassare.

Ad un tratto la sua attenzione però viene catturata da un libro: l’unico romanzo che si è sempre portato con sé, durante i suoi viaggi. C’è molto legato per il suo significato di fondo.

Quel libro è stato scritto da uno dei più grandi creatori di pensiero della storia, è alla base di un credo che, durante il settecento, aveva prodotto delle grosse rivoluzioni nel mondo babbano.

E’ la storia di un uomo che, per vivere felice con la sua donna, compie un viaggio di formazione che lo porterà a vivere innumerevoli avventure, a volte surreali. Quando alla fine del romanzo Candido, il protagonista del romanzo, riesce a sposare la sua bella,  si rende conto però che la vita coniugale non è come credeva e comincia a rimpiangere il viaggio stesso che l’aveva condotto fino a quel punto. E’ un libro che parla del crollo delle illusioni.

L’uomo lo porta con sé, pensa amaramente, come monito. E’ stato un suo amico a regalarglielo e quello stesso amico è stato anche l’artefice del crollo del suo mondo di illusioni in cui amicizia ed amore erano le cose più importanti, più importanti anche del suo essere licantropo che lo costringeva a scontrarsi contro un mondo ostile. Quel suo amico lo ha buttato nella dura realtà, una realtà che non gli piace ma in cui è costretto a vivere.

Improvvisamente preso da un raptus di rabbia l’uomo afferra il libro e lo getta nel cestino con violenza.

Vorrebbe farlo sparire da sé, quel giorno i ricordi sono troppo opprimenti e lui non vuole più pensare a quel periodo che lo fa soffrire.

Poi però l’uomo torna in sé, riprende i suoi modi calmi e posati, recupera il libro da dove l’ha buttato e lo rimette sulla scrivania, solo che lo nasconde sotto gli altri tomi.

Quel romanzo è un monito e lui non può gettarlo.

Lo aiuta a ricordarsi della sua stupidità giovanile e gli permette di avere una vita adulta, più equilibrata.

Si passa una mano tra i capelli nervosamente e rendendosi conto che lavorare alla sua ricerca gli è impossibile in quel momento, l’uomo si decide ad andare in camera.

Forse, una bella doccia rilassante e qualche ora di sonno, lo aiuteranno a frenare i ricordi che in quelle ore non vogliono sapersene di starsene fermi nell’angolo più remoto della sua coscienza.

L’uomo si dirige in camera. La stanza è composta solo da un letto, un piccolo comodino e un armadio. Apre le ante dell’armadio e tira fuori un nuovo completo giacca - pantalone che è ancora più vecchio di quello che il signore ha indosso.

A casa, il signore infatti, usa abiti ancora più consunti, quello che porta, in confronto, lo si potrebbe definire nuovo. Ha solo due abiti in condizioni ragionevoli e li alterna nel lavoro settimana per settimana.

Comincia a spogliarsi e con cura piega la camicia ed il vestito appena tolti in modo da poterli usare anche quella sera.

L’uomo rimane in canottiera e mutande e si dirige verso il comodino, apre il cassetto e ne estrae un cambio dell’intimo.

Poi finalmente si decide ad andare in bagno.

Il bagno è una stanzetta molto piccola, c’è soltanto un water, un lavandino e la doccia.

L’uomo abbassa il coperchio del water e vi appoggia i vestiti.

Con abili gesti finisce di spogliarsi buttando gli indumenti intimi in un contenitore dove ci sono i panni sporchi. Li laverà più tardi con la magia.

Rimasto nudo l’uomo si posiziona sotto il getto dell’acqua della doccia.

Del suo corpo ci sono due cose che rimangono subito impresse: una è l’estrema magrezza, così estrema che gli si vedono le costole; l’altra sono le cicatrici. Il suo corpo è devastato dalle cicatrici, devono essere dei ricordi delle sue trasformazioni in licantropo.

Il signore comincia a lavarsi, passa le mani sul suo corpo con movimenti regolari e tonificanti.

Si massaggia le spalle, le gambe ed il torace e sente lo stress della giornata andarsene con le gocce d’acqua che scivolano dal suo corpo per finire successivamente nello sfiato di scarico.

Mentre si lava l’uomo comincia a pensare alla notte di lavoro.

E’ un pensiero piacevole, visto che non lo fa pensare al passato.

Il suo lavoro consiste nel fare il guardiano notturno, deve accertarsi che degli animali magici, che presto verranno portati a Diagon Alley per essere venduti agli studenti che andranno a Hogwarts, non fuggano durante la notte.

Visto che quelle bestie sono estremamente intelligenti, l’uomo deve essere vigile. Quegli animali sono stati catturati di recente, le pensano tutte per recuperare la loro libertà visto che ancora non è stato fatto loro l’incantesimo di fedeltà ai maghi che li rende soggetti alla loro influenza. L’incantesimo gli verrà impresso la prossima settimana dal mago incaricato dal ministero e così il lavoro dell’uomo finirà.

Il suo contratto prevede che se uno di quegli animali dovesse sparire, lui deve risarcirlo e dove li troverebbe i soldi visto la situazione misera in cui versa? Rischierebbe di finire in galera come insolvente per cui deve essere guardingo.

Quel lavoro a dirla tutta è poco remunerativo perché prevede orari assurdi che in pochi si adatterebbero a fare e perché è pericoloso, quegli animali pur di scappare non esitano ad attaccare chi li ha in custodia, è un lavoro da disperati e quindi il ricavo è basso, nonostante quegli animali a Diagon Alley verranno venduti ad alto prezzo.

L’uomo guarda intensamente la sua mano destra, c’è una piccola cicatrice sul palmo, è quasi impercettibile segno che sta per sparire ma c’è ancora.

E’ il ricordo lasciatogli da uno di quegli animali che ha tentato la fuga quindici giorni prima. Si tratta di qualcosa di simile ad un “gatto” dal pelo fulvo e gli occhi vispi. Non sarebbe proprio un “gatto” visto che gli animali magici sono diversi da quelli babbani ma, dall’aspetto, sembrerebbe proprio un micio. E’ sempre un felino.

Mentre l’uomo faceva il solito controllo delle gabbie di ronda il “gatto”, che era riuscito ad aprire con le unghie la sua cella, lo aveva assalito attaccandolo alla testa, lui era riuscito ad impedirgli di raggiungere il bersaglio, proteggendosi con la mano. Era rimasto ferito ed istintivamente l’uomo aveva tirato fuori la bacchetta ed aveva scagliato l’incantesimo di fedeltà sull’animale.

Non avrebbe dovuto farlo, ma era stato l’unico modo per calmare la bestia che quel giorno era particolarmente agitata.

Il “gatto” sembrava fuori di testa, pur di non tornare in gabbia si sarebbe anche ucciso. Era questo che l’uomo aveva letto nei suoi occhi istintivamente ed era per questo che lui aveva fatto l’incantesimo per impedirgli di aggredire ancora qualcun altro o di lasciarsi morire.  

Nessuno sapeva di quell’episodio, e sperava che il mago del ministero non si accorgesse che il “gatto” aveva già impressa quella magia su di sé, tanto di solito quello stregone faceva un sortilegio complessivo per tutte le bestie giusto per non renderle troppo soggette alla sua influenza.

Se qualcuno avesse scoperto che l’uomo aveva fatto quell’incantesimo sarebbe finito nei guai, infatti solo pochi maghi per motivi di sicurezza, sono autorizzati a farlo e lui non è fra questi.

L’incantesimo di fedeltà infatti è un incantesimo molto complesso che lega il mago e l’animale in modo profondo, anche se poi quest’ultimo può legarsi anche ad un’altra persona che ne diventa il padrone. E’ come un marchio di fabbrica, un modo per sapere chi incolpare se un animale magico aggredisce il suo proprietario. Nessuno può manomettere l’incantesimo di fedeltà e su ogni animale ce ne può essere solo uno che rimanda al mago che l’ha scagliato. Se qualcuno avesse sondato il sortilegio sul “gatto” subito avrebbe capito chi era stato a farlo, mettendolo nei guai.

Il “gatto” comunque ora è docile e con il signore è anche affettuoso; se la faceva franca con il mago del ministero, era apposto. L’animale non avrebbe mai fatto del male a nessuno, ne era sicuro e così nessuno avrebbe avuto motivo di analizzare la bestia.

Dopo avergli fatto il sortilegio, infatti, ogni volta che l’uomo entra nella stanza per controllarlo il “gatto” è sempre calmo e comincia a miagolare, per non smetterla fino a quando non lo coccola ed accarezza, solo quando lo vede.

Il micio è simpatico e vispo.

L’uomo con le dita accarezza quella piccola cicatrice e sorride al pensiero di quel gatto. Anche lui ormai ci è affezionato e questo anche se a lui i gatti di solito non piacciono, li detesta perché sono sempre pronti a leccare in posti dove non dovrebbero. Sono irritanti. Li ha sempre trovati ostici come animali ed in parte ciò deve essere dovuto al suo istinto canino da lupo mannaro.

Tuttavia con quel “gatto” è diverso, forse è perché è magico, forse è per via dell’incantesimo che li unisce l’uno all’altro, forse è perché da sempre ha sentito una certa sintonia tra loro nonostante l’aggressione, forse è perché è talmente tanto solo che ormai, qualunque creatura gli dia il suo affetto, lui non può che corrisponderla.

L’uomo sospira pensando che gli spiace un po’ separarsi dal “gatto” la prossima settimana quando il suo lavoro sarà finito, ma è inevitabile. Non può tenerlo con sé, non ha i soldi per comprarlo. Spera solo che il gatto trovi un buon padrone.

Presto, poi, il gatto l’avrebbe dimenticato e lui avrebbe dimenticato il gatto nello stesso modo in cui quella cicatrice che l’animale gli aveva fatto, fra pochi giorni, non ci sarebbe stata più e per fortuna che quella cicatrice sarebbe svanita,  visto tutte quelle che ha, una in più non dovrebbe fare la differenza, ma nonostante quello il signore non riesce a pensare alle sue cicatrici in modo sereno.

No, perché lui le ha sempre ritenute orribili, no perché gli ricordano la persona che invece le ha sempre trovate sexy. La persona a cui piaceva toccarle e… Ferma i suoi pensieri e blocca le sue mani che avevano cominciato a vagare sul suo corpo in modo troppo intimo.

Fa dei profondi respiri per ritrovare l’equilibrio, ancora una volta il passato è venuto a galla e nel modo più doloroso.

Quella giornata è appena iniziata e già non ne può più.

Possibile che non ci sia niente che riesca a distrarlo?

Sospetta che nemmeno dormire faccia al caso suo, chissà cosa il suo subconscio potrebbe fargli sognare.

Sente un piccolo grido acuto provenire dalla camera; è arrivato un gufo.

Si rende conto che è l’ora giusta in cui di solito arriva La Gazzetta del Profeta, quel giornale è l’unico capriccio che si permette con i suoi soldi, deve pur tenersi aggiornato in ciò che accade nel mondo, no?

Forse l’arrivo di quel giornale è provvidenziale, se legge le notizie dettagliatamente per un po’ non penserà a nient’altro.

Si avvolge con un asciugamano, si asciuga, si riveste e va in camera fiducioso di aver trovato la soluzione a tutti i suoi problemi.

Quando raggiunge il gufo ed afferra il giornale, però, deve subito ricredersi.

Immediatamente capisce che i suoi problemi non sono finiti, anzi sono solo all’inizio.

La foto sul giornale in prima pagina, che lo guarda biecamente con un ghigno sadico muovendosi dalla posizione frontale a quella di profilo periodicamente, gli fa raggelare il sangue nelle vene.

Lui quell’uomo raffigurato lo riconoscerebbe tra un milione anche se, dall’ultima volta che l’ha visto, è molto cambiato.

E’ più magro, più sudicio, più trasandato, più vecchio.

Con frenesia, mentre il gufo se ne va, legge il titolo sopra quella foto. L’uomo divora tutti gli articoli della prima pagina della Gazzetta del Profeta in un batter d’occhio.

La sua espressione è indecifrabile.

 

 

 

Quando l’uomo finisce di leggere il giornale, lo lascia cadere sul pavimento.

Finalmente ha capito il motivo per cui quel giorno aveva quel brutto presentimento, il motivo per cui il passato continuava a venire a galla, il suo sesto senso voleva prepararlo a quella notizia.

Si prende la testa tra le mani ancora incredulo che Sirius Black sia riuscito a fuggire davvero.

Non è possibile.

Dopo tutto quello che ha fatto in passato, come ha potuto Sirius scappare?  Non ci può credere.

Continua a ripetersi che è impossibile.

Ma poi i suoi occhi si posano di nuovo sul giornale a terra e capisce che è successo veramente.

Il dolore che prova nell’aver appreso quella notizia non è quantificabile.

Ma in lui non c’è solo dolore, c’è anche qualcos’altro che ancora non riesce a spiegarsi.

Cade all’indietro sul letto e si obbliga a non pensare più a niente; anche se a fatica. E’ troppo scosso, rischierebbe di impazzire se analizzasse la situazione nel dettaglio. 

La sua mente è invasa da pensieri incoerenti.

Pensieri che non hanno un filo conduttore e a cui è difficile dare un senso.

Gli occhi dell’uomo sono sbarrati davanti a sé, sono vitrei, privi di vita.

Passano diverse ore e solo un attimo prima di trovare riposo nel sonno, le sue iridi riprendono vigore, trasmettendo una strana determinazione.

Sembra che finalmente, quel signore, abbia trovato di nuovo il bandolo della matassa dei suoi pensieri e sentimenti ed è per questo che, finalmente libero, può chiudere le palpebre e, spossato dal turno di notte e dalla notizia, addormentarsi. E quell’uomo ha davvero trovato, prima di cadere nelle braccia di Morfeo, cosa lo perseguitava oltre il dolore. Era la rabbia.

Ha capito che finalmente gli si è parata davanti una grande occasione per dare un senso alla sua vita.

Non può più fare niente per le persone che amava e che sono morte a causa di Sirius Black ma, può fare molte cose ora, per fermarlo.

Non gli importa se morirà nell’intento. Per dodici anni ha vissuto una vita fasulla in perfetta solitudine per non soffrire più.

Ora però ha l’occasione di farla pagare a chi l’ha fatto soffrire.

Il senso della sua vita d’ora in poi si chiamerà Vendetta.

***

Un ritmico squittio è l’unico rumore che si sente quella mattina in quella casa in cui usualmente regna il frastuono più assordante, il caos più totale.

Gli abitanti sono appena tornati da un viaggio e sono tutti a letto.

I bagagli sono ancora fermi all’entrata in perfetto ordine.

Ogni angolo del salotto e della cucina è ancora pulito.

Nonostante i cinque figli dei sette che vivono ancora a tempo pieno durante le vacanze estive nella casa, uno più scalmanato dell’altro, non c’è quasi nulla fuori posto.

Quando ieri l’intera famiglia è tornata dall’Egitto, l’unico pensiero ricorrente è stato il dormire.

Erano troppo stanchi per fare ogni cosa, hanno lasciato i bagagli dov’erano, si sono rifugiati nelle loro stanze, si sono buttati sui loro letti e nel giro di pochi istanti stavano già dormendo.

Sembra essere solo lo squittio, che si fa sempre più assordante, fuori posto in quel silenzio quasi surreale per la casa a cui appartiene.

Ma chi è che produce quel rumore?

In salotto non c’è nessuno, ed in cucina?

C’è un topo grigio e raggrinzito sopra il tavolo.

Ha dormito in mezzo ai bagagli per tutta la notte ed al mattino presto, quando si è svegliato, è andato in cucina a cercare qualcosa da mangiare.

La sua ricerca è durato diverso tempo ma a sorpresa, visto che la signora di casa ha fatto delle rigorose pulizie, prima di partire per il viaggio, non ha trovato niente.

E’ strano che in quella casa non si trovino delle briciole sul pavimento o degli avanzi sopra il tavolo. La donna di casa adora cucinare, è sempre dedita a quell’attività, ma quel giorno purtroppo sta dormendo anche lei.

Il topo, rassegnato, si è accucciato sopra il tavolo in attesa del risveglio dei suoi padroni.

Ad un tratto un gufo è arrivato entrando dalle finestre sempre aperte. Il topo spaventato visto che sa che quel tipo d’uccello ama mangiare i roditori, tutto tremolante ha tentato di farsi piccolo, piccolo per nascondersi alla sua vista.

Il gufo però non essendo venuto per lui, non l’ha degnato di uno sguardo. Era venuto solo per consegnare un giornale.

Con grazia il grosso uccello ha depositato il giornale sul tavolo e poi è sparito da dove era entrato.

Il topo si è  avvicinato guardingo al giornale per guardarlo ed è ciò che ha visto che ha prodotto il suo squittio.

Il topo, dopo la prima occhiata al giornale, ha cominciato subito a tremare come preda dei fremiti della febbre, la fame è stata improvvisamente dimenticata mentre i suoi occhi non riuscivano a smettere di fissare l’uomo con il ghigno nella foto in prima pagina.

Ed anche ora che sono passati diversi minuti il roditore continua a squittire e tremare.

I suoi occhi azzurri, slavati, incredibilmente umani, sono lucidi e trasmettono molta ansia.

E’ come se, quel topo, si aspettasse che l’uomo della foto, possa smaterializzarsi da un momento all’altro davanti a lui nella sua versione “reale” per fargli del male.

E’ come se sappia che gli capiterà qualcosa di pericoloso e doloroso a causa dell’uomo apparso sul giornale e che quel qualcosa non può che chiamarsi Vendetta.

***

 

  
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