Anime & Manga > Death Note
Ricorda la storia  |      
Autore: 9Pepe4    06/04/2011    11 recensioni
L e Mello. L e Near. Un primo incontro molto poco ortodosso e una conversazione piuttosto inusuale.
Eppure entrambi lasceranno un segno, sulla pelle pallida del detective e nelle tasche dei suoi jeans consumati.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: L, Mello, Near
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Sai come mi sento

Quella mattina aveva piovuto.
Le gocce di pioggia, rapide e fredde e incessanti, si erano abbattute sulle case e le strade di Winchester, colando in rivoli gelidi vicino ai marciapiede e trasformando i giardini in paludi fangose.
Verso mezzogiorno, quel temporale si era finalmente placato, lasciando spazio ad un cielo terso e ad un sole pallido che si era affacciato a scaldare con timidezza la cittadina infreddolita.
L, seduto sul sedile posteriore della lucida limousine guidata da Watari, fissava con aria indifferente oltre il finestrino. Il suo viso smunto era tirato dal sonno, e le sue occhiaie marcate sottolineavano le molte notti trascorse senza dormire. La vivida luminosità del suo sguardo d’inchiostro, però, sembrava quasi smentire quella stanchezza.
Ancora non aveva modo di saperlo, ma in seguito avrebbe ricordato ogni singolo dettaglio di quel pomeriggio apparentemente insignificante. Avrebbe ricordato l’aria frizzante e la freddezza tagliente del vento, reso ancor più gelido dalla pioggia recente.
Avrebbe ricordato il suo onesto disappunto per la fine del dolce che stava gustando.
Avrebbe ricordato il giardino spoglio e deserto della Wammy’s House nel momento in cui Watari posteggiò l’auto davanti al cancello di ferro dell’orfanotrofio.
L’uomo uscì dalla limousine per poi venire ad aprirgli la portiera, ed L scese con movimenti quasi schivi, prudenti.
Avrebbe ricordato persino il modo in cui l’erba bagnata si piegava, docile e scivolosa, sotto i suoi passi. Qualche stelo umido gli pizzicò il tallone che, scalzo, sembrava molto impegnato a schiacciare sotto di sé il bordo della sua scarpa slacciata.
Giungendo davanti all’entrata dell’edificio, L infilò le mani nelle strette tasche dei jeans che indossava e si domandò se Roger gli avrebbe offerto un pasticcino, o una fetta di torta.
Watari aprì il portone dell’orfanotrofio con la familiarità di qualcuno che sente di essere tornato a casa sua. L entrò a schiena curva, seguito a breve distanza dall’uomo.
Entrambi furono subito investiti dal suono degli strilli furibondi che provenivano da qualche parte alla loro destra. Erano le urla rabbiose di un bambino, inframmezzate da una voce adulta che tentava di calmarlo. Quando a quello scontro verbale si sommò un tonfo particolarmente rumoroso, L si voltò verso quel frastuono, poggiandosi un dito sul labbro inferiore.
«Pare proprio che siamo arrivati in un bel momento» commentò Watari. Nonostante tutto, una vena divertita sembrò far breccia nella sua voce.
Aveva appena finito di parlare che si sentì lo schianto di una porta sbattuta contro una parete. Subito dopo, ecco dei passi precipitosi, e dal fondo del corridoio spuntò un bambino biondo, intento a correre con tutta la forza che aveva nelle gambe. Aveva alle calcagna un uomo anziano, che lo seguiva con disperazione e una certa goffaggine.
«Mello, fermo!» ansimò. «Mello!»
Il ragazzino ignorò i suoi richiami, e sembrò persino accelerare le proprie falcate. Ormai era quasi arrivato al punto dove si trovavano Watari ed L. Quest’ultimo, più per contemplare meglio la scena che per una reale intenzione di frenare quella foga, si spostò in mezzo al corridoio.
Il bambino chiamato Mello sgranò gli occhi azzurri nel vedersi sbarrare la strada da quello sconosciuto alto e allampanato. Con un mezzo urlo di frustrazione, quasi un gemito di rabbia, si scagliò sul giovane. L, d’istinto, pose un braccio davanti a sé, per proteggersi o forse per tenere lontano il bambino. La reazione di quella piccola belva, però, lo colse alla sprovvista: il bimbo gli addentò l’avambraccio senza esitare, stringendo la mascella con forza.
L trasalì vistosamente. Dopodiché, con altrettanta mancanza di indugio, si abbassò a mordere la spalla del bambino.
Non lo fece con particolare foga, limitandosi a fargli sentire la pressione dei denti, ma tanto bastò. Quel gesto repentino e così inaspettato, infatti, disarmò Mello.
Il ragazzino s’interruppe nell’atto di colpire quel corpo magro – eppure inspiegabilmente forte – che gli ostruiva il passaggio. Emise un guaito che sapeva più di sorpresa che di dolore, e si ritrasse di scatto da quel giovane sconosciuto, fissandolo ad occhi sgranati e con un’espressione a dir poco sconvolta.
Quando ne combinava una delle sue, non mancava mai chi cercasse di ammansirlo. Ma i metodi con cui aveva a che fare consistevano in prediche e avvertimenti, talvolta in uno scapaccione. Quel giovane, invece, lo aveva ripagato con la sua stessa identica moneta, dimostrando di non aver alcun timore della sua rabbia.
In quel momento, l’uomo all’inseguimento di Mello soggiunse davanti a L, ansimante. Dietro le lenti tonde dei suoi occhialetti, il suo sguardo saettò sul braccio del detective.
«Mello…!» gemette, senza fiato. «Dio mio, cosa devo fare con te?»
Il bambino nemmeno si voltò verso il direttore, rimanendo imbambolato a fissare L. Quest’ultimo, da parte sua, era tornato ad infilare una mano in tasca e ad incurvarsi in avanti, sfoggiando un’espressione imperturbabile.
«Roger» salutò Watari, dopo aver indirizzato un’occhiata a L e una al bambino biondo.
«L, signor Wammy» mormorò Roger. Nell’udire il direttore rivolgersi con quell’appellativo al ragazzo sconosciuto, Mello sussultò bruscamente. «Non so davvero come scusarmi per l’inconveniente, io… Forse sarebbe meglio andare in infermeria?»
«Non è nulla» replicò L, indifferente.
«Io credo che sia un’idea sensata» intervenne Watari, accennando al braccio del ragazzo.
L abbassò lo sguardo, notando una macchia di sangue sulla manica della sua maglietta, all’altezza del morso di Mello. Ne parve sorpreso.
«Oh» disse, toccando con la punta delle dita quella chiazza rossastra. In effetti, il dolore umido del morso si faceva sentire, sebbene non così lancinante come nell’istante in cui il suo piccolo assalitore aveva serrato i denti. «Forse hai ragione».
Mello continuava a starsene zitto. In realtà, iniziava a sentirsi davvero agitato, sull’orlo del panico. Gli sembrava inconcepibile che quel ragazzo dallo sguardo stralunato e l’andatura ingobbita fosse L. D’altro canto, se Roger l’aveva chiamato con quel nome, quali altre spiegazioni c’erano? Senza contare la presenza di Quillsh Wammy. Mello aveva già visto delle fotografie del fondatore dell’orfanotrofio, coi suoi baffi grigi e lo sguardo mite, e sapeva che l’uomo affiancava L nelle indagini con lo pseudonimo di Watari.
Deglutì a vuoto. Quindi lui aveva appena morso L in persona?
Avrebbe voluto arrabbiarsi con Roger perché non l’aveva avvertito, ma si rendeva conto di essere stato lui stesso a non dargliene occasione.
«Da questa parte» si affrettò a dire il direttore ai due ospiti. Artigliò con la mano la spalla del bambino biondo, pur rimandando la strigliata che Mello si era appena guadagnato.
Guidò L e Watari lungo i corridoi dell’orfanotrofio, mentre Mello trotterellava accanto a loro senza fiatare. Non solo aveva abbandonato l’espressione truce di poco prima, ma le sue guance avevano assunto la lieve tinta rossastra dell’imbarazzo.
Non riusciva a credere di aver davvero morsicato il braccio di L.
Per lui, il detective era la sola persona al mondo che meritasse la sua approvazione, o che fosse degno di essere considerato come un modello da imitare e non come un potenziale nemico.
Quando infine giunsero sulla soglia di una stanza che odorava di disinfettante, L si fece guardingo, e parve quasi indietreggiare accanto a Watari.
Vennero accolti dall’infermiera che soleva curare le ferite dei piccoli ospiti dell’orfanotrofio. Era una donna cicciottella, dall’aspetto materno, con una crocchia di capelli castani e occhi vividi e intelligenti.
«Scusa, Emily» esordì Roger, e indicò L. «Potresti occuparti della sua ferita?»
La donna spostò lo sguardo sul giovane e gli sorrise con calore. «Certamente, signor Roger» rispose, prima di notare Mello che quasi scompariva accanto al gruppetto di adulti. «Oh, cielo!» non poté trattenersi dall’esclamare, costernata. «Due nello stesso giorno?»
Il bambino tentò di recuperare la propria espressione scontrosa, ma senza gran successo. La consapevolezza di aver attaccato proprio L, la persona che più ammirava al mondo, gli aveva tolto ogni voglia di mostrarsi impertinente.
L’infermiera si rivolse a L con gentilezza. «Vieni pure».
Il giovane eseguì, ma solo dopo essersi assicurato – con un’occhiata in tralice – che Watari lo accompagnasse.
Mello si mosse come per unirsi a loro, forse per assicurarsi di non aver fatto nulla di irreparabile al detective, ma Roger lo trattenne. «Fermo, Mello. Tu devi venire a riordinare la stanza che hai messo sottosopra».
Si aspettava un’accorata, furibonda protesta, ma il bambino obbedì con docilità inusuale.

L, nel frattempo, lasciò che l’infermiera gli disinfettasse il morso di Mello. Le dita di Emily erano delicate e premurose, ma il ragazzo era teso come una corda di violino.
Quando finalmente la conclusione della cura fu sancita da un lungo cerotto, trattenne a stento un sospiro di sollievo. Detestava essere toccato.
«Lei è il signor Wammy?» domandò in quel momento la donna. Al cenno di assenso di Watari, sorrise. «Mi sembrava che avesse un’aria familiare! Oh, non so dirle quanto la ammiro per tutto quello che fa! Dare un tetto sulla testa a tanti bambini rimasti senza famiglia… lei è un uomo di buon cuore!»
Mentre Watari rispondeva amichevolmente, L si spostò con una certa prudenza. Aveva notato che l’infermeria ospitava tre letti, allineati lungo una parete. Erano tutti liberi, ma quello più lontano, posto vicino all’ampia finestra che si apriva sul giardino, era disfatto.
Una volta accertato che non era previsto un lecca-lecca come premio per aver sopportato la meditazione, L camminò sino in fondo alla stanza, le spalle incurvate in avanti, i capelli corvini che gli ricadevano sugli occhi neri.
Si accostò alla finestra, prendendo a fissare il giardino, e con la mano sinistra toccò esitante il cerotto che ora aveva sull’avambraccio destro.
«È stato Mello?»
Quella voce lo colse di sorpresa, ma L si voltò ugualmente con lentezza, impassibile. Seduto sul pavimento, la schiena che sfiorava il letto disfatto, si trovava un bambino minuto. I riccioli che gli ricadevano sul viso erano molto chiari, più bianchi che biondi, e lui era intento a scrutare L con due pozzi di ossidiana.
Aveva addosso una maglietta candida e un paio di braghe dello stesso colore, ed entrambi i capi di vestiario erano troppo larghi per lui. A completare il quadro era il puzzle grigiastro in terra davanti al bambino – di sfuggita, L notò che mancava un pezzo.
In quanto al ragazzino, continuò ad osservarlo in silenzio. Ad un certo punto alzò una mano ed iniziò ad intrecciare una ciocca dei propri capelli attorno ad un dito.
«Sì» replicò infine L.
Per tutta risposta, il suo interlocutore gli mostrò un mignolo. «Oggi me lo ha chiuso in una porta» gli comunicò.
Non sembrava che gli importasse molto.
L corrugò appena la fronte.
«Io sono Near» si presentò quindi il bambino, con voce chiara.
«L» replicò il giovane, laconico.
Near lo fissò dritto in faccia. Non mostrò sorpresa in modo evidente, ma i suoi occhi scuri si dilatarono per un istante.
«Perché non completi il tuo puzzle?» si ritrovò a domandare L. Quel lavoro lasciato a metà – anzi, ad un passo dalla fine – lo innervosiva.
«Oh, questo?» disse Near. Abbassò gli occhi sul puzzle. «Non posso completarlo. Mello mi ha rubato il tassello che manca».
«Roger sarebbe disposto a recuperarlo» osservò L. Era un dato di fatto, e lui si sentì in qualche modo in dovere di riportarlo.
«Lo so» replicò Near. «Ma anche volendolo, non potrebbe. Mello se lo è mangiato».
Questa volta, L sentì un barlume di stupore, e guardò meglio il bambino che gli stava di fronte.
«Però è solo un pezzo di cartone» aggiunse Near, «non credo gli farà male». Si accigliò. «Ma Mello sa chi sei tu?»
L fece un gesto vago, indifferente. «Non lo sapeva quando mi ha morso».
Near annuì tra sé e sé. «Sì, così ha senso» disse, pensieroso. «Se avesse saputo chi eri non l’avrebbe fatto. Mello ti ammira». Fece una breve pausa, gettando un’occhiata al suo puzzle incompleto. «Anch’io ti ammiro».
Rialzò lo sguardo su di L, mentre per la prima volta qualcosa sembrava smuovere lievemente la sua espressione e la sincerità faceva breccia nel suo tono.
L si limitò a ricambiare l’occhiata. Gli sembrava naturale: lui era il miglior detective del mondo, dopotutto.
Watari stava ancora parlando con Emily in toni cordiali e sommessi.
Improvvisamente, Near staccò un tassello dal puzzle con un certo impaccio, individuando senza difficoltà il pezzo centrale. Si alzò in piedi con uno strano movimento, come se fosse abituato a rimanere sempre seduto, e porse il tassello ad L.
«Così ti ricordi di me» affermò a mo’ di spiegazione.
Quella frase, così spontanea e infantile, sembrava stridere violentemente con la neutra indifferenza del suo sguardo.
L rimase fermo per un momento, poi allungò le dita magre a cogliere quel dono inaspettato. Lo osservò: si trattava del pezzo di un normale puzzle, ma Near aveva staccato accuratamente la pellicola sulla quale doveva esserci stato il disegno, facendolo diventare di un grigio uniforme, un po’ scrostato.
Lo infilò in tasca, donando un’occhiata più attenta al bambino che gli stava di fronte. Così come lui era sempre stato alto, Near era di bassa statura. Così come i suoi capelli erano color del carbone, quelli di Near erano bianco perla.
Eppure, nonostante le differenze, lo sentiva stranamente simile a sé.
Gli diede una tristezza bizzarra, quel pensiero.
Non si sarebbe scordato di lui. Ma avrebbe comunque conservato quel tassello consunto.

Più tardi, dopo aver ricevuto da Roger i documenti che erano la ragione della sua visita, Watari si apprestò a uscire dall’orfanotrofio, tallonato dal suo protetto.
Proprio mentre si sistemava il cappotto nero, lanciando un’occhiata a L come a rimproverargli il fatto di affrontare qualsiasi condizione climatica protetto soltanto dalla sua maglietta spiegazzata, udì un urlo veemente, quasi disperato.
«L!»
Si voltarono entrambi, e fu con una certa sorpresa che videro Mello in fondo al corridoio.
Il bambino prese immediatamente la rincorsa, un’espressione agitata dipinta in volto.
Watari si rivolse a L. «Raggiungimi pure tra poco» gli disse, con la gentilezza che sempre gli riservava. L annuì impercettibilmente e l’uomo uscì in giardino nascondendo un lieve sorriso.
L, da parte sua, rimase impalato al suo posto, aspettando che Mello lo raggiungesse. Quando il bambino si fermò di fronte a lui, inclinò la testa per studiarlo meglio.
«Mi dispiace di averti morso» disse Mello tutto d’un fiato, come se non fosse abituato a scusarsi.
«Anch’io ho morso te» gli fece notare L.
Il bambino si fissò istintivamente la spalla. «Sì, ma non ha sanguinato. E non mi fa già più male. Il morso che ti ho dato io, invece…» Lasciò che la sua voce si spegnesse, e accennò al cerotto applicato sulla pelle pallida del giovane, un’aria impacciata spennellata sul viso.
L fece scivolare la manica della maglietta su quella modesta fasciatura e scrollò le spalle senza energia, indifferente. «Non volevo ferirti» disse, come se fosse stato ovvio. «Ma devo dirti, Mello, che non c’è colpo che io non renda».
Mello lo fissò, come se non fosse ben certo di aver capito cosa L voleva dirgli.
«Allora non… non sei arrabbiato?» chiese infine. Gli sembrava una domanda stupida, davanti all’espressione imperturbabile del giovane, ma la sola idea di aver ferito il suo idolo gli dava un’ansia che non aveva mai provato prima.
L lo fissò. «No».
Mello arrivò persino ad accennare un sorriso, tanto era sollevato. «Quindi… prima o poi torni?»
«Può darsi» rispose L, indifferente. «Se mai avrò tempo».
Il sorriso di Mello si aprì, tingendogli le guance di un colorito più roseo. «E non è che quando torni potresti raccontarmi qualcosa?» aggiunse. Ora che aveva la certezza che L non ce l’aveva con lui, stava rapidamente recuperando la propria disinvoltura – o sfacciataggine, come l’avrebbe definita più di un inserviente.
«Potrei» riconobbe L.
Mello annuì con vigore, nient’affatto turbato dalla sua vaghezza. Dentro di sé, era rassicurato dalle parole che L gli aveva detto poco prima: “Non c’è colpo che io non renda”. Dopo aver riflettuto con titubanza sul loro significato, infatti, il bambino aveva concluso che si trattava della garanzia che L non avrebbe mai, mai lasciato un conto in sospeso.
Con ogni probabilità, questo faceva di lui una persona che avrebbe sempre concluso ciò che aveva iniziato.
E dato che la loro conoscenza non poteva affatto dirsi completa, per Mello era perfettamente ragionevole essere dell’idea che il detective sarebbe tornato.
Soddisfatto da quella linea di pensiero, rivolse a L un gran sorriso.
Dal canto suo, L lo osservò con un certo stupore, e non solo perché non si aspettava una simile reazione.
Anche quando Mello sorrideva, il colore azzurro dei suoi occhi sembrava di ghiaccio. L conosceva sin troppo bene quello sguardo, e di certo non avrebbe mai augurato a nessuno di averlo negli occhi. Era lo sguardo di chi è stato ucciso un po’ dal mondo, l’espressione famelica di chi reclama giustizia a gran voce. E a qualsiasi costo.
Aveva già riscontrato qualcosa di simile nella freddezza misurata di Near, nel suo essere così poco bambino, così distaccato dalle semplici novità del mondo, e doveva riconoscere di possedere lui stesso quella medesima cattiveria.
Per un istante, contemplò l’ipotesi di dire a Mello che sapeva come lui e Near si sentivano. Pensò persino di rivelargli che lui stesso, ai tempi in cui era stato nell’orfanotrofio, aveva dato parecchio filo da torcere a compagni e inservienti.
«Ci vediamo» si limitò a dire invece, prima di voltarsi ed uscire dalla Wammy’s House.
Attraversando il giardino freddo e deserto, passò mentalmente in rassegna i casi che aveva risolto in passato, chiedendosi quale sarebbe potuto interessare ad un bambino di… già, quanti anni poteva avere Mello? Lui non se ne intendeva di ragazzini, e la sua capacità di desumere l’età dall’aspetto aveva bisogno di essere affinata.
Quando Watari gli sorrise gentilmente, aprendo la portiera dell’auto, L realizzò che lui non lo ricordava nemmeno, l’ultimo giorno in cui si era sentito un bambino.
Una volta seduto all’interno della limousine, i piedi nudi poggiati sul sedile e le ginocchia piegate contro il petto, arricciò appena le labbra. Mise la mano destra in tasca, accarezzando con la punta delle dita il tassello che gli aveva regalato Near. Allo stesso tempo, avvicinò la sinistra a sfiorare il cerotto che aveva sull’avambraccio.
E si ritrovò a domandarsi se, in fondo, oltre ai propri casi, non avrebbe potuto raccontare a quei bambini di un sogno.

Quella sera, L affidò a Watari l’incarico di comunicare alla polizia locale l’identità dell’ultimo colpevole che aveva stanato. Quando l’uomo uscì dalla stanza, il giovane si rannicchiò sul divano con un certo impaccio, stringendosi in posizione fetale, un dito quasi inquieto a stuzzicare le proprie labbra.
Chiuse lentamente gli occhi, anche se gli riusciva difficile rilassarsi – certamente i pensieri che gli vorticavano nella mente, impazienti di essere analizzati e approfonditi, non erano d’aiuto.
E infine, mentre sentiva il giorno scivolare via con la stessa fluidità con la quale era arrivato, si addormentò, come un bambino piccolo esaurito da una giornata di gioco.
Dormì. Dormì come non faceva da mesi, da anni interi.
Dormì profondamente, avvinghiato a se stesso, sino a quando non sorse il sole.


La notte in cui L morì, il signor Yagami si fece consegnare quel che il giovane aveva addosso dal medico che ne aveva accertato il decesso.
Non era stato in grado di prevenire l’uccisione del detective. Poteva almeno cercare di sbrogliare il mistero che circondava la reale identità del ragazzo, per scoprire se da qualche parte del mondo c’era una famiglia che lo aspettava, un parente, qualcosa.
Gli venne riferito che L, sull’avambraccio destro, aveva una cicatrice a forma di mezzaluna, ormai sbiadita dal tempo, e da una tasca dei suoi jeans venne recuperato il tassello di un puzzle.
Soichiro Yagami non trovò risposte ai suoi quesiti.
Pensò che probabilmente L aveva avuto solo Watari. Si rigirò quel pezzo grigio e consunto tra le dita, chiedendosi perché mai il detective più grande del mondo avrebbe dovuto conservare un oggetto tanto banale.
Soichiro Yagami non capì.







Spazio Autrice:
Un premio a tutti coloro che sono arrivati sino a qui! xD
No, sul serio.
Mi rendo conto che come storia è abbastanza lunghetta, ma mi è uscita così. Era da un po’ che volevo scrivere qualcosa in cui ci fosse L e una sorta di rapporto con Mello e Near, e questa One-Shot si è auto-imposta. Si è scritta da sé, quasi, e assicuro che se io fossi stata più consapevole di quel che narravo l’avrei fatta lunga almeno il triplo, appesantendola di perché e percome e di riflessioni infinite…
Comunque, be’, spero di non aver stravolto i caratteri dei personaggi.
Durante tutta la stesura ho ascoltato sino allo stremo la canzone “Feeling good” cantata di Michael Bublé (gli autori sono Anthony Newley e Leslie Bricusse, grazie Wikipedia!). E il titolo è una frase che viene ripresa più volte nella suddetta canzone. In più, il pezzo in cui L dorme è presente solo per merito della seguente strofa: “Sleep in peace when day is done, that’s what I mean” (strofa che in un primo momento pensavo di inserire a incorniciare quel breve paragrafo che la riguarda. Alla fine ho deciso di no, perché volevo risaltasse di più lo stacco tra la fine della prima parte e la conclusione vera e propria in corsivo).
Bien, credo di aver detto anche troppo^^
Spero ardentemente che vi sia piaciuta.
  
Leggi le 11 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Death Note / Vai alla pagina dell'autore: 9Pepe4