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Autore: Duo_Tremolante    06/04/2011    3 recensioni
Primo progetto a quattro mani di due delle più visionarie fanwriter mai esistite.
Come si può comprendere dal titolo, il nostro è un' "ambiziosa" rivisitazione del celeberrimo capolavoro del Manzoni!
Divertitevi a leggere e fateci sapere le vostre opinioni!
Genere: Comico, Demenziale, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Belgio, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2
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Passando una notte sveglio ad escogitare scuse per non celebrare il matrimonio e sognando il dannato danase con il suo maledetto CD ogni volta che chiudeva gli occhi, riuscì infine a trovare il modo di evitare di sposare i due innamorati.

Lovino, o come dicevan tutti Lovi, non si fece molto aspettare e si recò dal curato allegramente biascicando insulti, agghindato per il suo matrimonio.
«Sono venuto, dannato pretastro, per sapere a che diavolo d’ora ci vuoi sposare»
Don Felibondio finse di non ricordarsi del suo matrimonio: «Di che giorno parli, ve, Lovi?»
Lovino montò su tutte le furie, come suo solito: «Ma che hai? La pasta al posto del cervello?»
«Vee, oggi non posso! E poi ci sono degli imbrogli, degli impedimenti!»
«Maledizione, ma che diavolo vai blaterando, razza di mangia-pasta?!»
«Veee, Lovi, sapessi quanti impedimenti dirimenti …. Pastam, fussilium, pennete ad salmonem, orecchiettem ad rapae cimum!! Tortellinum in brodum…», contò Don Felibondio sulle dita.
«Ti pigli gioco di me?!», interrupe Lovino, «Sai dove lo ficco il tuo latinorum
«Nella passta?», chiese ingenuo il curato.
Lovino lo minacciò con un pugno, e il curato parve ricordarsi del suo matrimonio: «Come ti è saltato il grillo di sposarti? Datemi tempo di qualche giorno!»
«Quanto?»
«In quindici giorni, procurerò, ve!»
«E che dico alla mia sposa belga? Eh?»
«Dì che fui io a sbagliare, ve!».
Lovino uscì dalla stanza sbattendo la porta, imprecando ad alta voce, quando, alzando gli occhi, vide la Ludwiga e si fermò attacar lite: «’Giorno, mangia-patate! Speravo che oggi saremo stati allegri insieme, per una volta»
«Mah … Come direbbe quel vinofilo: que serà, serà
«Fammi ‘sto piacere: quel cervello di spaghetti del curato mi ha propinato certe ragioni che non ho capito per niente, spiegami tu perché non può o non vuole sposarmi, oggi!»
«Ti pare che io conosca i segreti di Don Felibondio?», chiese evasiva la perpetua.
E Lovi esclamò: «Allora è vero che c’era qualcosa sotto!»
«Senti, Lovì, io non so proprio niente dei segreti del mio curato, so solo che lui non ha colpa e per difenderlo, non posso parlare! Sapessi, ci sono tanti birboni e prepotenti a questo mondo!»
«Bastardi, prepotenti e birboni! Su! Dimmi chi sono!»
«Ah, tu vorresti farmi parlare, Lovino! Ma quando ti dico che non so niente, è come se avessi giurato di tacere! Potresti anche torturarmi, e io sono abituata alle peggiori torture, non mi caveresti neanche una parole di bocca! Addio, è tempo perso per tutti e due!».
Lovino rimase basito e perplesso, tornò indietro con gli occhi stralunati, urlando a Don Felibondio: «Chi è quel prepotente che vuole che non sposo la mia Lucia?!».
Don Felibondio, veloce come una lepre, cercò di scappare dalla porta della sagrestia, ma Lovino, furbo come una volpe, chiuse la toppa della serratura e si mise la chiave in tasca.
«Ahah! Ora parlerai, maledetto bastardo! Tutti sanno i fatti miei, tranne me! Voglio saperli anche io, maledizione! Come si chiama questo bastardo?»
«Lovi, Lovi, bada a quel che fai, vee! Pensa all’anima tua!»
«Penso che voglio sapere tutto, e subito!», e così dicendo, prese il manico del coltello.
«Per la Santa Pasta!», escalmò fiocamente Don Felibondio
«Lo voglio sapere!»
«Mi vuoi morto?», tremò il povero curato.
«Voglio sapere ciò che è mio diritto conoscere» replicò seccato il giovane sposo.
«Ma se parlo sono morto! Non mi devo curare della mia vita?»
«Sei morto anche se non parli: dunque parla!»
«Prometti, mi giuri che non lo dirai a nessuno?»
«Ti prometto che farò uno sproposito se non mi dici subito il nome di quel bastardo!».
Don Felibondio, spaventato a morte, iniziò a tremare: «Don … Don … »
«Don? Don chi?», gli domandò furioso Lovino, curvo sul curato, come per ascoltare meglio.
«Don Antrigo!» pronunciò in fretta il povero minacciato.
«Ah cane!», urlò Lovino, «Cosa ti ha detto per …?»
«Cosa mi ha detto, ve?», rispose con voce sdegnata Don Felibondio, «Vorrei che fosse toccato a te quello che è toccato a me! Così non avresti più tanti grilli per la testa» e così il prete iniziò a raccontare con toni terribili il brutto incontro con i bravi e il loro maledetto CD e in seguito a rimproverare il giovane per averlo messo alle strette, chiedendogli infine: «Cosa hai intenzione di fare adesso che sai tutto? E mi raccomando, giura che non dirai nulla!»
«Ho sbagliato: mi scuso!», e Lovino scappò senza giurare!
Don Felibondio sconvolto chiamò a gran voce la sua perpetua, ma invano perché la teutonica era all’orto e non poteva sentirlo.
Si sedette alla sedia, tutto tremante e lamentoso e li lo trovò la Ludwiga che entrò in casa con un cavolo sotto il braccio: non appena la vide, Don Felibondio l’accusò di aver parlato troppo con Lovino e la poverina cercava di discolparsi dicendo che non aveva assolutamente parlato.
La discussione andò avanti per molto, quando poi Don Felibondio preso dai brividi della febbre si mise a letto malato, ordinando alla Ludwiga di sbrangare il portone e di dire a chiunque lo cercasse che il curato era malato.
Intanto Lovino tornava a casa, arrabbiatissimo e si immaginava di fare a fettine Don Antrigo, quel maledetto; si chiedeva poi se Lucia era consapevole di aver attirato le attenzioni del nobile spagnolo e perché non lo avesse confessato a lui, il suo futuro sposo!
Giunto a casa di Lucia, Lovino, chiese ad una graziosa fanciulla dalle accentuate quanto deliziose sopracciglia, Peter, di chiamargli un attimo in disparte la sua sposa.
Lucia usciva in quel momento tutta agghindata dalle mani della madre: i capelli acconciati in trecce raccolte da una spilla d’argento, portava un vestito di broccato a fiori con delle maniche allacciate con dei bei nastri ed era radiosa come ogni sposa il giorno del suo matrimonio.
«Vado un momento da Lovi-chan e torno», disse Lucia alle donne e si diresse verso il suo sposo, ma vedendolo più inquieto del solito, gli chiese, con un brutto presentimento nel cuore: «Cosa è successo?».
«Lucia!», rispose Lovino, «Per oggi il nostro matrimonio è andato a monte, e chissà quando potremo sposarci»
«Ma cosa mi dici mai? Stai scherzando?»
«No, non sto scherzando!», il giovane le raccontò brevemente la storia e quando la ragazza udì il nome di Don Antrigo arrossì violentemente ed esclamò: «Ah! Fino a questo punto?»
«Quindi, lo sapevi, maledetta?», le chiese Lovino.
«Ogni volta che io e te passeggiavamo insieme, lui ci rivolgeva delle occhiate infiammate ma non credevo che  fosse ossessionato fino a questo punto!»
«Cos’altro sapevi?», le intimò il fidanzato
«Non mi far dire altro, non mi far piangere! Corro a chiamare mia madre!» e mentre lei andava via, Lovino sussurrò: «Non mi hai mai detto niente!».
«Ah, Lovi!», gli rispose Lucia, rivolgendosi al ragazzo un momento senza fermasi.
Intanto, la buona Agnese, la madre olandese di Lucia, incuriosita della sparizione della figlia, scese le scale per vedere cos’era successo. La figlia la lasciò con Lovi e fingendo che non fosse successo nulla, andò a congedare gli invitati al matrimonio dicendo: «Il signor curato, Don Felibondio, è ammalato, e per oggi non si farà nulla», e detto così, salutò tutti e tornò di nuovo dallo sposo e da sua madre.
Gli invitati se ne andarono e si sparsero in città, a raccontare l’accaduto; due o tre di loro andarono fino all’uscio del curato per verificare se il prete fosse davvero ammalato.
«Un febbrone!», rispose la Ludwiga dalla finestra e questo mise fine alle ipotesi misteriose che già molti si erano fatti sul mancato matrimonio.
   
 
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