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Autore: Stray cat Eyes     07/04/2011    2 recensioni
[Sud Italia/Nord Italia]
Ohibò. Nel milleottocentottanta e rotti, la vita andava così. E non era proprio male, in fondo in fondo.
Genere: Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nord Italia/Feliciano Vargas, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Italiani risvegli'
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Scritta per la sesta settimana del COW-T, prompt Montagna, tremilasettecentocinquantatre parole in tutto (almeno secondo il contatore di FDP).
Una di quelle cose di cui mi pentirò per sempre... e anche mai. <3













[La storia dei panni stesi al sole]




Aprì gli occhi che saranno state le nove, e già un gorgoglio gli allargava la gola in segno di disappunto, lì a contatto con l’aria che gli gelava un piede e con quel discreto odore di pecora che veniva dalla finestra spalancata. Spalancata perché, poi, non gli era dato saperlo. Misteri alpini, chissà: forse un fantasma montanaro aveva deciso di fargli visita durante la notte, e nel tornarsene nella sua cupa casetta s’era scordato di richiudere l’anta; forse suo fratello aveva finalmente deciso di ammazzarlo con arti subdole e la collaborazione del gelo polare in cui erano immersi, là sopra.
Magari c’erano altre ipotesi, magari era stato il vento e i tentativi di farlo morire assiderato e vittima di fratricidio erano solo frutto del sospetto, ma a quell’ora assassina e in quel lettone bitorzoluto non valeva nemmeno la pena di fissarsi su certi cavilli.


Andiamocene in montagna era stata un’improvvisata di Veneziano, sciocca e idiota pari pari a lui.
Una trovata nello stesso stile di chi nella testa è ancora bambino e vive nella convinzione che le cose possano aggiustarsi semplicemente stando tutti insieme dai, a fare gli eremiti in un posticino ad alta quota in cui le orecchie ti fanno pop! ogni volta che deglutisci, per via della pressione.
In effetti, qualche dilemma da risolvere ci sarebbe anche stato, ma Romano era intimamente convinto che certe situazioni non si possano rivedere, sviscerare e concludere definitivamente con mosse azzardate come questa, soprattutto non in pochi giorni, come invece pensava lui. Son cose che richiedono come minimo degli anni, e a parlar di loro che sono Nazioni (una Nazione, a ben pensarci), gli anni si traducono in secoli – traducono proprio perché neanche fra di loro, fra Nord e Sud, riuscivano ancora a capirsi per bene. Ogni tanto sarebbe servito un interprete a fare mediazione fra le parole smozzicate dell’uno e i gesti avventati dell’altro, e non solo, ma a quel punto... Romano supponeva ci stessero facendo l’abitudine, oramai.
Però il problema sussisteva, ovviamente. C’era proprio un’incomprensione di fondo, nel marasma della loro nuova vita a due.
Sarà stata una questione di accenti – Veneziano sorrideva quando lui parlava, almeno quanto lui si prodigava in smorfie multicolori quanto era il fratello a chiacchierare al vento –, a cui bisognava ancora fare l’orecchio; saranno stati i dialetti, anche se a quelli si trovava un rimedio con la santissima e benedettissima (ma mica troppo conosciuta) Lingua Italiana, che era una donnina decisamente volubile e non riusciva ancora ad imporsi dovunque. Questo perché i fratelli d’Italia, non per dire, sono tutti uguali a prescindere. Al Nord, al Sud, al Centro e pure nelle isole, sì: hanno tutti la stessa e identica testaccia dura. In quel caso specifico, c’era chi la spacciava per tradizioni, chi voleva farla passare per orgoglio, chi proprio era di coccio e faceva finta di niente, sostenendo che “La lingua è mia e me la gestisco io” – e non era un motto per femministi ante-litteram o una strana allusione sessuale di qualunque tipo, sia ben chiaro.
Più che altro, era una sorta di antipatia mascherata da insofferenza.
Non che a Romano suo fratello stesse antipatico, per carità; Veneziano era un idiota e l’unica sua eccellenza era quella – un’eccellente (pure eccessiva, magari?) dose di stupidità –, ma da lì a provare antipatia nei suoi confronti ne passava, di acqua sotto i ponti. Almeno un torrente bello abbondante, comunque.
Un fiume in piena, va’.

A volte, anzi, nutriva addirittura un certo trasporto per lui – realtà che andava negata sempre e comunque, naturalmente, ma questo non significa che non esistesse. Al contrario, c’era. Qualche volta si vedeva. Più spesso, si sentiva. Sentiva e basta. Piano piano, sottopelle, come una poesia.
Niente di altisonante, niente di pomposo; solo una specie di intimo desiderio, una mezza frase da borbottare fra sé e sé, tanto per cambiare.
Era una sensazione chiusa in quelle effusioni inesistenti, in quel tipo di dolcezze mai state, ma che non per questo dispiacevano. C’era l’idea, abbastanza sospesa da farsi sentire e a pesargli occasionalmente sul cuore, e tanto bastava.


Comunque, ormai in montagna c’erano. Tanto valeva fare il possibile per non morirci, né di freddo né d’imperitura noia.
Gurgle~”, disse il suo stomaco.
Ecco, forse la priorità era Non Morire di Fame.




A un certo punto fu inevitabile alzarsi. Anche scendere al piano terra alla ricerca di qualcosa di commestibile, perché no.
Romano arrivò in cucina che sul fuoco già arrostiva qualcosa di non meglio definito; una sottospecie di coniglio – qualcosa gli suggerì che potesse essere un gatto spelacchiato, addirittura – annerito dal fuoco e un po’ scorticato, come un bimbo con le ginocchia sbucciate.
A proposito di bimbi, in quel posto ce n’erano un sacco. Che cosa incredibile.
Il primo lo incontrò proprio in cucina, mentre lui sorbiva lentamente del latte tiepido munto da poco - secondo il biglietto lasciato da suo fratello - e il nanerottolo s’imbrattava di cenere accanto al focolare, tutto intento ad ammirare il fuoco. Sembrava che cercasse di acchiapparlo con le manine, per come le agitava.
“Guarda che così ti scotti,” avrebbe voluto avvertirlo, ma poi gli venne in mente che forse non si sarebbero capiti. Però il bambino rischiava sul serio di finire a faccia in giù nelle braci, sporgendosi così. Avrebbe dovuto dirgli qualcosa, ma non poteva; nell’indecisione, gli uscì una specie di “Ooh”, con la voce un po’ roca.
Quando il marmocchio si voltò, lo guardò con stupore e la boccuccia ad “o”, incredibilmente identica alla sua. S’irrigidì, boccheggiò come un pesce fuor d’acqua e tentò, perché si vedeva che ci stava provando, di dirgli qualcosa – esattamente come aveva fatto lui.
Gurgle~!”, gli esclamò il pancino.
Ah, ecco. Lo stomaco gli parlava uguale, eh.
Sicché, aveva fame. Il pensiero che suo fratello, pur con tutta la sua sbadataggine, avesse dimenticato di dargli qualcosa da mangiare non lo sfiorò nemmeno. Veneziano sapeva cosa significasse avere fame a tutte le ore, non avrebbe negato del cibo a nessuno, amico o nemico, grande o piccolo che fosse.
Però, si sa, la pancia dei bimbi lavora più in fretta dei loro denti, e alla fine ecco che lo stomaco ritorna a protestare a gran voce.
A quel punto, mentre il bambino si torceva le manine giocando a “vediamo quale dito si stacca per primo” e cercava di guardare qualunque angolo impolverato della stanza che non contenesse anche la sua faccia, beh, a quel punto il gesto gli venne spontaneo e, più che porgergli la tazza col latte, fu la tazza col latte a cercare di tuffarsi via dalle sue mani.
“Uhm.” Provò a dirgli. Mai stato loquace, eccezion fatta per certe occasioni particolari.
Il bambino, da parte sua, rispose al suo invito bevendo un sorsino mentre suddetta tazza era ancora tra le sue mani, appendendosi alle sue maniche, per poi guardarlo dal basso e dargli in cambio un sorriso gigante.
Romano~!
Come chiamati all’adunata da quel gridolino deliziato, una miriade di nanerottoli apparvero all’improvviso da ogni angolo della cucina – dalla credenza, da sotto il tavolo, dietro la porta, qualcuno anche da fuori –, tanti Veneziano in formato tascabile e tutti ugualmente festanti e apparentemente pronti a saltargli addosso (e fu tanto che Romano non cadde gambe all’aria). Ngoh! rimase l’esclamazione più assurda di tutta la sua vita, almeno per un bel po’.
Due minuti dopo, in un’esplosione di “Romano” qui e “Romano” là, il suo latte era diventato una vitale esperienza da condividere tutti insieme, magari sedendosi o aggrappandosi o arrampicandosi addosso al detentore della tazza sbeccata.

Poco più tardi, uscirono – sì, sempre tutti insieme – per raggiungere suo fratello, intento a lavare i panni al lavatoio, con le mani livide e insaponate e un Ve~ che gli faceva capolino da ognuno degli angoli della bocca. Anche lui lo chiamò, anche lui gli regalò un sorriso gigante, però almeno evitò di correre a saltargli sullo stomaco, e questa cortesia Romano riuscì pure ad apprezzarla.
Rimasero fuori per un po’, e chissà come gli venne in mente di mettersi a contare le mucche insieme ai marmocchi, la cui presenza (da dove diavolo sbucavano? Una relazione clandestina con qualche altra Nazione nascente, tipo?) gli suonava tuttora inspiegabile; però non aveva voglia di far la figura dell’idiota, oltre che dello sfaticato – se Quello si alzava all’alba, a quell’ora a lui esattamente quanto restava da fare, per rendersi utile? –, sicché lasciò cadere la questione.
E poi, i bambini si divertivano. A contare le mucche, e le macchie sulle mucche, e le mucche con le macchie, e l’erba delle mucche con le macchie e certe macchie senza mucche che se ne stavano placide e puzzolenti sull’erba, non per niente. A un certo punto suo fratello sparì in casa – forse per via del gatto arrosto, che lasciato a se stesso rischiava di arrostirsi un po’ troppo – e lui ebbe finalmente via libera col sapone.

Era una cosa che sognava di fare da secoli, e quella non era un’iperbole.

Si sentiva così euforico che, mentre si avvicinava di soppiatto al lavatoio, ignorando la cesta del bucato da stendere posata ai suoi piedi, gli scappò anche una risatina malefica, qualcosa come Ha-ha-ha-hàaa, che mandò i monelli in visibilio (non avrebbe dovuto, perché era una risata cattiva e l’idea era che facesse paura o lasciasse intuire intenti oscuri, ma faceva niente).
Ma la cosa più bella fu intingere la mano destra nell’acqua – gelida, Ahio! –, strofinarla sul pezzo di sapone avanzato, aggiustare pollice e indice in un cerchio schiumoso e poi soffiarci dentro.

La meraviglia di vedergli spuntare fra le dita una bolla di sapone iridescente, che era quel genere di meraviglia che ti colpisce quando sei un bambino e che passi il resto della vita a lasciare sepolta in un cassettino lontano, lui non riuscì più a scordarla.
Non tanto perché gli chiesero il bis e il tris – e gli avrebbero chiesto volentieri anche un poker d’assi, se avessero avuto idea di cosa fosse; piuttosto perché ricominciarono a saltargli addosso, e una spinta a metà fra l’undicesimo e il dodicesimo salto lo mandò a rotolare sulla cesta dei panni puliti, i quali, a quel punto, tanto puliti non erano più.
Quella sì che fu una meraviglia, soprattutto quando Veneziano ritornò di gran carriera dalla cucina, saltellando strada facendo, e si accorse che prima di stenderli avrebbe dovuto lavarli di nuovo.
Ci pianse su lacrime amare, però smise quando lui gli premette in faccia l’unica mano insaponata, offrendosi (ma non esplicitamente) di aiutarlo.
Il problema sopraggiunse con l’ennesimo, felice e sorridente “Romano~!”, che gli saltò addosso e li fece finire tutti, ma proprio tutti nell’acqua ghiacciata.

Ohibò. Nel milleottocentottanta e rotti, la vita andava così. E non era proprio male, in fondo in fondo.



Anche in montagna c’erano tornati più di una volta, alla fine. Ogni volta che insorgeva un problema da risolvere in due e finiva puntualmente per diventare anche il problema di qualcun altro, lì nei dintorni (nel resto d’Europa, saltuariamente anche nel resto del mondo), e che sentivano l’urgenza di riposarsi un po’.
D’altra parte, anche se faceva freddo là sopra l’aria era buona, e dove c’era il sole si stava bene.

Andare via insieme, vuoi per un motivo, vuoi per un altro, aiutava a mettere da parte un po’ di quelle cianfrusaglie del non ci capiamo, del siamo diversi, del non funzionerà mai.
E comunque, visto?, c’erano voluti anni, mica qualche giorno così.
La questione aveva attraversato sì e no mezzo secolo e tutta una serie di vicissitudini più o meno scabrose, grigio-rosse e terrificanti, di quelle che speri ardentemente non si ripeteranno Mai Più. Quel tipo di cicatrici che sono collezioni di esperienze indimenticabili, e indimenticabili nel senso più orrendo del termine.
E dire che la cosa in cui non aveva mai, mai, mai sperato era proprio suo fratello. E invece, a volte – quelle volte – lo avvertiva come l’unica consolazione possibile, tra le macerie del prima e del dopo, nel fuoco del durante.
Altro che la montagna.
Eppure ogni cosa conserva una propria utilità, o almeno così dicono. Se sta lì, dicevano le vecchie a casa sua, sta lì per un motivo preciso.

Nel caso della montagna, Romano non si spiegò mai come funzionasse, come o cosa o perché accadesse.
Forse era più una questione di testa, che non di montagne e montagnole. Ah, di qualunque cosa si trattasse, qualunque fosse l’inspiegabile cura ai suoi (loro?) mali, non poteva comunque essere solo ed esclusivamente merito di quel paesaggio brullo e lacunoso, grigiomarrò nell’insieme, con tante rocce e mezzo alberello di contorno; non uno di quei posti da poeta tardo-romantico in cerca d’ispirazione, grazie lo stesso ma no davvero.
Il cambiamento, o miglioramento che dir si voglia, avveniva tutto nella sua testa, girando rotella per rotella e oliando tutti gli ingranaggi inceppatisi tra una ruga e l’altra della fronte. Il freddo congelava i pensieri di troppo, l’aria soffiava forte e gli stendeva le preoccupazioni come panni bagnati sul filo del bucato.

Oh, quelli sì che erano una benedizione.
Sapevano di sapone, dei polpastrelli rossi e smangiati di suo fratello e dello sforzo di sbiancarli più del dovuto, tendendo a strofinarli nell’acqua come su una grattugia.

Perdersi dentro ai panni stesi era qualcosa di assolutamente meraviglioso. Era la parte migliore della Cretinata della Montagna, e non era mai stata inclusa né menzionata nel discorso di suo fratello, il ché la rendeva anche più godibile. I panni stesi da Veneziano dovevano contenere una qualche magia, perché sembrava sempre che il sole ci si mettesse d’impegno a picchiare per ore ed ore proprio in quel punto, nella macchia bianca e verdino scarso in cui suo fratello andava a pinzarli sul filo perché si asciugassero. Era come se lui e il sole si dessero appuntamento ogni volta - cosa alquanto ingiusta, a parer suo.
Oh, certa parte del suo cervello, di quando in quando, insisteva che forse era solo che Veneziano li stendeva dov’era più facile che il sole arrivasse, e non che la luce degli astri gli corresse incontro allegra e gaia; ma, come si dice, ciascuno ha le proprie opinioni, e Romano e la sua mente non è che fossero mai andati d’accordo più di tanto.

Ma la realtà era come se si trasfigurasse, là sopra – anzi, là dentro, dentro ai panni. Tra una camicia e le ombre trasparenti di un lenzuolo, ondeggiando tra fusciacche scolorite e pantaloni dall’orlo un po’ scucito. Il nascondiglio perfetto. Tanto più che profumava. E poi, come (non) detto, ci arrivava sempre il sole.
Era una tiepidissima culla d’inverosimiglianza, in cui il mondo esisteva sottoforma di nuvole dalle forme assurde, di bandiere a tinta unita al sapore di marsiglia (o quel che era) che si sventagliavano sulla sua faccia, accarezzandogli la fronte; non era il tipo di ricostruzione attendibile dei fatti, quel ritaglio di mondo, ma era senza dubbio la più gradevole, addirittura rientrava nella breve classifica delle sue soluzioni preferite. Anzi, ne aveva scalato le vette e ci si era appollaiata in cima – era il caso di dirlo.
Tutto quello aveva il retrogusto dolce e un po’ nostalgico delle favole, quando Romano si stendeva sull’erba rada e metteva i pensieri e le sensazioni a maturare al sole, come frutta sugli alberi del bosco fatato.

Gli lasciava sempre sperare in qualcosa di buono, come un lieto fine.

Ma di favola... non sapeva anche tutto il resto.





La prima guerra era stata un mostro di sangue e trincee, un nuovo tipo di dolore che li aveva feriti in modi inimmaginabili.
La seconda era una barbarie nera, ed era ancora tutta lì, come un incubo ricorrente che dava l’amaro al pane quotidiano, ammesso che il pane ci fosse quotidianamente.


Romano si riscosse da un breve sonno, con il tuonare delle bombe nella testa e in bocca uno strano sapore di cenere.
Le pareti di casa tremavano, da una crepa fiorirono altri rami e qualche sassolino gli cascò addosso, con un tintinnio perfetto.
“Al diavolo,” mugugnò, rimettendosi in piedi a fatica. Ormai non gli riusciva neppure più di imprecare in maniera soddisfacente, tanta era la stanchezza. L’unico pensiero che gli vorticava in testa, da mane a sera, era Ma quando finirà?!, fioco e strascicato pure lui, esattamente come ogni altra cosa.
Romano...
Si voltò, per trovare il viso stanco di suo fratello, accucciato contro la parete, sul pavimento sporco.
“Idiota,” constatò lui, scuotendosi di dosso la polvere – che non era solo polvere, ma frammenti della sua stessa casa. “Non hai dormito.” Non era una domanda. Romano odiava fargli domande, l’aveva sempre odiato, perché lo faceva sentire stupido. E poi perché lo conosceva da una vita – con qualche secolo d’intervallo, magari – e sapeva che quella faccia lì non aveva preso sonno.
“Mi fa male tutto.” Fu la debole risposta di Veneziano; lui gli si avvicinò e - piano, perché aveva un fortissimo mal di schiena - gli si sedette accanto, il ché implicava sedersi nel sudiciume, ma andava bene lo stesso.
Primo, perché almeno erano in due.
“Sai qual è la prima cosa che voglio fare, quando sarà tutto finito?”
Poi, perché anche se c’era la guerra, e non era una guerra qualsiasi, Veneziano era ancora un idiota gracilino e cortese tanto quanto lui era ancora un idiota complessato ma orgoglioso e impolverato, ed erano sempre in due ed erano ancora fratelli, maledizione, e c’era voluto fin troppo a capirlo.
“Che?”
“Voglio mangiare un beeel piatto di pasta, un piatto di pasta come si deve!”
E poi ancora perché suo fratello sorrideva, nel parlargli, tra una smorfia di dolore e l’altra, e perché - inutile negarlo - il più forte era sempre stato lui – è sempre stato lui, pur nella codardia che li contraddistingue.
“E poi?”, gli chiese Romano, appoggiando la testa al muro, che intanto si era fermato un po’.
“E poi voglio dormire un mese intero! E quando mi sarò riposato abbastanza, io-”
Senza preavviso. Così, senza preavviso. Quelle vecchie poesie che gli serpeggiavano ancora appena sotto la pelle, scivolando da sé in ogni dove, disobbedienti. Uno di quegli antichi slanci. Cose stupide. Ricordi di calore umano in giorni di fuoco artificiale, con botti e spari e fin troppi spettatori a guardare il cielo con terrore.
“Io voglio fare l’amore con te.”
Gli capitò fuori della bocca come se niente fosse mai successo, in totale libertà di pensiero, parole, opere e omissioni, come dicevano in chiesa la domenica, e si lasciò alle spalle un modesto silenzio; poi, ecco spuntare il labbro inferiore del nord, che si protese appena a disegnare un volto corrucciato.
“Ma io ho male dappertutto...!” Piagnucolò Veneziano, in segno di protesta, e lui si trattenne a stento dal mollargli un ceffone.
“Non adesso, idiota!” Sbottò, e alla fine il ceffone non si presentò, ma si fece quanto meno sostituire da una sonora botta in testa. “Sono stanco anch’io, cosa credi?!”
“... Oh. Allora sì, anch’io.”
Lo guardò annuire, con la cenere incrostata sull’uniforme e l’arma in braccio, come una bambina da coccolare – solo, molto più pericolosa e stantia.
Bambini. Avrebbe voluto rivederli, un giorno.
“Spiacente, non sei invitato.”
Tanti, tanti bambini. Gli erano sempre piaciuti un sacco.

Anche la montagna, non era così... antipatica...





Anche le cose peggiori finiscono. Certo, impiegano sempre una quantità di tempo che pare infinita e sempiterna, nei secoli dei secoli amen, però finiscono.
Era finita la guerra. La casa aveva smesso di franargli sulle spalle in tanti, minuscoli pezzettini, non aveva più fango sui pavimenti né fucili per le mani, ed era addirittura finita l’era del gatto mannaro arrosto. O quel che era stato a suo tempo, comunque. Una disgustosa faccenda, per quel che lo riguardava.
La montagna, però, non era ancora finita. Non che gli dispiacesse veramente: se non altro, dava modo a entrambi di riprendersi un po’.

Alla fine, le cose erano andate abbastanza bene.
Veneziano aveva mangiato la sua pasta. Aveva dormito per tre giorni di fila, probabilmente considerabili il corrispettivo di un mese per un animale in letargo. Una volta sveglio, aveva fatto un sacco di altre cose più o meno prive di senso, un’assurdità dietro l’altra e così tante da non poterne tenere il conto neppure volendo.
Oddio, anche dopo tutti quegli anni, la cosa più assurda in assoluto era lui che lavava i panni a mano, con l’acqua corrente gelata e le mani illividite dal freddo, tanto da perderne la sensibilità; e che dopo correva a infilarle sotto l’acqua calda, per scaldarsele.
“Così guarda che poi ti vengono i geloni,” gli diceva lui. Macché.
Sì, beh, era successo di tutto.

Ma per certe cose non c’era ancora stato tempo.




Il materasso fece poff! con l’aria rassegnata di chi sa che è tempo di conti da pagare; e tuttavia pure un po’ felice, perché son conti niente affatto spiacevoli, consenzienti, rari, cose che si fanno in due e mica per niente, eh.
Le molle cigolarono scompagnate quando lui scivolò a casaccio su suo fratello, nella goffaggine più totale, senza riuscire a trovare uno straccio di appoggio con cui sostenersi ed evitare di soffocarsi con la gola premuta contro il gomito di Veneziano.
Romano...
No, no, niente proteste. Ammesso che quella fosse una protesta, perché nella confusione del momento e con la poca lucidità che gli rimaneva, sul serio, decifrare qualsiasi messaggio gli risultava poco fattibile. Mentre ci pensava, Veneziano continuò a protestare-ma-anche-no, lui avvertì il sangue rimescolargli i pensieri come carte da gioco alla rinfusa e Uoh, da termine sostanzialmente onomatopeico che era stato, si trasformò all’improvviso nell’espressione più intelligente, nonché coerente, che gli uscì di bocca.
E vabbè.
“Ro... ma... ci sono... i bambini...”
Sì, beh, i bambini. Nipoti di quelli della prima volta, chiaramente, ma altrettanto numerosi, rumorosi e saltellanti. Forse quello dei saltelli era un vizio di famiglia, su a casa di suo fratello.
Oh!, e poi aveva svelato l’arcano: non è che sbucassero dal nulla, i marmocchi. Vivevano solo un po’ più giù a valle, in quell’agglomerato di casette che gli era sempre stato assolutamente indifferente, per quanto fosse pittoresco eccetera eccetera.
E comunque.
“Sta’ un po’ zitto.”
“Però...!”
Non riuscendo a parole, tentò di zittirlo in altri modi, costringendosi così ad ulteriori incontri assai interessanti – un ginocchio nello stomaco, un tallone non meglio specificato giusto alla base della schiena, i capelli negli occhi e un dito nell’orecchio?! –, ma se non altro Veneziano smise di protestare-poi-chissà.
Scivolarono anche giù dal letto, nel frattempo, ma forse la strada verso la reciproca comprensione passava anche da lì.
Ro... ma... no...
Zitto.

Nel millenovecentocinquanta e rotti, la vita andava ancora così. Ed era sempre meglio.




A luglio, il vecchio lavatoio resisteva con tenacia e se ne stava lì, adagiato in mezzo al prato, con tutta la leggiadria di un grosso e vistoso blocco di pietra rettangolare - una specie di vasca gigante, tre metri per quattro. Misura esagerata o no, c’erano ancora le mani dell’idiota a sguazzarci dentro, mentre canticchiava e strofinava e strofinava.
Ma non avevano inventato quella macchina per lavare i panni...?
Lì accanto, Romano ricominciò a contare le mucche e a rubargli il sapone per fare le bolle, e a far finta di non giocare con i bambini.

Romano~!


E visse per sempre in una foresta di panni stesi ad asciugare al sole.












Note.
Assolutamente una delle cose più idiote che abbia maaaai scritto. Però lo dovevo fare, ohssì.
Also, arti subdole & nanetti in giro per casa direttamente da Disney’s Biancaneve. <3

Buh, è la prima volta che Romano mi diventa così esplicito. Non vorrei che suonasse addirittura romantico, perché mi pare quanto di più lontano dal suo personaggio esista a questo mondo XDD Anche se, devo ammetterlo, se lo diventasse non è che mi dispiacerebbe per davvero.
Forse. XD
  
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