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Autore: Venenum    07/04/2011    15 recensioni
Eloisa, proprietaria di una caffetteria molto particolare, assume un cameriere - Fabrizio - che ha un talento innato per i guai e che cerca - disperatamente - di dilettarsi in tutto. Lei è una scrittrice con il deficit dell'attenzione, lui è un po' giocoliere, un po' matto, perché come diceva de André: "Dietro ogni scemo c'è un villaggio".
Dal Primo Capitolo: Matto.
[…] I maschi sono tutti dei figli di puttana. Predicano bene, benissimo, ad asserire la verità, perché ti ammaliano, ma noi dovremmo farli sudare, per conquistarci, non dargli campo libero, gambe aperte e letto scoperto; nossignore, io mi rifiuto di essere etichettata come ragazza semplice, e nessuna donna – che si rispetti, ovviamente – dovrebbe seguire questo stupido esempio; fare sesso non è la strada giusta per innamorarsi – anche se del buon sesso è la strada giusta per rimanere estasiati e camminare su una nuvola rosa per almeno una settimana, fin quando lui non ti scaricherà con un sms.
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia la dedico ai 50 membri del mio gruppo su facebook,

ma soprattutto ad Atopika, perché è persona saggia, buona e afrikaans.

Grazie a tutte.

 

                Le storie di ieri

I poeti, che strane creature,

ogni volta che parlano è una truffa.

 

                             I

                                                   Matto

                        [Dietro ogni scemo c’è un villaggio]

 

Silenzio, solitudine, pace: ecco com’era il suo piccolo caffè prima dell’apertura. Non che dopo fosse frequentato, ma da tempo Eloisa aveva notato che i posti a sedere diminuivano e i computer si riempivano di parole. Nulla la saturava di tripudio come il rumore dei tasti, decisi e quasi stanchi, la vista delle pagine bianche affollate di parole e di una frase ben scritta, una frase nata dal cuore e concepita con la speranza. Qualcuno diceva che gli scrittori erano gente stramba, con le loro manie; alcuni erano persino ubriachi e scrivevano i loro best-seller con un bicchierino di vodka sul tavolo, macchiato in precedenza da un buon piatto di spaghetti con il sugo, perché l’Italia era la patria di poeti, di santi e di navigatori, e quindi aveva un filo logico, tutto ciò, scrivere con l’Italia e per l’Italia, magari sperando che essa portasse più fortuna del dovuto e di quanto in realtà loro si meritassero.

Eloisa aveva imparato, a sue spese, che non era affatto semplice la strada per il successo; gli agguati erano all’ordine del giorno e i raccomandati erano una razza assai famosa all’interno dell’editoria. Eloisa aveva una forza diversa, una forza che le impediva di fare il salto successivo. Eloisa, prima di tutto, era una donna con poca pazienza e molta rabbia. Eloisa aveva gli ingredienti essenziali per essere una brava scrittrice, ma aveva un unico problema: non seguiva la massa.

Non parlava d’amore – o forse non sapeva parlarne – e aveva un’umiltà talmente umile da far raccapricciare anche i contadini.

Era Eloisa, semplicemente una donna, una femminista, una scrittrice. Perché lei non aveva smesso di scrivere, lei lo faceva per se stessa; storie di ieri, storie normali, storie che forse non interessavano a nessuno, storie che avevano un loro perché; la mamma che culla suo figlio; il padre che si spacca la schiena per portare il pane a casa; il bambino che corre nei prati, ancora ignaro della morte e della fame; il neonato che strilla perché vuole la pappa, ma che poi strillerà per uscire il sabato sera.

Dipendeva da tante cose, persino lei stessa voleva ritoccare le sue abitudini, rendendole magari più caratteristiche, fuori dal comune, ma il tempo era sovrano, purtroppo, come cantava de André; ma più ancora del tempo che non ha età, siamo noi che ce ne andiamo.

Indugiò un po’, prima di cambiare il cartello del suo caffè e aprirlo alla gente. Indugiò perché voleva dedicare qualche minuto a se stessa.

E alle storie di ieri.

 “Ci vuole qualcosa, ho bisogno di qualcosa, il mio stato d’animo deve risollevarsi”, e parlava da sola, come una pazza, perché dietro ogni scemo c’è un villaggio.

Solitamente, per risollevarsi intendeva trangugiare un’intera torta caprese; quella con le uova, lo zucchero, il burro, le mandorle e il cioccolato – il fidanzato ufficiale delle donne, che fossero depresse o no, non importava, il cioccolato era il cioccolato, una leggenda e il balsamo per eccellenza, qualunque fosse la natura dell’emergenza, il cioccolato l’avrebbe sempre risolta – ecco, lei fissava la torta caprese, con sguardo laconico: il cioccolato non merita indugi né remore.

S’incamminò verso la vetrinetta dei dolci, quasi saltellando, per quel giorno poteva sgarrare: chi se ne fregava della dieta, quando non si aveva un uomo a cui provvedere?

La estrasse e ne tagliò una buona parte, posandola sul piattino, che teneva sempre bene in vista – era un pezzo antico della collezione di sua nonna – dopodiché si sedette sul suo divano, perché ogni scrittore – che si rispetti – aveva un suo personale posto a sedere, nel suo caffè: questa era una delle tante stranezze. I computer erano già accesi, i tasti erano in visibilio, la sua mente già correva veloce, la concentrazione si stava concentrando in un vortice di concentramenti.

 

[…] Ogni bene materiale di una persona rimane, dopo la morte, ma i ricordi? Se li dimenticassimo? Se per sbaglio il nostro Magazzino dei Ricordi – come lo chiama Stephen King – prendesse fuoco e a noi non rimarrebbe nulla se non tentare di acchiapparli? Oggi ho conosciuto una donna. Suo marito era morto, sua figlia si era persa, e lei era demente. Che cosa ricorda questa persona? Un’intera vita cancellata. Vorrei scriverci una storia, ma non posso speculare dietro le spalle di chi ha sofferto tanto e molto, di chi ha perso davvero tutto, di chi ha smesso di credere contro la sua volontà… […]

[…] La tristezza mi ha preso – perché? Neppure la musica oggi mi consola – è già notte tarda, e non ho voglia di dormire; non so cosa mi manca – e ho già più di vent’anni. Per chi non se lo ricorda, questo è un pezzo della “Vita di Chopin attraverso le lettere”. Se dovessimo descrivere la nostra vita attraverso le lettere, quale utilizzeremmo? Lettere scarlatte? Saprebbero fare il loro dovere? Io credo di sì. Componiamo lettere su lettere, dalle lettere nascono delle frasi, dalle frasi nasce un romanzo – che a volte può non definirsi tale. Ma quando la tristezza ci afferra, costringendoci a naufragare con lei, qual è l’alternativa valida? Che cosa potrebbe salvarci? La vita non è altro che un susseguirsi di azioni già viste, lettere già proferite, frasi usate… nessuno sa inventare, per questo l’ultima spiaggia è rappresentata dal verbo “copiare”. Ecco, mi piacerebbe parlare delle lettere. Ma dove le trovo ventiquattro persone costrette a raccontarmi i loro cavolfiori solo per farmi sfondare? Appunto. Invento. A come Atopica, la malattia. B come brutti, i sintomi. C come crudele, la vita. […]

[…] Vagli a spiegare che è primavera, e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera. De André. Un poeta? No. Lui stesso definisce i poeti dei truffatori – ed io credo che abbia ragione da vendere – semplicemente De André è un uomo che sa il fatto suo, che nelle sue canzoni parla della realtà, vera o cruda, perché la realtà spesso non è né una fan fiction né uno di quei bei romanzi a lieto fine, quelli che ti danno speranze e poi te le rubano non appena riponi il libro in un vecchio scaffale, perché poi, dopo aver bramato la stessa affinità tra i due pollastri, devi fare i conti con qualcos’altro: la realtà. Lo dice anche il termine: ciò che ha un’esistenza reale – complesso di ciò che è reale, vero e materiale. Supponendo ciò, la vita è da accostare al termine realtà. Nella realtà è tutto diverso. Puoi agguantare la felicità, cercarla per una vita intera, provarla per pochi istanti. Ma ti renderai conto che dopo averla trovata, in fin dei conti, non è altro che uno stato d’animo. E, come tutti gli stati d’animo, passa, prima o poi. […]

Un rumore sordo, un bussare sofficemente, la distolse dalla sua scrittura.

“Ma chi diamine è, a quest’ora, mancano ancora quarantacinque minuti all’apertura!”, esclamò, imbufalita.

Salvò i suoi lavori – i suoi pensieri – e si avvicinò alla persiana, ancora abbassata, delle finestre, ma vide chiaramente un uomo; doveva essere molto alto, più del suo normalissimo 1,70 cm, perché non riusciva a scorgere la sua testa.

“Dannazione”, solo in quel momento si ricordò del cartello che aveva appeso non poche ore fa; aveva bisogno di un cameriere, qualcuno che si occupasse della clientela quando lei aveva altro da fare.

Certo, Eloisa non pensava che quello che si sarebbe ritrovato davanti, una volta aperta la porta, fosse poco più che un ragazzino, un ragazzino che dimostrava molti più anni di quanto lei stessa si aspettasse mai di contare.

“Buongiorno! Sono qui per il lavoro di cameriere”.

Certo, Eloisa non credeva minimamente che esistesse una voce talmente dolce da farle desiderare immediatamente una dose d’insulina, possibilmente con un buon caffè amaro nelle vicinanze, tanto per raddoppiare la dose e farle scordare quel fremito che oltrepassò il suo corpo quando udì miele su miele, una scorpacciata involontaria di dolci.

S’infastidì persino quando lui le tese la mano, mostrandone apertamente un palmo morbido e ben curato, le unghie perfettamente limate e una pelle delicata che si otteneva solo dopo aver passato chili di creme anti-età.

Eloisa pensò che lui fosse gay, in effetti.

“Posso entrare?”, le chiese, mordicchiandosi le labbra, abbastanza carnose.

“Certo”, rispose, facendo una smorfia di disgusto.

Il ragazzo si guardò intorno, rimanendo estasiato dai particolari ricercati con cui Eloisa aveva basato l’intera esistenza del suo caffè; vi erano fotografie normali, gente che s’incontrava per strada, ovunque, non una foto di signori benestanti, non un ritratto di gente perbene, accanto a uno strano divanetto vi era addirittura la foto di un carcere, forse di massima sicurezza, e lui si limitò ad annuire.

Poi lo vide; un occhio gatteggiante, di un colore indefinito, arancione, castano, una sfumatura cangiante e leggermente ipnotizzante.

Eloisa rimase in silenzio, squadrandolo; preferì quasi infliggersi le pene più macabre, anziché pensare a ciò che stava pensando spodestando i pensieri che lei avrebbe voluto pensare.

“Molto carino, quell’occhio, riflette abbastanza quello di Sauron”.

Ironico, tagliente, velenoso, pungente; a Eloisa piaceva elencare degli aggettivi quando conosceva una persona, ma quelle qualità che lei ritrovò in lui – a parte l’ironia, salvo che non fosse autoironica – non le apprezzò.

“E’ il mio occhio”, gli riferì, destreggiandosi tra alcuni scacciapensieri che teneva in negozio – che evidentemente non funzionavano – e si diresse verso il bancone, agguantando una delle Marlboro che teneva sempre bene in vista.

Lei era una fumatrice che non si vergognava del suo status.

Accendendosela, fregandosene altamente dell’opinione altrui, guardò il suo nuovo cameriere non ancora assunto – ma contò di farlo, ne aveva bisogno, lei odiava dipendere da qualcun altro, ma Eloisa guardava in faccia la realtà, ed essa era chiara e cristallina: necessitava di qualcuno. Punto.

“Nome, cognome, anni, indirizzo, sii sincero, non avrai più di vent’anni”.

“Fabrizio Jhonson, ventuno, abito qui vicino, non molto lontano da Hampstead, ma perché vuoi il mio indirizzo?”, corrugò la fronte, maliziosamente, sbeffeggiando la sfrontatezza di Eloisa.

Lei si avvicinò piano, come un leone prima del balzo, giocando con la sigaretta tra le dita senza farla cadere: odiava immensamente quando succedeva.

Fabrizio avvertì quasi il fiato della donna sul suo collo; caldo e voglioso, lo incentivava a restare immobile, non era possibile attuare un piano di fuga. Per un attimo, pensò di essere finito in uno di quei film dove nei caffè vengono uccise le persone, dove quei cartelli servono solo ad attirare poveri diavoli che cercano un lavoro, onestamente.

Ma lui non era un ragazzo dabbene.

“Perché se sparisse qualcosa, saprei dove trovarti”, soffiò Eloisa, schioccando la lingua e guardandolo negli occhi; verde, le piaceva il verde, era libertà, prati ancora non violentati, prati illibati, che aspettano una coppia di ragazzini alle prese con le prime tempeste ormonali.

Fabrizio riuscì a mascherare perfettamente il sarcasmo, che invece avrebbe voluto far trasparire dal suo viso, ma era dedito al dandismo – ostentava eleganza e raffinatezza, nonostante lui stesso fosse molto restio a seguire le orme della sua famiglia – e ognuno dei suoi parenti gli aveva insegnato che non era certo una buona idea mostrarsi apertamente a una donna, specialmente a quelle che possedevano le palle, e non da tennis né da golf.

“Allora, uomo di lettere, dimmi qualcosa di te, perché io dovrei assumerti, ad esempio”, lo spronò, indicandogli uno dei divani dove poter adagiarsi; la gente sproloquiava meglio se seduta su un comodo e puffoso divano.

Fabrizio rimase leggermente interdetto, anzitutto non sapeva spiegarsi l’accostamento a uomo di lettere – riferimento casuale a Pinocchio? – quella donna parlava per enigmi, una datrice di lavoro più pazza non poteva certo che trovarla lui; denudato dai suoi fiori preferiti, adesso varcava le soglie di un nuovo giardino, lussureggiante, forse, ma certo non migliore, apparentemente bello, ma si sa che ciò che è bello fuori, può essere marcio dentro.

“Ho fatto il factotum per un paio di mesi, ma mi sono reso conto che non mi apparteneva; ho provato a studiare, ma mi sono reso conto che lavorare dà più soddisfazioni; mi diletto in tutto, voce del verbo dilettare”, tono ardente e gradevole, forse quel ragazzo sprecava parole, ma erano parole ineccepibili, proferite nell’esatto istante in cui dovevano fuoriuscire dalle sue turgide labbra.

“Di tutto e di più, in poche parole… sai servire ai tavoli?”, domandò, cominciando a mostrargli l’intero locale, “qui, in questa vetrinetta, ci sono i bicchieri di cristallo, mi raccomando”, lo fissò intensamente, sperando di infondergli un po’ di fiducia ma al contempo anche un pizzico di severità – Eloisa odiava i lavativi – “non sono ammessi bicchieri rotti. Odio i bicchieri rotti. Odio i pezzi frantumati. Odio ripararli, perché non sempre le crepe possono riaggiustarsi, non sempre basta la colla, e neanche il cemento armato”, concluse, con gli occhi leggermente scuri e umidi; il problema di una ferita è che più cerchi di disinfettarla, più ti duole, più cerca di ucciderti; il problema di una ferita è che se non estirpi il veleno in tempo, lei ti annienta, e il veleno diverrà parte di te, facendoti desiderare di rimanere zitella, fino a non riconoscere il confine tra acido e normale.

Fabrizio – pur essendo un essere di sesso maschile – comprese che c’era qualcosa che non andava; rotti, pezzi, frantumare, quella donna doveva essere un po’ delusa dalla vita, a parere suo.

“Mi hanno detto che in questo locale si scrive, è una bella trovata per fare soldi a palate”, osservò.

Eloisa scosse veementemente la testa, poi disse: “No, io non lo faccio per i soldi. Potrei chiudere domani, ma ciò che mi dispiacerebbe è lasciare tutte le persone che non hanno un minimo di fiducia in sé, per questo motivo rinunciano e abbandonano il loro sogno, dopodiché dimenticano persino l’esistenza dei sogni; vedi, i sogni sono come gli oggetti che riponiamo in soffitta, non ricordiamo neanche di averli, li lasciamo lì, a prendere polvere e a essere divorati dai tarli, è uno spreco, per questo tengo le sigarette bene in vista; potrei dimenticarmi di fumare, ma non potrei mai dimenticarmi di essere stata una fumatrice, in passato, lo stesso vale per i sognatori”.

Fabrizio comprese che Eloisa era davvero matta. La osservò meglio, quasi pensando di rigirarsela tra le mani, chissà qual era il suo odore, il suo alito sapeva di caffè; una fumatrice e bevitrice di caffè, pensò, non era davvero il suo ideale di donna. Fisicamente forse sì; di sicuro tra quei seni vi era un mondo da scoprire, e tra quei fianchi vi era una morbidezza da baciare.

Si maledì da solo per aver pensato sessualmente riguardo alla sua – ancora incerta – datrice di lavoro; ma amava il sesso, come tutti gli uomini, lo venerava, era nella sua lista delle cose da fare settimanalmente, come vedere il calcio e assistere alla partita di golf di suo padre e del vicino sordomuto.

“Immagino che tu non abbia mai lavorato in una caffetteria; scoprirai presto che questa non è una normale caffetteria. C’è lo scrittore delle nove, che pretende il suo whiskey con ghiaccio, c’è quello delle dodici, che necessita del piatto di spaghetti con il sugo. C’è la scrittrice bambina, che scrive favole e adora la cioccolata calda con le praline sopra, ma anche la vecchietta rincoglionita che tenta ancora la fortuna; anche lei è da stimare, la adoro, scrive delle lemon assolutamente eccentriche, vagamente porno, ma con uno stile poetico, dovresti leggerne una”, gli riferì con sguardo vacuo e sognante, conscia di voler riempire le sue giornate con quella gente matta; dietro ogni scemo c’è un villaggio, Fabrizio de André aveva sempre ragione.

“Uhm…”, Eloisa arcuò entrambe le sopracciglia, spalancando la bocca, ma questo Fabrizio non lo vide, poiché era intento a fissare gli oggetti d’antiquariato con cui doveva avere a che fare, “sei di origini italiane, se non sbaglio, Fabrizio”.

Lui si girò, mostrandole un aperto sorriso; dentatura bianca, perfetta, schifosamente curata dal dentista almeno due volte il mese; che spreco di soldi, pensò Eloisa, lei si passava il tempo a lavarli tre volte il giorno, ma fumava – tantissimo, a volte anche trenta sigarette – e beveva litri di caffè, l’unico eccitante che riusciva a eccitarla davvero, ormai.

“Mia nonna aveva una vera e propria passione per il cantante, de André, e così mia madre ha voluto farle questo dono”, le raccontò, passandosi una mano tra i capelli biondo sporco, spettinandoli; affascinante, forse quello era un tic, ma assolutamente affascinante, di un fascino che ammalia e distrugge, che danna e risolleva, che spazza e illustra il tragitto esatto per il sesso.

Un antipasto d’alta classe, insomma.

“E tu ascolti diligentemente le sue canzoni?”.

“Penso che il Faber sia cantante di realtà, non di sogni, mi ha aiutato a comprendere molti errori e ha rivoluzionato completamente il mio concetto di libertà e verità”.

Un uomo che ama il Faber, un uomo che ama il Faber in Inghilterra, ma allora perché lei sentiva odore di bruciato?

“Già, concordo”, ansimò un attimo, prima di riprendere fiato e scacciare via i pensieri infimi e blasfemi che il suo cervello aveva partorito da quando Fabrizio aveva varcato la soglia del suo caffè.

“Una settimana in prova, dimostrami che vali ed io ti assumo; una settimana, non un giorno di più né uno in meno, l’importante è che tutti i cristalli di mia nonna siano ancora vivi fino a lunedì prossimo, per favore”.

Lui si limitò a fare un cenno disinteressato con il capo: aveva un lavoro e avrebbe fatto di tutto pur di tenerselo.

“Vado a scrivere qualcosa, prendi pure confidenza con il negozio, tra mezz’ora provvedi a cambiare il cartello, metti quello con la scritta lascio ogni speranza a voi che entrate”, dopodiché Eloisa, ancheggiando un po’, si sedette sul suo divano; sul suo tavolino vi erano delle tazzine vuote, con un tenue fondo di caffè, e dei piattini che presentavano delle macchie – o tracce – di torta caprese: i vizi di uno scrittore rimangono tali fino alla morte, l’ispirazione nasce, l’ispirazione muore.

Fabrizio appurò che quella donna non era solamente matta, ma anche ossessionata dalle sue stesse manie – allarmanti, forse – lo capì perché lui era un ottimo scrutatore e un eccellente osservatore; amava approfondire la sua conoscenza attraverso gli sguardi, con i baci non ci faceva molto, finiva a letto e il sesso non era sempre come lo s’immaginava; sempre un gradino in meno di ciò che bramava.

Eloisa, invece, si strofinò gli occhi con il suo maglioncino giallo paglierino e affrontò l’ennesimo tema spinoso e delicato.

[…] Il cielo riserva un posticino per chi prega, cantavano Simon & Garfunkel, nella loro splendida Mrs Robinson. Io penso che ognuno di noi dovrebbe rispettare tutte le religioni, ma anche chi effettivamente non riesce a spingersi oltre e pregare; non è da tutti ricevere l’assoluzione divina, comunque chi finisce all’inferno ha sempre un peccato da scontare e chi finisce in paradiso ha sempre un rancore da serbare; in realtà dopo la morte ci si annoia e basta. Credo che Dio non punisca se un giorno non preghi, né il diavolo ti frusta se un giorno invochi il bene, ogni azione richiede una buona dose di domande; da che parte vogliamo stare? Qual è il nostro posto? Nella vita, ovviamente. Dopo la morte non c’è niente; unicamente peccati da scontare e rancori da serbare. V’immaginate che quotidianità? Non c’è pace sotto a un albero di fico, figurarsi da fantasmi. […]

[…] I maschi sono tutti dei figli di puttana. Predicano bene, benissimo, ad asserire la verità, perché ti ammaliano, ma noi dovremmo farli sudare, per conquistarci, non dargli campo libero, gambe aperte e letto scoperto; nossignore, io mi rifiuto di essere etichettata come ragazza semplice, e nessuna donna – che si rispetti, ovviamente – dovrebbe seguire questo stupido esempio; fare sesso non è la strada giusta per innamorarsi – anche se del buon sesso è la strada giusta per rimanere estasiati e camminare su una nuvola rosa per almeno una settimana, fin quando lui non ti scaricherà con un sms – la strada giusta per innamorarsi non esiste, forse neanche parlare, serve, perché spesso capita di non comprendersi e di riuscire difficilmente a connettere il cervello – causa magari un bel paio di tette categoricamente finte o un paio di pettorali scolpiti da Michelangelo in persona – quindi armatevi di buona pazienza, in fondo, ognuno di noi sa la strada giusta, bisogna solo scoprirla. Ma non consigliatela alle altre, nessuno è uguale, tutti abbiamo un gusto diverso. Ma i maschi rimangono dei figli di puttana. Questa è la mia ultima parola sull’argomento. […]

“Ehi! Non sei equa! Come fai a dire che noi siamo tutti dei figli di puttana, questa non è scrittura, questo è sputare veleno!”, esclamò Fabrizio, sconcertato.

Eloisa scosse la testa, scettica e piena di dubbi in merito; dov’era la parità tra uomini e donne nel 2011?

“Noi siamo sullo stesso livello, carne e sangue, non puoi giudicare gli uomini dei figli di puttana, siamo composti dalla stessa sostanza!”, regredì leggermente quando lei si alzò dalla sedia; aveva uno sguardo assassino, simile a quello della bambola, solo ancor più inquietante.

Io sono una femminista attiva”, sibilò Eloisa.

“Io sono un uomo, punto. E merito rispetto. Che significa la tua risposta?”, infuriò un tornado di scambi di fiati a un centimetro del suo naso.

“Che se ti azzardi ancora a rivolgerti a me come a una stupida esemplare di ochetta femmina, ti stacco le palle a morsi e le spedisco a un serial killer che se ne intende, di organi”, diretta e abbastanza stronza e concisa.

Lezione appresa. Senza aprire bocca o fiatare.

Lo scampanellio della porta interruppe quella che – disgraziatamente – sarebbe stata l’ennesima discussione tra femmine contro maschi; una guerra, una lotta che era iniziata miliardi di anni fa e che non si sarebbe mai e poi mai – purtroppo – conclusa.

Christian McQueen era un soggetto davvero unico, no, non raro, unico davvero; ricordava Bob Marley, era un uomo devoto alla pace e all’amore libero – eterosessuale o omosessuale – e rispettava con profonda riverenza gli stati che avevano accettato di legalizzare le droghe leggere; emancipatevi dalla schiavitù mentale, solo noi stessi possiamo liberare la nostra mente.

Eloisa non sapeva dire se lo facesse apposta, se avesse programmato in qualche modo il suo carattere oppure se fosse davvero così; conosceva il metodo di scrittura di Christian – era altamente improbabile che lui sfondasse e valicasse la soglia degli scrittori stimati  – ma le piaceva leggere i suoi scritti, perché implicavano delle emozioni vere, non finte, parole sincere, non ricercate, ideali liberi, non moralisti; Eloisa odiava gli scrittori che tentavano di inserire una morale nel loro racconto, per questo lei aveva imparato a scindere le due cose: opinione e manoscritto.

“Eloisa, cara, un whiskey con ghiaccio”.

Quella scena si ripeteva tutte le mattine, ma variava qualcosa; il tono della voce, poiché anche Christian aveva i suoi momenti “no”, perché era umano, non era mica un robot, quindi si comportava con lui seguendo la sua scaletta; tono secco – fretta – tono buono – calma.

Ma, quel giorno, fu Fabrizio a prendere le redini della situazione. Non lo conosceva, per quanto poteva saperne, lui avrebbe potuto essere un assassino alla ricerca di donne docili, ma lei aveva fortunatamente imparato qualcosa da suo padre; nessun uomo devoto agli omicidi porterebbe un’orrida cravatta viola.

Quando la notò, prima credé di ritrovarsi in uno di quei gialli di Agatha Christie, poi cominciò a capire di doversi disaffezionare dagli ideali che suo padre le aveva inculcato; se quell’uomo si fosse rivelato un assassino – un assassino degno del suo lavoro, però, non uno che provava a imitare il rimpianto e defunto Freddy Krueger – avrebbe sicuramente perseguitato suo padre dall’oltretomba, fino allo sfinimento.

Scorse il suo nuovo cameriere in giro per la sala, districarsi perfettamente tra gli scacciapensieri, per poi fare un buffo giro su se stesso, continuando verso la sua meta: il tavolo di Christian.

Era un giocoliere? Era anche un giocoliere? Aveva una doppia personalità o soffriva di bipolarismo?

Le storie di ieri, il caffè di Eloisa Sparks; lei, la scrittrice con il deficit dell’attenzione, lui, il cameriere bipolare: un’accoppiata certamente vincente.

“Tu! Ragazzo, come ti chiami? Che diamine, Eloisa, un giorno e ti ritrovo qui un matto, ma ti ricordi, cosa diceva de André, vero? Dietro ogni scemo…”.

“…c’è un villaggio, signore. Mi chiamo Fabrizio. Il piacere è tutto mio, voi scrittori siete l’anima del mondo, confido in voi e nel vostro buonsenso; sono stanco di leggere di amorazzi e robe del genere, io voglio la gente che incontro per strada…”.

“… che parla di noi. E di com’è realmente che va la vita”, concluse Eloisa, leggermente basita.

Christian batté le mani, felice, poi, in vena di complimenti, ripeté: “Sento molta energia positiva, oggi credo di poter scrivere molto e molto bene, grazie del whiskey, figliolo”, osservò attentamente il bicchiere, per poi rimanerne quasi estasiato, “come facevi a sapere dei miei tre cubetti di ghiaccio?”, domandò, come se stesse assistendo a qualcosa di paranormale.

Fabrizio fece spallucce.

“Intuito, ma non credo che c’entri qualcosa lo spiritualismo o cose così; mi capita spesso di intuire ciò che desidera la gente”.

“E’ un dono, ragazzo, un dono davvero raro, usalo con coscienza”, replicò Christian; i suoi capelli, solitamente poco curati, erano stranamente lisci, quel dì, che avesse un appuntamento con una donna?

Eloisa doveva indagare, amava rapportarsi con altri scrittori; si scoprivano sempre dei nuovi stili, perché ogni scrittore era a sé, con uno stile personale e che difficilmente si ritrovava in altri scritti, quindi era logico supporre che lo custodisse gelosamente.

Fabrizio ghignò malvagiamente, inavvertitamente percepì l’assenza di ossigeno, in quella stanza, le luci non giravano, ma la testa sì, vorticosamente; era un calo di zuccheri dovuto alla sua scarsa fame mattutina, ma principalmente quel malessere proveniva dalla sua famiglia: parenti serpenti.

Quello era il suo nuovo lavoro; qualcuno l’avrebbe chiamato sguattero, volgarmente parlando, altri lo avrebbero definito uomo di fatica, forse coloro che si reputavano nobili, ma lui si definiva dilettante, perché avrebbe voluto davvero dilettarsi in tutto, in ogni più insignificante hobby – anche se lui stesso dovette ammettere che ogni passione rimaneva una rispettosa passione – quindi si sarebbe divertito, lì, in mezzo a quella massa di scrittori, che pazzi erano pazzi, ma forse anche un po’ matti.

Ma de André aveva davvero ragione, quando parlava di quel villaggio e di quello scemo, lui intendeva che dietro ogni persona un po’ fuori di testa c’è qualcos’altro, magari anche di magico e di primitivo, una fantasia notevole e una buona capacità di intendere e di volere; da rispettare anche loro, perché prima di tutto doveva esserci rispetto, rispetto per tutti: persone, animali, oggetti, piante.

Rispetto.

Che si stava esaurendo, come lo scaldabagno, aveva dichiarato apertamente di estinguersi entro dieci anni.

Se in quel momento qualcuno gli avesse chiesto del rispetto, gli avrebbe illustrato Eloisa; una bella ragazza, certo, ma strana, quel tocco che dà leggermente alla testa, come il primo vino non ancora maturato, quello che riesce a stordirti ma non a capovolgere completamente il tuo desiderio di restare sobrio; i capelli rossi, come il fuoco, anzi, più del fuoco, quindi aveva i capelli di un rosso distintivo – ma dubitava altamente fossero naturali, nessuno potrebbe avere quel gene – che si sposavano perfettamente con gli occhi arancioni, castani, cangianti e gatteggianti.

Bella era bella, matta era matta.

Ma lui aveva diciotto anni. Lei aveva ventitré anni.

Già pareva udire le grida quando Eloisa l’avrebbe scoperto; ma confidava in de André, magari lui l’avrebbe convinta con le sue canzoni a non licenziarlo.

Eloisa prestò molta attenzione al susseguirsi delle scene che i suoi occhi scrutavano; Fabrizio accoglieva – con moine molto ruffiane – ogni cliente che entrava nel suo caffè, ma fin da subito lei capì che lui avrebbe sempre portato un grande rispetto a Christian, forse perché erano simili, in fondo. Eloisa seppe che Fabrizio non era il genere di maschio che passava le sue ore libere in palestra, lo capì quando cominciò a sfogliare un libro dalla piccola biblioteca che teneva accanto alla poltrona della signora Davenport – l’amante delle lemon e del sesso – e quindi si augurò di non dover mai ricorrere ai ripari: anche lui avrebbe voluto scrivere, un giorno?

Vi era qualcosa di stranamente preoccupante in quel ragazzo.

Christian McQueen non poteva definirsi in altro modo se non felice; udiva l’incessante picchiettio delle dita che pigiavano le tastiere, esso rimbombava nella sua testa, la riempiva di parole nuove, perché uno scrittore era anche questo: inventiva e inventore.

In quel caffè, tra la pace e l’amore verso un'unica passione comune, nacquero dei nuovi sguardi tra la sua beniamina, Eloisa, e quel ragazzetto – che sicuramente non aveva ancora compiuto i diciannove anni, pensò Christian – Fabrizio.

Li vide guardarsi, ricercarsi, afferrarsi, moltiplicarsi; perché nella loro testa erano già rimasti incinti.

La gioventù, pensò, disconoscono il rispetto e amano infrangere le regole.

Il rumore di un calice infranto guerreggiò contro l’armonia.

Ahimè, chi la sente, Eloisa, adesso?

 

 

 

 

Precisazioni dell’autrice;

·         Il titolo della storia è – ovviamente – una canzone di de André: Le storie di ieri. Anche il capitolo è il titolo di una sua canzone. Trovo molto interessanti i suoi testi – così reali, veri – che non potevo esimermi dal chiamare il protagonista maschile principale Fabrizio. Ammetto di averci pensato a fondo, mi piace. Quindi, a te, Faber. Grazie.

·         I poeti, che strane creature, ogni volta che parlano è una truffa; il riadattamento di de André, in effetti, nell’album Rimmel, di de Gregori, era: i poeti, che brutte creature.

·         Ci sono spesso delle ripetizioni – chiaramente volute – come ad esempio: la concentrazione si stava concentrando in un vortice di concentramenti. Vorrei chiarire che è proprio il modo di pensare di Eloisa: è strana, lo so.

·         L’occhio di Sauron è una metafora alquanto simpatica, che dedico a Hyperviolet Pixie e a… sì, a lui. Perché, in fondo, l’ha anche lui.

·         Un ragazzo dabbene; è un riferimento a William Turner, ovvero Orlando Bloom in “I pirati dei Caraibi – la maledizione della prima luna”, quando Elizabeth lo riferisce alla cameriera.

·         Il dandismo fu un movimento culturale inglese del XIX secolo; vivere la vita come fosse un’opera d’arte. Lo ritroverete spesso in Fabrizio.

·         “Un uomo di lettere”, è un non del tutto casuale riferimento a Pinocchio; quando la volpe, avendo un libro tra le mani e porgendolo a Pinocchio, lo dice al gatto.

·         Il termine puffoso – naturalmente – non esiste, ma adoro il suo suono, consideratela una licenza poetica.

·         Un antipasto d’alta classe, insomma. Citazione by Atopika, dopo aver letto la prima stesura.

·         Lasciate ogni speranza voi che entrate; Inferno, Canto III, vv. 1-9, Dante, liberamente riadattata in funzione alla storia.

·         Emancipatevi dalla schiavitù mentale, solo noi stessi possiamo liberare la nostra mente: Bob Marley.

·         Tutte le altre citazioni sono spiegate all’interno della storia – bene o male.

·         Che dire? Arriva il commento dell’autrice, adesso; questa storia è nata per sfidare me stessa, ero leggermente stanca di parlare sempre di personaggi non miei, insomma, sentivo un bisogno impellente di evadere da Harry Potter. Avrete capito che questa storia sarà semplice per certi versi, e difficile per altri, ma non preoccupatevi: sono sempre ben disposta a chiarire i vostri dubbi. Eloisa è una donna che ha una sua opinione su tutto; spero di farvi divertire con le sue interminabili seghe mentali. Incontrerete molte persone, scrittori stravaganti, i genitori dei personaggi principali, ma ricordatevi una cosa, per favore, un’insignificante particolare: non fatevi ingannare mai dalla prima impressione, perché io gioco con le mie stesse creazioni. Sono sadica. Se siete arrivate fin qui, vi stimo.

·         A presto. Non aggiornerò giornalmente – magari – ma ritroverete molto presto il secondo capitolo di questo folle parto.

 

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