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Autore: Keiko    09/04/2011    4 recensioni
All’inizio aveva creduto di poterci fare l’abitudine poi, semplicemente, aveva deciso di non guardare più al di sotto del palcoscenico: aveva Gena, non aveva bisogno di scandagliare la prima fila alla ricerca di una compagnia per la notte, per cui aveva preferito smettere di farsi del male guardando lontano, tra gli spalti, dove c’erano altri che stavano piangendo ma dei quali non poteva vedere i volti.
All’inizio gli era capitato di sentire un groppo in gola pesantissimo e non riuscire nemmeno a cantare.
All’inizio aveva persino pensato di scendere dal palco e andarle ad abbracciare una ad una, quelle tizie sconosciute, perché in quell’unione di corpi e voci, forse, potevano trovare entrambi un po’ di conforto.
All’inizio aveva creduto di non potercela fare poi, con il trascorrere dei mesi, aveva imparato ad estraniarsi il tempo necessario per superare il ricordo, la mancanza e tornare a fare musica divertendosi, sino a quando ci fosse stato l’entusiasmo di dieci anni prima e la forza per farlo.
All’inizio, insomma, era stato tutto un fottuto casino, Jimmy.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Zacky Vengeance
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Sweet Revenge © [09/04/2011]
Disclaimer. Gli Avenged Sevenfold(M. Shadows, Zacky Vengeance, Jimmy "The Rev" Sullivan, Synyster Gates e Johnny Christ), Valary e Michelle DiBenedetto, Gena Pahulus sono persone realmente esistenti. I personaggi originali non sono ovviamente persone realmente esistenti, ma semplice frutto della mia immaginazione. La storia è frutto di una narrazione di PURA FANTASIA che mescola la mia visione di fan a eventi storicamente accaduti e rumors spulciati in rete, destinata al diletto e all'intrattenimento di altri fans. Non si persegue alcun intento diffamatorio o finalità lucrativa. Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla personalità degli artisti succitati si ritiene dunque intesa.


“Smells like something I've forgotten”
(“I can't decide”, Scissor Sisters)
 



Non c'era stato un motivo preciso per cui andare a trovare Jimmy nel giorno del suo trentesimo compleanno, ma arrivato a un traguardo del tutto inutile della sua esistenza – almeno per quanto riguardava un buon settanta per cento degli aspetti – era stato quasi naturale ritrovarsi davanti ai cancelli del cimitero di Huntigton per una mezz'ora buona prima di decidersi a scendere e affrontare quella distesa di lapidi senza significato, nomi tutti uguali che in lui non muovevano alcun sentimento.
Huntigton Beach sembrava piegata a un inverno più violento del consueto e Zacky si era persino aspettato scendesse la neve. L’aveva vista spesso in Europa, in dieci anni di tour, gavetta e giri del mondo in ogni periodo dell’anno, però ad Huntigton non c’era mai stata. La sua vita, però, aveva preso una piega talmente assurda che la neve in California, prima o poi, sarebbe scesa realmente, ne era certo.
Aveva attraversato i sentieri del cimitero con aria incerta, indeciso se fosse davvero il caso di fare la cosa con cui probabilmente si sarebbe fottuto i festeggiamenti della serata, ma era in occasioni come quella che la mancanza di Jimmy si faceva sempre più forte, e a distanza di due anni poche cose erano migliorate sotto quel punto di vista: potevi fartene una ragione ma non potevi dimenticare.
Si era sistemato il cappello con la visiera, il tempo necessario per vedere una figura accovacciata sulla tomba di Jimmy intenta a fissarne la semplice incisione sul marmo freddo, e si era arrestato a qualche metro di distanza, piuttosto irritato. Avevano chiesto che non ci fossero mai telecamere, mai fans o fotografi bastardi a infestare il cimitero durante il mese di dicembre: una pausa da un pellegrinaggio a tratti fastidioso, perché loro non erano liberi di muoversi e raccogliersi attorno a quel cenacolo senza avere il timore di veder violata un’intimità che volevano fosse e restasse tale sino a… sino a quando fosse stato possibile.
I loro fans erano i migliori del mondo, erano stati tutto quello che gli aveva dato l’energia necessaria per andare avanti e non farsi schiacciare dal dolore: ad ogni concerto era buttarlo fuori per poi riprenderlo tutto, con le ragazze della prima fila in lacrime mentre ascoltavano le parole di Matt.
All’inizio aveva creduto di poterci fare l’abitudine poi, semplicemente, aveva deciso di non guardare più al di sotto del palcoscenico: aveva Gena, non aveva bisogno di scandagliare la prima fila alla ricerca di una compagnia per la notte, per cui aveva preferito smettere di farsi del male guardando lontano, tra gli spalti, dove c’erano altri che stavano piangendo ma dei quali non poteva vedere i volti.
All’inizio gli era capitato di sentire un groppo in gola pesantissimo e non riuscire nemmeno a cantare.
All’inizio aveva persino pensato di scendere dal palco e andarle ad abbracciare una ad una, quelle tizie sconosciute, perché in quell’unione di corpi e voci, forse, potevano trovare entrambi un po’ di conforto.
All’inizio aveva creduto di non potercela fare poi, con il trascorrere dei mesi, aveva imparato ad estraniarsi il tempo necessario per superare il ricordo, la mancanza e tornare a fare musica divertendosi, sino a quando ci fosse stato l’entusiasmo di dieci anni prima e la forza per farlo.
All’inizio, insomma, era stato tutto un fottuto casino, Jimmy.
Aveva dapprima visto quella chiazza rossa che sembrava inginocchiata a terra per poi notare che era chinata intenta a contemplare la scritta con fare reverenziale, le mani giunte in quella che forse era una preghiera muta rivolta a un dio nel quale continuava a credere.
Era una ragazzina, comunque, non doveva avere più di diciott’anni, e se ne stava lì a fissare la lapide in silenzio, senza piagnistei, senza lacrime, persino senza espressione.
Atona, se avesse potuto definirla: una chiazza di colore senza suono.
Zacky aveva esitato per poi decidersi di avvicinarsi e, al massimo, farsi lasciare il posto dall’estranea, nemmeno fossero al supermercato. Aveva anche pensato di andarsene e tornare in un secondo momento, ed era quasi riuscito a decidere per la seconda opzione quando una voce l’aveva raggiunto con un accento che non apparteneva a nessuno stato americano.
“Oh scusami.”
Il soldo di cacio – era davvero bassa, in piedi, non doveva raggiungere il metro e sessanta - aveva sollevato lo sguardo verso di lui per poi riportarlo sull’iscrizione sulla lapide in marmo visibilmente a disagio, mentre si sollevava in piedi probabilmente abbassando il volume dell’I-Pod, le cuffie ancora nelle orecchie.
“Tu conoscevi Jimmy?”
Che domanda del cazzo, le persone che conosceva Jimmy erano le stesse che conosceva anche lui. Forse era una tizia che si era portato a letto dopo qualche concerto? Dopo averla squadrata con aria di sufficienza, aveva realizzato che o Jimmy si era fatto anche delle minorenni e non aveva raccontato del fattaccio a nessuno, oppure la tizia in questione non aveva nulla a che vedere con loro.
Jimmy parlava sempre delle sue conquiste, di tutte con la stessa intensità come se le avesse amate per anni anziché essersi fatto solo una sana scopata liberatoria dopo un concerto.
“Faceva della bella musica.”
Aveva abbozzato un sorriso impacciato abbassando il capo, poi gli aveva lanciato un’occhiata incerta prima di superarlo e allontanarsi da lui a passo veloce.
“Ehi aspetta!”
Non si era girata verso di lui, probabilmente aveva di nuovo alzato il volume della musica ritornando verso casa propria e Zacky si era fermato davanti alla tomba di Jimmy, su cui qualcuno – e aveva anche il vago sentore di chi potesse averlo fatto, in realtà – aveva deposto un mazzo di cinque rose, di cui quattro nere ed una bianca.
Il chitarrista si era girato alla ricerca della ragazzina ma sembrava scomparsa, inghiottita dal silenzio di un luogo che non amava i rumori forti.
“Non ha nemmeno strepitato quando mi ha visto. Mi sa che aveva una cotta per te, Jimmy. Le stendevi tutte, mmh? Non ho mai capito come cazzo facessi, poi.”
 
 
Festeggiare il suo compleanno era quanto di più divertente ci fosse: musica, birra a fiumi, amici e un casino di cui si portava appresso i postumi nei giorni a venire. Era lo stordimento da festa che lo coglieva sempre dopo un’euforia eccitante che gli correva sottopelle, del tutto simile a quella che provava quando suonava, con la differenza che durante le feste si sentiva elettrizzato come un bambino e padrone incontrastato di ogni singolo avvenimento.
Ad Huntigton, comunque, giocava in casa, forse era quella la vera differenza con un qualsiasi concerto in cui una folla in delirio era lì solo per lui; ad Huntigton poteva ancora concedersi il lusso di giocare sul filo del rasoio e non avere la certezza assoluta dell’esito delle sue cazzate.
“Ehi hai intenzione di ubriacarti prima del previsto, Zacky?”, l’aveva apostrofato Matt con una punta di divertimento nella voce.
In verità aveva già esagerato con i cocktail prima dell’arrivo al pub e il fatto si fosse già scolato due birre e in mano avesse la terza, manifestava ampiamente il fatto che la festa – per Zacky – era già iniziata da un pezzo e tutta in ascesa.
“Non mi ammazzo con così poco, lo sai. Ci vuole il mio fisico per reggere lo sforzo e… cazzo, io quella la conosco!”
Chiassoso, casinista, gesticolatore folle e assolutamente molesto: Zacky alle prese con i primi fumi dell’alcool, aveva archiviato mentalmente Johnny con aria divertita.
“Zacky piantala di indicare le persone, cazzo. Quella lì tu non la conosci, magari te la sei sognata stanotte, ma non la conosci. E’ una ragazzina ed è decisamente distante dal tuo concetto di femminilità scopabile. Dunque no, non puoi conoscerla.”
“Gena t’ammazza se ti sente, sei scemo?”
“Guarda che Gena è fuori con le ragazze… sei sicuro di stare bene? A me sembri già da buttare con la testa nella tazza del cesso, Zack.”
“Fanculo. Adesso ti faccio vedere, okay?”
Zackary Baker si era sollevato in piedi e si era seduto nuovamente rischiando di cadere con il culo per terra, poi si era rialzato e si era diretto con fare deciso al tavolo della sconosciuta, dall’altro lato del locale. Come l’avesse vista non avrebbe saputo dirlo, ma forse era stato il fiocco rosso che aveva in testa ad attirare la sua attenzione anche a decine di tavoli deserti di distanza.
“Ehi ci si rivede.”
Lei aveva sollevato lo sguardo dal proprio piatto di insalata – una porzione di patatine fritte adagiata sul lato destro del tavolo – fissandolo sorpresa.
Excuse moi?”
“Ci siamo visti stamattina, al cimitero. Ti ricordi? Ti ho chiesto se conoscevi Jimmy.”
“Oh.”
“Stai bene con quel cerchietto, sembri Biancaneve.”
“Mi stai prendendo in giro?”
“Chi? Io? Assolutamente no! Io dico solo la verità. Senti ma tu sei di Huntigton? Non ti ho mai vista qui, lo sai? E poi non hai l’accento della California. Ti sei appena trasferita?”
“Scusami, vorrei finire di cenare, potresti tornare da dove sei venuto?”
“Dritto dritto dal tavolo là in fondo. Oggi è il mio compleanno, sto festeggiando con gli amici… ti unisci a noi? Non sia mai che il mondo pensi che Zackary Baker sia un cafone che non invita al proprio tavolo una signorina che cena tutta sola con aria triste in un ridente pub nel cuore della più spacca culo città della California: Huntigton Beach.”
La ragazza aveva posato la forchetta accanto al piatto squadrandolo attentamente.
“Sei ubriaco?”
“No affatto. Rientra nei canoni standard della mia esistenza tutto questo, perché?”
Lei non gli aveva risposto, si era sollevata dal proprio posto, aveva afferrato la giacca dalla sedia vuota accanto a quella che aveva occupato e si era diretta a passo rapido verso la cassa, ignorandolo completamente.
“Ehi cazzo se sei fredda. Gli Avenged Sevenfold tengono calde le tipe di solito...”
“Mi può dire quanto le devo?”
“Pago io, metti tutto sul nostro conto, amico.”
La ragazza aveva spostato lo sguardo su Zacky che imperterrito continuava a seguirla e importunarla, passandolo poi sul ragazzo alla cassa cercando di trovare in lui un minimo di supporto che, ovviamente, da un altro idiota tatuato non sarebbe mai arrivato.
“Ehi Zacky ma che cazzo ci fai qui?”
Un altro tizio – capelli neri spettinati, tatuaggi ovunque e sguardo triste – aveva passato un braccio attorno alle spalle del chitarrista, squadrandola attentamente.
“Non è un po’ troppo piccola per te?”
“Dovevi chiederlo a Jimmy, l’ho incontrata stamattina al cimitero.”
Je ne savais pas qui était lui.”
Era stata la secca risposta della ragazza prima di riuscire a lasciare venti dollari al ragazzo della cassa – e una mancia di almeno otto, visto il poco che era riuscita a mangiare - e uscire a passo spedito dal locale, lasciando Zacky e Brian a fissare il loro nuovo interlocutore.
“Una birra amico, e bella ghiacciata.”
“La tizia di prima poteva riuscire a metterla alla temperatura che desideravi, se per quello. Dovevi chiederla a lei.”
“Ma davvero l’hai vista stamattina?”
“Si, ti dico che è lei. E mi sta sul cazzo faccia finta di non conoscerci.”
“Zack, non tutto il mondo deve conoscere gli Avenged Sevenfold.”
Tutto il mondo ci conosce, Brian. E se era davanti alla tomba di Jimmy significa che ci conosce per forza, no?”
“Jimmy non si sarebbe mai fatto una minorenne.”
“Non puoi più chiederglielo. A Jimmy.”
E le due bottiglie di birra avevano tentennato tra loro con un suono secco e famigliare che a Zacky dava quel senso di sicurezza tipico di quando sei a casa e trovi tutto esattamente come quando l’avevi lasciato, non fosse stato che ormai erano trascorsi due anni da quando Jimmy se n’era andato ma loro erano rimasti gli stessi cazzoni di sempre, con la sola differenza che avevano deciso di premere il piede sull’acceleratore della vita per non rimanere indietro, per non avere rimpianti, per riuscire a dire di aver vissuto ogni giorno come se fosse stato l’ultimo.
 
 
Zackary Baker aveva trent’anni e un giorno e il peggior mal di testa degli ultimi dieci, probabilmente. Gena l’aveva scaricato a casa come un vecchio decrepito lasciandogli un messaggio in cui lo intimava molto poco democraticamente a muovere il suo culo di trentenne e portarsi allo studio per i preparativi relativi al primo video tratto dal nuovo album.
Non era stato come con Nightmare, era stato catartico e liberatorio, era stato un provare a ripartire da dov’erano rimasti ancora insieme, come se Jimmy ci fosse sempre stato.
Era pacata rassegnazione la loro, la certezza di rivedersi molto prima rispetto a quanto potessero credere, perché avevano imparato che la vita era davvero stronza e ti fotteva quando meno te l’aspettavi.
Si era rigirato nel letto di malavoglia, prima di realizzare che effettivamente era quasi mezzogiorno e come minimo l’avrebbero veramente ammazzato per il ritardo con cui si sarebbe presentato alle prove.
“Cristo che palle. Ma non potevamo ritardare di un giorno per via dei festeggiamenti? Sarebbe stata una nobile causa”, era stata la laconica botta-e-risposta che aveva rivolto al suo disastroso riflesso: occhiaie profonde, capelli che sembravano l'orrendo nido di un qualche cazzo di uccello tra i più casinisti e l'espressione tipicamente scazzata del suo dopo-sbronza.
“Certo che Gena poteva tentare di svegliarmi, Cristo. Sembro veramente un coglione di prima categoria.”
Non era certo che Gena non avesse tentato di fargli schiodare le chiappe dal letto, per cui si era calato una cuffia in testa, aveva afferrato vestiti a caso dall'armadio e, dopo essersi infilato gli occhiali da sole più grandi e protettivi che potesse recuperare dal cassettone, si era acceso finalmente la sua prima sigaretta mentre arrancava verso l'uscita di casa, tra carte regalo, una bambola gonfiabile – non ricordava chi gliel'avesse regalata, ma era probabile fosse opera di quel coglione di Johnny – e una sua gigantografia che Gena aveva provveduto a fargli recapitare a casa loro prima della festa. Si era rimirato nella propria icona scattata al concerto di Laguna Beach, calandosi con maggior convinzione gli occhiali da sole sul naso: era realmente impresentabile e odiava essere scambiato per un mezzo tossicodipendente quando lui era semplicemente il divino e assolutamente fantastico Zacky Vengeance.
Le circostanze, comunque, avevano richiesto il minimo sindacale per potersi preparare e uscire, e l’importante era riuscire ad escogitare una serie di scuse più o meno plausibili per evitare di essere torturato a morte dagli altre tre stronzi che lo stavano aspettando da... tre ore.
Effettivamente, se avessero preso a fare bullismo su di lui, avrebbero avuto tutte le ragioni del mondo, ma quando era arrivato allo studio – dopo aver ricevuto una chiamata di Brian che gli aveva intimato di raggiungerli in mezz'ora o sarebbero stati realmente cazzi amari visto che non c'erano solo loro a registrare, ma un casino di altra gente coinvolta – la prima cosa a cui era riuscito a pensare Zacky era che il suo aspetto era davvero inquietante.
“Che cazzo hai fatto?”
“I soliti postumi della sbronza, eh Zack”, l'aveva apostrofato divertito Johnny inspirando una boccata di fumo dalla sua sigaretta.
“Cos'è, mi stavate aspettando per farmi il culo prima di Matt? Gena non mi ha svegliato stamattina e sinceramente l'idea delle prove di oggi è stata una grandissima cazzata. Vorrei sapere di chi è stata l'idea. Sappiamo tutti benissimo che il compleanno di Zackary Baker è la festa più figa e devastante dell'anno. Che bisogno c'era di ammazzarci ieri sera se poi stamattina non abbiamo potuto usufruire come Dio comanda del cesso e del letto?”
“Ordini dall'alto, Zacky.”
“Tipo? Il nostro carismatico leader?”
“No, il nostro indiscutibile produttore”, era stata la risposta divertita del primo chitarrista, intento a sollevare il cappuccio della propria felpa per ripararsi dal vento freddo di dicembre.
“Quali sono i programmi?”
“Oggi meeting con gli addetti ai lavori del video, domani prove e riprese. La tizia che ha trovato Lacey sembra in gamba.”
“Tizia?”
“Si, ti ricordi che Matt non aveva la più pallida idea di cosa mettere nel video? Ecco, Lacey era a New York per lavoro un mese fa, ed è andata alla New York City Ballet Academy per vedere uno spettacolo e a quanto pare si è invaghita di questa ballerina, l'ha avvicinata, le ha rotto le palle da brava californiana e quando è rientrata ne ha parlato a me e Matt. Vagliata e approvata la tipa, l'abbiamo fatta venire qui.”
“Perché io non ne sapevo nulla?”
“Non sapevo nulla nemmeno io Zack, tranquillo. Ma che voleva una protagonista femminile che non fosse una delle solite cubiste o pornostar che recuperiamo in giro, Matt l'aveva detto a tutti.”
“Si questo lo ricordo, ma perché non l'abbiamo vista e scelta insieme?”
“Ci siamo fidati di Lacey. Lei è appassionata di danza classica, per cui Matt le ha dato ragione. Ha parlato con il produttore e hanno preso i contatti per far venire qui la ragazza e il ragazzo.”
“Il suo ragazzo?”
Nemmeno l’odore di una possibile scopata, dunque.
Si, vero, c’era Gena, ma il primo pensiero era sempre quello che poi, lo sanno tutti che tra il dire e il fare c’è di mezzo l’oceano, no?
“Non so se è il suo ragazzo, ma so che devono ballare insieme.”
“Zack stai rompendo le palle. Se sei tanto curioso entra e va' a vedere.”
Il chitarrista aveva emesso un mugugno sommesso prima di spalancare la porta del vecchio capannone e trovarsi di fronte un muro di persone fastidiosamente disposto davanti a lui.
“Che succede?”
“Oh, Zacky, sei arrivato finalmente!”, e Gena gli aveva scoccato un bacio sulla guancia facendo scivolare le proprie dita sino a quelle di lui, stringendole nelle proprie.
“Guardala: non è bellissima?”
Tutto quello che riusciva a vedere Zacky era una figura vestita di nero – quanto meno, con quel che poteva portare evidentemente: un body, un copri spalle e scaldamuscoli – che girava su sé stessa senza fermarsi al ritmo delle percussioni di Arin.
“E' lei?”
“Esatto. Lacey ha avuto un ottimo fiuto, è eccezionale. Sta provando da questa mattina gli attacchi con Arin per memorizzare i cambi di ritmo.”
“Senza la chitarra cosa vuoi che memorizzi?”
“Non avevamo le due chitarre, Zacky. Non ti è passata la sbronza, vero?”
“Da cosa lo deduci, Matt?”
“Dal fatto che hai gli occhiali da sole quando qui dentro le uniche due luci accese sono i fari puntati sulla batteria e Marléne.”
“Grazie della psicanalisi.”
“Appena finiscono te la presento.”
Matt se ne stava con le braccia conserte al petto, una camicia dalle maniche strappate indossata su una vecchia maglia dei Metallica ormai logora e il cappello da baseball con la visiera girata al contrario.
Quando la batteria aveva finito di suonare, Matt aveva esitato qualche istante prima di chiamare Arin e la ragazza al proprio cospetto con un semplice gesto della mano.
Il batterista e la ballerina si erano avvicinati al gruppo di persone che restava al di fuori del loro mondo fatto di luci e suoni grevi con la medesima andatura leggera, Arin con le spalle curve come se stesse sostenendo il peso del mondo e la nuova arrivata dritta come un fuso, come se un filo invisibile la tenesse appesa a un millimetro da terra.
“Marléne è arrivato l'ultimo dei coglioni. Di solito è puntuale ma ieri sera abbiamo festeggiato il suo compleanno e credo abbia esagerato più di noi. Vero Zack?”
Zacky se ne stava a fissarla con un'espressione da totale deficiente stampata in faccia, mentre lei, impassibile, gli aveva teso la mano sorridendo.
“Marléne”, aveva risposto lei attendendo una risposta che era arrivata dopo diversi secondi di silenzio, come se Zacky non ricordasse più il proprio nome.
“Ma tu sei la tizia del cimitero e del pub! Cazzo se è piccolo il mondo!”
“Vi conoscete?”, era stata la pronta domanda di Gena in risposta allo spontaneo stupore del proprio fidanzato. Se c'era una cosa che aveva imparato stando con Zacky, era che non doveva avere paura delle donne con cui faceva il cretino, ma di quelle che lo lasciavano senza parole.
E riuscire a zittire Zackary Baker era cosa degna di impresa titanica.
“Ci siamo incrociati al cimitero e poi al pub ieri sera e… l’ha vista anche Brian.”
La ballerina aveva inarcato un sopraciglio come se Zacky stesse sparando un mucchio di cazzate apocalittiche, e il chitarrista si era visto costretto a fissarla con l’aria scazzata di chi non ha la minima intenzione di essere preso per il culo.
“Eri tu, no?”
Mentre la tizia in questione continuava a fissarlo con l’espressione di chi non capisce realmente ciò che le sta dicendo chi ha dinnanzi, era stato Arin a risolvere la situazione per lei.
“Marléne è francese, sta studiando alla New York City Ballet grazie a una borsa di studio. Forse non ha capito molto di quello che gli hai detto. Hai parlato troppo velocemente Zacky.”
“Ah. Non capisci?”, aveva scandito lui in risposta diretto alla ragazza, nemmeno lei fosse una cretina qualsiasi, e se c’era una cosa che Marléne odiava degli Stati Uniti era che tutti, quando scoprivano che era francese, la trattavano come se quello fosse un limite fisico al pari di una menomazione: la trattavano da immigrata, quindi da essere inferiore, almeno intellettualmente.
Odiava gli americani e gli inglesi e quella loro aura di superiorità mascherata con sorrisi amichevoli e pacche sulla spalla. Solo perché la loro lingua era la più parlata al mondo credevano che tutti dovessero conoscerla e, a voler essere pignoli, gli americani avevano un accento orribile e non conoscevano le basi della grammatica inglese, parlando in un modo davvero orribile.
L’altra cosa per cui li odiava era quel loro modo di fare… friendly? con il quale credevano di diventare i tuoi migliori amici dopo soli dieci minuti di conversazione. E benché avesse apprezzato l’intelligenza di Lacey e il suo spiccato senso dell’umorismo durante le serate in cui era andata a seguire i balletti all’Accademia – la cosa l’aveva colta di sorpresa e messa anche in imbarazzo. Non credeva potessero esistere americani a cui piaceva la danza classica né essere lei la ragione per la quale una californiana si era accaparrata i biglietti di tre serate consecutive di uno spettacolo noioso come “Lo schiaccianoci” -, restava il fatto che l’aveva trascinata in un covo di matti, lontana dalla già ingombrante e asfissiante New York
“Si che capisco. Solo non mi ricordo di te.”
Zacky aveva passato in rassegna con lo sguardo Matt che aveva stampato in viso il suo sorriso sornione da “visto, scemo?” poi Johnny, che aveva preso a fare gesti inconsulti nella sua direzione e infine Gena, il trionfo fatto persona a causa della vittoria schiacciante con cui – per la prima volta – una donna aveva rimosso dalla propria mente il suo sorriso da playboy e lo sguardo da spaccacuori.
“Tutti conoscono Zacky Vengeance nel mondo. Come si fa a non ricordarsi di una bellezza simile?”
“Non ci ho fatto caso?”, era stata la laconica risposta della ragazza prima che puntasse lo sguardo su Matt.
“Posso andare a riposare o preferite continuare?”
“Vai pure, per un paio d’ore puoi stare tranquilla. Se ti va dopo puoi provare con i ragazzi anche le basi della chitarra, anche se dubito ce ne sia il tempo dato che dobbiamo ancora parlare con il regista e i tecnici.”
“Grazie”, e si era dileguata oltre di loro con passo rapido, scomparendo verso i corridoi dei camerini.
”Dove cazzo l’avete trovata?”
“Te l’ho spiegato, no?”
“No, quella viene da Marte. Non è umana. E, tra parentesi, vi ripeto che è la stessa tizia che ho incontrato al cimitero. Per me ci conosceva eccome, altro che palle. Finge. E io odio le persone false.”
“Zacky non iniziare, ci hai parlato due minuti soltanto…”
Ma Zackary Baker non si faceva fregare dall’ultima venuta, dalla diplomazia di Matthew Sanders – che, per altro, dimenticava all’occorrenza senza troppi problemi – né tanto meno da un destino che gli aveva appena giocato il tiro mancino più fastidioso degli ultimi sei mesi: essere ignorato da una donna.
Mocciosa, a voler mettere i puntini sulle “i”, perché la tizia che arrivava dall’altra-parte-del-mondo era troppo secca per essere una donna: aveva il corpo acerbo di una ragazzina.
Che fosse ferito nell’orgoglio – nell’ego, per essere esatti – sarebbe stato evidente a chiunque, Gena compresa, ma la ragazza sapeva perfettamente che Zacky non si sarebbe mai sognato di fare il cascamorto con un’altra in sua presenza e lei aveva tutta l’intenzione di assistere alle riprese del video minuto per minuto, sino alla rimpatriata di Marléne verso New York o addirittura Parigi.
“E’ una stronza con la puzza sotto il naso come tutte le francesi, si vede lontano un miglio che se la tira.”
“Io la trovo adorabile invece”, aveva risposto lapidaria Gena prima di scoccargli un’occhiata carica di rimprovero “vado a vedere se le occorre qualcosa.”
“Prendi le difese dell’ultima venuta?”
“Mi sto solo mettendo nei panni di una poveretta che si ritrova a lavorare con quattro coglioni ricoperti di tatuaggi che non capiscono un cazzo di danza classica.”
“Io non… scusa Gena, pensi che Arin ne capisca più di noi?”
“L’hai escluso dal numero quattro perché è senza tatuaggi, Zacky?”
“Gena… vaffanculo.”
“Ricevuto.”
L’aveva seguita con lo sguardo sino a vederla scomparire nella medesima direzione della sconosciuta, per poi tornare a fissare Matt con l’aria di chi aveva palesemente voglia di discutere.
“Avanti, Zacky, che hai ancora? Levati dalla testa ogni singolo scazzo così poi saremo liberi di lavorare in tutta tranquillità.”
“Perché? No dico, Matt, si è mai vista una cazzata del genere? Noi non prendiamo delle ragazzine imberbi nei nostri video. Noi vogliamo delle donne. Cazzo, a quella chi metterebbe mai le mani addosso?”
“Veramente non è quello il motivo per cui si trova qui. Se te lo sei dimenticato, si chiama lavoro questo, e a noi serviva una ballerina degna di questo nome. Fine. Non è che ci sia da trovare una formula scientifica in proposito, no?”
“Potevamo risolvere la cosa come abbiamo sempre fatto.”
Johnny l’aveva fissato divertito, poi gli aveva offerto una pacca sulla spalla che sapeva di presa per il culo.
“Zack, senza offesa ma in Afterlife sembravi un pinguino. Nulla da dire su Gena, ovvio, ma tu facevi abbastanza schifo come ballerino.”
“Fanculo Johnny.”
“Ehi amico, capita che ci siano ragazze al mondo a cui non piacciono quelli come noi. E, come dici tu, quella arriva da un altro mondo. Parigi, Zack. Le francesi si scandalizzano per qualsiasi cosa, ti pare che possa capitolare ai tuoi piedi? Lascia perdere, questo giro è meglio se lasci il fascino della conquista chiuso in un cassetto. A Gena Marléne piace, non incasinare le cose solo perché hai gli ormoni fottutamente sballati 365 giorni all’anno.”
“Sono nel pieno dello sviluppo, Brian, è normale che mi piaccia guardare le belle ragazze o sarei gay. No?”
“Credo che nessuno abbia mai messo in dubbio la tua virilità, Zacky”, gli aveva risposto divertito Johnny offrendogli una sigaretta.
“Ma dire che sei nel pieno della pubertà suona un po’ fuori luogo visto che hai appena compiuto trent’anni.”
“Interessato alla francesina?”, aveva rincarato la dose Syn, appoggiandosi contro il muro lanciando un’occhiata ad Arin intento a lucidare la batteria come se fosse una reliquia.
“Dovrei sentirmi vecchio? O peggio, già con un piede nella fossa? Matt e Brian li hanno compiuti prima di me ma non sono stati presi per il culo come se la loro vita dovesse finire da un giorno all’altro.”
“Il solito permaloso?”
“Le solite teste di cazzo?”, aveva rimbeccato il chitarrista.
“Vado a fare un giro, torno quando avete finito di essere simpatici come una grattugia sotto il culo.”
“Tu non vai da nessuna parte. Tanto per cominciare abbiamo una riunione tecnica, poi sei libero di andare dove vuoi.”
“Da quando dai gli ordini Matt?”
“Da quando sono due ore che ti aspettiamo direi. E visto che Gena era puntuale e tu il solito ritardatario, dovresti pagare la cena di stasera.”
“Si, okay. Altro? Che ne so, devo diventare il vostro sicario? Il vostro dog sitter? La vostra colf?”
“Secondo voi dovrebbe restare con noi per sempre? Finché avremo voglia di divertirci, intendo.”
Brian aveva indicato in direzione di Arin con un cenno del capo, le braccia conserte al petto e lo sguardo puntato sul batterista, come se avesse all’improvviso sterzato la linea dei propri pensieri su un binario totalmente differente per poi trascinarci anche gli altri.
Arin era un ragazzino, era troppo magro e pulito per essere uno di loro, ma metteva il cuore in quello che faceva. Aveva nelle vene la dedizione per la musica, la voglia di suonare sino allo sfinimento, di divertirsi e ridere sino alle lacrime. A lui non interessavano le fans: era troppo imbranato con le donne. Di farsi tatuaggi, non se ne parlava neppure: aveva paura degli aghi. Di prendersi delle colossali sbronze… be’, aveva dovuto fare i conti con un’iniziazione che l’aveva costretto a letto per due giorni, vittima di quella che lui si era ostinato a chiamare “labirintite” ma che loro avevano catalogato – ridendo come matti – come la più grande e fottuta sbronza da Jack Daniel’s che un moccioso potesse subire. Il fatto che Arin non fosse stramazzato al suolo in coma etilico, l’aveva reso degno di restare negli Avenged Sevenfold. Che avesse passato poi il resto della serata e della giornata successiva a chiamare Val “mamma”, era stato uno spassoso spettacolo – un po’ meno per Matt che si era ritrovato con Zacky e Johnny che lo chiamavano “papà” emulando inquietanti vocine da bambini - che li aveva intrattenuti in modo del tutto inaspettato.
Arin, insomma, era un ragazzino pelle e ossa che aveva l’animo del cucciolo di leone. A Brian piaceva suonare con lui perché rideva sempre, se ne stava dietro alla batteria e rideva. Poteva sembrare scemo, invece si divertiva. Arin era positivo e loro avevano bisogno di trovare una leggerezza nuova per poter continuare a fare musica.
Per quel motivo, dopo mille dubbi e incertezze, a Matt era venuta l’idea di cercare una ballerina classica disposta a girare il video del loro nuovo singolo.
Erano leggeri, avevano voglia di volare e non erano ancora adulti: per quel motivo era bello vederli insieme, lui a incassare colpi sulla batteria e lei a volteggiare sulle punte senza fermarsi.
A Brian ricordavano i suoi venticinque anni, quando tutto era ancora facile e a un passo dal baratro. Erano sul ciglio della strada, pronti a essere rapiti da una buona stella o da una sfrenata corsa incontro alla morte, come due incauti autostoppisti sulla Route 58.
 
 
“Come ti sembrano?”
Marléne aveva sollevato lo sguardo su Nicky, costringendosi a richiudere il diario sul quale stava appuntando una serie di pensieri non esattamente simpatici – né carini – sui tre energumeni e mezzo che stavano a un corridoio di distanza da lei.
Si era appena liberata della presenza di Gena ed era riuscita a chiudersi nella stanza che le avevano offerto come camerino – una stanzetta minuscola in cui poteva mettere le sue cose per le riprese e ritirarsi quando voleva fuggire. Le scuse ufficiali, erano comunque la concentrazione e il riposo – quando il suo compagno non aveva perso un secondo per iniziare quello che già sapeva di interrogatorio di terzo grado.
E lei odiava essere messa con le spalle al muro, specie quando non aveva voglia di parlare – e da quando era arrivata a New York le era venuta improvvisamente a mancare – e raccontarsi. Se poi a essere il suo interlocutore-carnefice era Nick, la sua insofferenza poteva solo salire a livelli inauditi.
“Californiani?”
“Anche in Francia siete così diversi da regione a regione?”
“In Francia ci sentiamo tutti francesi, voi americani vi sentite più texani, californiani, bostoniani. A seconda di dove abitate.”
“Dici che non siamo patriottici?”
“Dico che siete cinquanta pezzi di un puzzle messi insieme a formare una bella bandiera con interessanti accostamenti cromatici. E soprattutto, noi non spariamo ai messicani che tentano di superare il confine né abbiamo una palizzata che sembra il muro di Berlino negli Anni Ottanta.”
“Quella storia ancora mi manca.”
“Leggiti un libro di storia europea, allora” e aveva accompagnato la frase cercando di richiudere la porta della stanza, con il risultato che Nick si era messo in mezzo bloccandola.
“Ehi. Cos’è quest’aria incazzata, Len?”
“Non ho voglia di parlare con te, Nick. Se evitassi di starmi addosso come un parassita riuscirei a respirare senza sentirmi come se fossi sott’acqua.”
“L’avevo detto che era una cazzata accettare.”
“Potevi restare a New York, sarei venuta anche da sola.”
“Scordatelo. Tu sei la mia ballerina e balli solo con me. Nessun altro ti deve toccare.”
Marléne aveva inspirato profondamente cercando di contare sino a dieci prima di cavargli gli occhi, distogliendo lo sguardo dal viso di Nick per poi sollevarlo di nuovo e puntarlo dritto nel suo.
“Ascoltami bene, Nicky, te lo dirò per l’ultima volta. Io non sono di tua proprietà, okay? Balliamo insieme, fine. Non c’è attrazione fisica, non c’è amore, non c’è nemmeno feeling lontani dal palcoscenico. Probabilmente siamo l’unica coppia di ballerini della storia che si odiano mortalmente appena si spengono i riflettori. Per cui, vivi la tua vita e lasciami in pace.”
Gli occhi dell’americano si erano assottigliati sino a diventare due fessure di un azzurro temporalesco, e Marléne aveva fatto un passo in avanti per costringerlo a uscire dalla soglia della stanza e liberarsi di lui per il resto della giornata chiudendogli la porta in faccia.
Con gli altri avrebbe finto un forte mal di testa e si sarebbe dileguata verso l’hotel in un batter d’occhio, seminando anche il ballerino più amato della sua stramaledetta e noiosa accademia.
“Mi fa schifo l’idea di dover ballare con una tizia che lo fa anche con altri.”
“Tu sei malato, Nick. E non sto scherzando. Tutta la passione di questo mondo non ti porterebbe mai a parlare in questo modo. Sei pazzo.”
“Ce ne torniamo a New York.”
A quelle parole Marléne aveva pensato di avere a che fare con un perfetto schizzato, tant’è che aveva ripercorso la cronaca statunitense degli ultimi anni scartabellando tra le pieghe della sua fresca memoria: uno come Nick avrebbe tranquillamente potuto commettere una strage come quella alla Columbia University, con la differenza che il suo sadismo l’avrebbe portato a torturare le sue vittime nel teatro dell’accademia, magari scrivendo inquietanti messaggi con il sangue sulle specchiere della sala prove del tipo “Io vi troverò”.
“Tu torni a New York se vuoi farlo, io resto.”
“Chiamo il direttore.”
“Il direttore viene pagato per farci stare qui, è inutile che fai le tue scene da prima donna isterica. Se non ti allettava l’idea di girare un video musicale potevi restare dov’eri. Hanno chiesto a me di venire, non a te, ma hai mosso mari e monti per esserci. Ora abbi la decenza di non impormi le tue scelte.”
“Scusate se interrompo il siparietto da piccioncini, ma di là vorrebbero anche un vostro parere sulle idee riguardanti il video ma… torno più tardi, eh?”
Brian si era grattato una guancia con l’aria di chi la sa lunga e ha sentito e visto ben più di quanto non voglia far credere con quell’aria fintamente ingenua.
Che bastardo.
Marléne aveva lanciato un’occhiata a Nick, squadrandolo da capo a piedi.
“Tu vieni?”
Nemmeno le aveva risposto e si era diretto verso l’ultima stanza del corridoio, superando Brian che era rimasto a fissarla per qualche istante.
“Allora la lingua per parlare ce l’hai.”
“Parlo solo quando serve. Non mi piace farlo tanto per dare aria alla bocca. Arrivo subito, prendo la felpa.”
“Hai freddo?”
“Preferisco non irrigidire i muscoli, non voglio che mi venga un crampo o rischio di dover stare a riposo e non posso permettermelo visto il poco tempo che abbiamo a disposizione.”
“Tu e quel tizio state insieme?”
Le guance di Marléne avevano assunto immediatamente una colorazione rossastra mentre cercava di passare la mano destra nella manica sinistra, distratta dall’assurdità di quella domanda imbarazzante. Il problema era che, a distanza di mesi, ancora non le riusciva di digerire il fatto che chiunque ritenesse lei e Nick una coppia. Per tutto il mondo era normale che due ballerini che sul palco sembravano un’unica anima lo fossero anche nella vita vera, fuori dai riflettori e dal delirio della platea, ma la verità era che sia lei che Nick erano bravissimi a mentire. Lei aveva in più la magica dote di attirarsi antipatie grazie ai suoi silenzi, alle sue occhiate di disappunto e quella sua aria bon-ton che la facevano sembrare la classica figlia di papà con la puzza sotto il naso.
Gli americani erano tutti incasinati, sportivi, orrendamente privi di gusto estetico. Che colpa aveva lei se odiava i vestiti di H&M e amava spulciare il mercatino delle pulci di Montmartre del sabato? Erano due stili di vita totalmente alieni i loro, non era colpa di nessuno: si chiamava incompatibilità.
“No. E’ il mio ballerino all’accademia. Ci odiamo.”
“Secondo me gli piaci. Un uomo non fa un discorso del genere a una donna se non ha interesse di qualche genere.”
“Hai sentito tutto?”
“Stavate urlando, era un po’ difficile non farlo. Sono venuto a vedere che fosse tutto okay, Arin aveva la faccia di quello che non sapeva che fare. Se ne stava lì come un fesso a indicare il corridoio con quella faccia da cucciolo spaurito.”
Merci.”
Aveva riflettuto un istante, poi gli aveva sorriso.
“Scusami, ho parlato francese. Grazie comunque.”
“Non ti piace l’America?”
“E’ l’America, dovrebbe piacere a chiunque. Ma se cresci a Parigi tutto il resto del mondo è scialbo.”
“Non è palloso vivere in una città così?”
“Vedere ogni mattina l’oceano non lo è?”
“Okay, uno pari. Però prima che te ne torni a casa devi dirmi cosa ti fa schifo degli Stati Uniti. Sono uno sballo, e poi non hai conosciuto la California.”
Marléne aveva scoccato a Brian il più ipocrita dei sorrisi: okay, l’aveva salvata da Nick; okay, era stato gentile e carino nell’incoraggiarla, in un certo senso – aveva davvero visto che quella discussione stava sfociando in una lite degna della peggior soap opera? – ma da lì al voler davvero conoscere la California ne passava.
Il suo unico desiderio era lavorare, tornare in albergo e scrivere sul suo diario, aggirarsi in tranquilli spazi di Huntigton Beach, magari concedendosi qualche passeggiata serale sulla spiaggia perché dagli Stati Uniti aveva imparato che nessun luogo in nessuna ora del giorno è silenzioso o deserto, e devi sempre fare i conti con qualcun altro per salvaguardare la tua privacy e il tuo spazio vitale.
 
 
“Lene, vieni anche tu a cena con noi, vero?”
La voce di Gena l’aveva colta del tutto alla sprovvista e la francese aveva abbozzato un sorriso impacciato, sistemandosi la cloche di morbido cashemere sul capo nel tentativo di ripararsi dal freddo. Rispetto alla California, Parigi era una ghiacciaia a cielo aperto con il suo vento nordico che spirava per tutto l’inverno: al di fuori del centro della città, spostandosi verso le zone meno riparate dagli antichi palazzi e dai monumenti di età napoleonica, Parigi era battuta costantemente dal freddo. Anche New York era decisamente inospitale, ma quando le persone indicavano la California come assolata e calda tutto l’anno non avevano la minima idea di vivere nel più classico ed erroneo dei luoghi comuni. Anche lo stato più caldo degli Stati Uniti era grigio, aveva l’oceano di un colore ciruleo e una brezza fredda che spirava dalla costa che teneva lontano un buon numero di surfisti e amanti del beach volley dalle spiagge deserte. Forse non avevano la neve, loro, ma la sua illusione di trovare un poco di calore in quella cittadina sperduta era stata pressoché cancellata non appena aveva messo piede all’aeroporto di Los Angeles e successivamente nell’interminabile viaggio in pullman che lei e Nick si erano sorbiti per arrivare sino ad Huntigton Beach. Pensare poi di doverlo rifare al ritorno – magari con il riscaldamento rotto come all’andata – era il peggior modo per cercare di farsi salire la voglia di stare a contatto con dei perfetti sconosciuti per tutta la sera e la notte, probabilmente, perché quei californiani del cavolo stavano svegli sino all’alba a fare casino senza battere ciglio, carichi di energia come se fossero le dieci del mattino. Che avessero al posto del sangue un cocktail di Red Bull e vodka?
“Non saprei, forse Nicky vuole tornare in albergo e mi dispiacerebbe lasciarlo solo.”
“Oh, Nick ha già detto che sarà dei nostri!”
Fregata.
“A questo punto non mi resta che accettare, giusto?”
“Giusto!”
E le aveva strizzato l’occhio prima di rituffarsi all’interno del capannone vociando e richiamando i ragazzi, lasciandola sola immersa in un innaturale silenzio suburbano a pochi passi da quello che era un bordello a cielo aperto. A Marléne non piacevano gli Stati Uniti perché le persone erano troppo disponibili e accoglienti, troppo servizievoli a renderti parte del loro mondo. A lei, sangue francese da generazioni, l’idea di dover condividere il suo tempo con individui di cui non le importava nulla e che l’avrebbero dimenticata nell’arco di una settimana, non piaceva. Di per sé non era amante delle grandi compagnie, dei ricevimenti, degli agglomerati di persone felici nel loro stare insieme: aveva imparato, crescendo, che quella felicità spesso era solo apparente e che la delusione di chi sarebbe stato tradito avrebbe portato ad altri tradimenti o ad un castigo che si chiamava solitudine. Non era sicura che quel gruppo di casinisti rientrasse nella categoria “covo di ipocrisia” ma non le importava granché approfondire le dinamiche pittoresche che univano i quattro tatuati e, in ogni caso,non era nelle sue priorità farsi sezionare da Gena per un’intera serata.
In genere quando sei la nuova venuta le persone ti riempiono di domande, pendono dalle tue labbra attendendosi aneddoti divertenti della tua vita e tu sei costretto o a raccontare balle per renderti interessante o ad ammettere miseramente davanti agli altri che la tua vita è sempre stata di una mediocrità imbarazzante: Marléne non voleva né prendersi il disturbo di raccontare cose non vere – non era nella sua indole né tanto meno aveva interesse ad apparire ciò che non era – né tanto meno aveva la minima intenzione di raccontarsi a dei perfetti sconosciuti.
“Oh sei qui! Ha detto Gena che verrai a cena da Matt, e ci raggiungerà anche Lacey. Johnny è convinto che tu ti stia intimorendo.”
Arin aveva accompagnato il suo arrivo sporgendosi dalla porta puntellandosi con le braccia allo stipite, allungandosi verso di lei come un albero acerbo che si fa scudo di quelli più grandi e imponenti.
“Non amo particolarmente la confusione, diciamo.”
Gli aveva sorriso, tornando a fissare il cielo plumbeo sopra Huntington Beach.
“Quando è così piove?”
“E’ così tutto l’inverno di solito.”
“Insomma, quando dicono che la California è baciata dal sole tutto l’anno…”
Mentono.”
 Si erano scambiati un’occhiata divertita prima di scoppiare a ridere all’unisono, dopo aver pronunciato la stessa parola nel medesimo istante. Marléne non parlava mai del tempo, era quel genere di conversazioni che inserivi per coprire buchi imbarazzanti, ma in quel momento era stata portata lì dai propri pensieri, da quel senso di alienazione che le aveva dato il cielo grigio sopra il capannone posto alla periferia di Huntigton Beach, dove si sarebbe aspettata di tutto tranne che cemento e freddo ovunque.
Sembrava che tutto dovesse virare a qualche glaciale tonalità di grigio, come se una magia crudele avesse voluto rubare alla città i colori più brillanti, ma era sicuramente tutto frutto della sua fantasia e dell’immagine dalle tinte arancio che si era fatta di Huntington Beach: spiagge assolate, ragazze in bikini, oceano azzurrissimo e gelati dai colori chimici.
“Non hai freddo qui fuori?”
“Un po’, ma voglio prendere una boccata d’aria. Là dentro si soffoca.”
“Okay, prendo la giacca e vengo a farti compagnia.”
“Tranquillo, non ce n’è bisogno: a me il silenzio piace.”
“E’ accaduto qualcosa con Nick? No cioè, non volevo essere indiscreto è che ti ho sentita alzare la voce e…”
“Nick non sa mai quando deve tacere. Credo abbia paura del silenzio, lui. Se sapesse ascoltarlo, eviterebbe un sacco di figuracce.”
Arin l’aveva guardata ancora per un istante, poi era rientrato chiudendo dietro di sé la porta del prefabbricato ormai in rovina. Marléne si era voltata a fissare l’edificio, scrutandone il tetto fatiscente e le finestre dai vetri rotti e le inferriate arrugginite: tutto sapeva di desolazione e morte, e quando avrebbe dovuto ballare sarebbe riuscita a mettere un po’ di colore in mezzo a quel patetico grigio?
Non c’erano molti colori, ad Huntigton: il grigio del cielo e l’azzurro pieno degli occhi di Matt e Zacky. Nemmeno l’oceano, ne era certa, avrebbe mai saputo replicare quelle tonalità.
 
 
Zacky aveva sempre avuto dalla propria parte una grandissima fortuna con le donne – non era fortuna, era fascino. Era saperci fare. Quello di Brian, invece, era puro e semplice culo – e il gioco d’azzardo, ma il destino aveva voluto che molto poco democraticamente i suoi amici lo lasciassero fuori dalla casa di Matt e Val con la missione di recuperare il foraggio per le belve – ben decise a scolarsi i cocktail spaziali della signora Sanders in sua assenza come ulteriore segno di sfregio, cosa che aveva acuito in lui il sospetto che la scelta casuale con la quale gli avevano servito su di un piatto d’argento l’ingrata missione, fosse la giusta punizione per il suo ritardo alle prove - con tanto di francesina con la puzza sotto il naso al seguito.
Palesemente, si stavano sul cazzo a vicenda.
“Perché sei voluta venire con me?”
Marléne si era stretta nelle spalle del cappotto, infossandosi un poco sul sedile del fuoristrada del ragazzo, limitandosi a osservare fuori dal finestrino la pioggia battente schiantarsi contro il vetro.
“Non ho avuto molta scelta. Tra il dover raccontare i fatti miei a dieci sconosciuti e farmi un viaggio in auto con un tizio che mi odia la soluzione meno indolore era la seconda.”
Il chitarrista l’aveva guardata sgranando gli occhi per poi scoppiare in una risata divertita, portando di nuovo lo sguardo sulla strada un istante più tardi.
“Allora l’inglese lo conosci.”
“Sono a New York da sei mesi, se non lo conoscessi sarei una cretina non credi?”
“Come mai da così tanto?”
“La borsa di studio dura un anno.”
“Cazzo però. Deve essere un casino passare dalla bon-ton-Paris a quel miscuglio di cose che è New York.”
“Già” aveva sospirato lei, continuando a fissare al di fuori del finestrino Huntigton Beach sfilarle dinnanzi sotto una pioggia torrenziale.
“Non ti piace?”
“Non mi piace l’America in genere. Non avete storia.”
Marléne stava valutando di aver fatto un grandissimo errore nell’offrirsi – come ospite e quindi parassita – a sopportare il viaggio al Burger King in compagnia di Zacky, cosa che tutti avevano accolto di buon grado compresa Gena che, all’idea di dover lasciare il proprio fidanzato con una sconosciuta che le sembrava tutto fuorché pericolosa e una doccia non programmata aveva optato per la prima soluzione. Marléne aveva sottovalutato l’ipotesi di una conversazione a due – nulla, di fatto, le aveva lasciato intendere potesse esserci il minimo punto in comune tra loro - da cui non sarebbe mai potuta se non mandandolo a quel paese senza un apparente motivo, mentre da una festa in cui dieci amiconi si ubriacavano e facevano casino poteva dileguarsi o restare in silenzio sino a essere dimenticata dagli altri presenti.
Non fargli domande, si annoierà di certo e lascerà perdere. Ha un ego smisurato: lui deve poter parlare di sé.
“E che cazzo! Si che ce l’abbiamo! Siamo il paese con la carta democratica più antica del mondo. Quasi.”
“Scusa che c’entra? Avete rubato le opere di mezza Europa per metterla dentro al Metropolitan Meuseum. E’ imbarazzante entrarci per un francese, sai?”
“Okay, hai deciso di venire con me perché vuoi litigare?”
“No, perché speravo di non dovermi sorbire domande di circostanza. Non sei obbligato a dovermi conoscere, staremo insieme per una settimana quindi non hai vincoli morali.”
“Per conoscerti mi servirebbe qualcosa di più che non sapere cosa pensi di New York. Sei tesa come una corda di violino, cazzo. Ma come fai tu a ballare?”
Quando le ponevano quella domanda le si apriva la mente e non riusciva a trattenere le parole: le muoveva sempre la passione, l’istinto che l’aveva portata a provare le pirouette a soli tre anni davanti alla tv del salotto.
Marléne gli aveva lanciato un’occhiata in tralice arrossendo, per poi tornare a fissare le gocce di pioggia scivolare sul finestrino e verso terra: la conversazione stava prendendo una piega che non le piaceva, di quelle in cui ti ritrovi a raccontare tutto di te senza nemmeno sapere nulla dell’altro.
Sono quei rapporti che naturalmente si instaurano tra due perfetti sconosciuti per affinità elettiva, quello che in genere capita nel momento in cui il rapporto inizia con il passo sbagliato e tu ignaro lasci da parte le barriere con la certezza che quell’altro nemmeno si prenderà la briga di doversi ricordare come ti chiami.
Forse siamo noi a illuderci che sia così perché abbiamo paura che quell’affinità elettiva diventi un’esclusiva pericolosa, di quelle che tagliano fuori il resto del mondo.
E per lei il resto del mondo era la danza e no, non sarebbe stato un chitarrista tatuato e dalla battuta pronta a vincolarla a una città qualsiasi. Non l’aveva fermata Reneé, non ci sarebbe riuscita l’alchimia improvvisa che stava serpeggiando all’interno dell’abitacolo. Avvertiva il desiderio di andare alla spiaggia e osservare l’oceano grigio e gonfio di pioggia schiantarsi a riva, sentire la spuma salmastra sul viso e potersi scaricare di tutte le scorie negative. Perché era così emotivamente instabile? Era colpa del grigio e di tutta quella pioggia che le ricordava Parigi, la sua partenza, Reneé e la scelta più dura di tutta la sua vita. A volte guardare al passato può ucciderti in un secondo, ti strozza il respiro e gonfia il petto di dolore e in quel momento avverti solo il bisogno di piangere. Da quanto tempo lei non riusciva più a farlo?
“Come mai eri al cimitero?”
“Mi stai dando il tormento con questa storia, Zackary.”
“Mi stanno sul cazzo le persone che fingono di essere quello che non sono.”
Quando di chi ti sta di fronte non ti importa nulla, finisci con l’essere solo te stesso: dimentichi le maschere perché non ti interessa sembrare o apparire ciò che non sei, sei e resti fedele a te stesso sino alla fine, come un martire al proprio dogma.
“Guarda che io nemmeno sapevo chi foste prima che Lacey mi parlasse di voi e mi proponesse di girare il video.”
“Sei andata là per curiosità?”
L’aveva fissato sgranando gli occhi inorridita, come se l’avesse appena insultata. Quello era totalmente fuori di testa.
“No!”
“Allora per pietà? Non ce ne facciamo un cazzo di quella.”
“Ma tu credi davvero di essere l’unico al mondo a cui è morta una persona cara? Ci sono madri che perdono i figli, mariti che perdono le mogli, amici che perdono amici in ogni angolo del mondo. Non tutti sono curiosi, non tutti mostrano pietà. Ci sono persone che provano rispetto, anche.”
“Non me ne frega un cazzo, sinceramente.”
“Chi diavolo sei per poter credere che il tuo dolore sia più grande di quello degli altri? Voi avete avuto l’affetto di migliaia di sconosciuti che continuano a credere in voi, ma un comune mortale a cosa di aggrappa? Alla fede quando la possiede o la ritrova, oppure si pone domande che non ricevono risposta. Avete una famiglia allargata su cui poter contare. Il resto del mondo no.”
“Non sopporto chi crede di sapere tutto.”
“E io quelli che credono di essere i Signori dell’Universo. Sei un egoista. Tu non meriti una come Gena.”
“Ehi, frena la lingua. Tu di me e Gena non sai un bel niente, quindi evita l’argomento.”
Marléne aveva spalancato la portiera dell’auto scendendo in fretta, senza nemmeno guardarlo in faccia.
“Dove cazzo vai ora?”
“In albergo.”
“Dobbiamo portare la cena da Matt o te ne sei dimenticata?”
“Puoi farlo anche da solo. A me Burger King e la vostra cucina fanno schifo, non mi perdo nulla e ci guadagno in salute.”
“Ma diluvia cazzo! Ti prenderai un accidenti!”
“Buona serata”, e aveva accompagnato la frase sbattendo con forza la portiera dell’auto
“Fanculo!”
“Idiota.”
Zacky l’aveva vista salire su un taxi un paio di metri più avanti e poi schizzare via diretta chissà dove. Non che gli importasse davvero di cosa potesse fare o meno quella tizia, non fosse che un cuore ce l’aveva e aveva anche un debole per le donne. Nella fattispecie, Zackary Baker era uno di quegli uomini che amano il genere femminile semplicemente per la sua esistenza nel mondo: certo, la cernita prima di piazzarle nel suo letto era degna di un estimatore di opere d’arte, ma restava il fatto che farle incazzare senza un motivo non rientrava nel suo essere Zacky Vengeance. Né lasciarle scappare sotto la pioggia. Mentre aspettava il suo turno per ritirare hamburger, patatine e anelli di cipolla per un esercito, Zacky era stato colto dal dubbio che Marléne potesse anche finirei dei guai, allarme rientrato nel momento in cui aveva ricordato che quella era una grandissima stronza. Non gli sembrava tipo da andarsi a infilare nel primo locale di Huntigton e rischiare di farsi rimorchiare dal primo che passava: era troppo bambina, ecco, per poter arrivare a fare cose simili ma Zacky aveva visto cose che gli avevano fatto comprendere la verità nascosta nella frase “l’apparenza inganna”, dunque tutto era possibile. Il problema sarebbe stato spiegare agli altri perché avesse lasciato andare via la loro ospite senza fermarla, nel bel mezzo di un tempo da lupi.
Raccontata così sembrava una di quelle scene da film romantico in cui lei e lui litigano, lei scappa sotto la pioggia e lui la insegue, come da copione la trova, le dice di amarla e le chiede di sposarlo, i due si riappacificano e arriva finalmente la tanto attesa scopata.
E l’anello al dito.
A quel pensiero Zackary aveva portato istintivamente lo sguardo sul cassetto del cruscotto mordendosi il labbro inferiore, l’incisivo a trattenere il piercing con indolenza: l’anello c’era, la voglia di chiederglielo pure, solo aveva una paura fottuta.
Anche lui, come Matt e Brian, doveva convolare a nozze per sentire di aver concluso qualcosa nella sua vita e mettere una linea netta tra la sua adolescenza e l’essere diventato adulto? Gena non aveva colpa delle sue menate, era persino troppo assertiva nel concedergli ogni spazio possibile e restargli accanto sempre, anche quando lui avrebbe desiderato quel silenzio che con lei sembrava impossibile trovare, masi era dimostrata sempre comprensiva e attenta alle sue esigenze, rispettosa nel non invadere i suoi spazi e rispettare le settimane in cui la casa di Brian o Matt erano diventate il rifugio di quattro uomini spaccati dalla vita.
Gena però era davvero tutto? Era davvero ciò che desiderava?
Se lo chiedeva da settimane ormai, da quando cioè aveva comprato l’anello con il brillante a forma di cuore da Tiffany, a New York, durante la pausa dalle prove di un concerto per pochi fans allestito appositamente per ringraziare quella famiglia che gli aveva permesso di tornare a vivere, un party di Halloween – come l’aveva definito Zacky – in cui erano tornati per una volta a suonare in locali sporchi dove la vita ti scorreva addosso per forza, abbandonando per un istante le arene, l’adrenalina di migliaia di persone e la voglia di suonare che ti saliva dentro, che ti caricava con le grida quando eri a terra e la voglia di farti sentire tutto il calore di un mondo distante, di una nazione che per te era solo una terra affiancata da altre sulla medesima cartina geografica.
L’anello era lì da due mesi, ormai, e ancora non era riuscito a metterlo al dito di Gena.
Come al solito era un coglione: l’aveva visto, aveva pensato a Gena, l’aveva comprato. Poi, aveva realizzato che regalarglielo significava impegnarsi in modo più serio e lui non era ancora certo di essere pronto per quello.
Aveva persino preso in considerazione l’ipotesi di chiedere a Matt e Brian come avessero capito – o deciso – che Val e Michelle erano quelle giuste per il loro “e vissero tutti felici contenti”. Se per Matt la risposta credeva fosse stata ovvia e persino scontata – quando non conosci nient’altro ciò che ti appartiene da sempre risulta anche ciò che più si plasma addosso a te in modo perfetto. Quando non conosci il mondo è normale tu ritenga ciò che conosci la via sicura per la felicità – per Brian doveva essere stato diverso, in qualche modo. Ma parlarne con lui significava essere anche preso per il culo e che, con ogni probabilità, Gena lo sarebbe venuto a sapere nell’arco delle successive trentasei ore.
Cazzo, voleva sposare la persona con cui sarebbe stato tutta la vita, qualcuno doveva pur dargli la garanzia che Gena fosse quella giusta, no?
 
 
“L’hai lasciata andare?”
“Ma sei coglione?”
“Che le hai fatto?”
“Non può ammalarsi, tra due settimane andiamo in scena con la prima! Che cos’hai nella testa Baker?”
“Scolati questo e sciacquati la bocca prima di parlare Zack, perché devi raccontare qualcosa di davvero credibile sai?”
Val, che gli stava porgendo il suo cocktail passion fruit e Jack Daniel’s – un’eresia per chi non conosceva il tocco magico di Val – era stata l’unica ad aver detto qualcosa di sensato tra tutti i presenti, escludendo Arin e Gena che se ne stavano in disparte intenti a sistemare le bibite in tavola.
Gena e le sue domande sarebbero arrivate dopo, con la calma di chi non apprezza le scenate in pubblico. Era cambiata anche lei da quando Jimmy se n’era andato, era riuscita a fare i conti con la sua passionalità lasciando il posto a una mitezza adulta, consapevole del fatto che nella vita occorre scendere a compromessi a volte.
Anche in amore e soprattutto, in amore, quando vuoi che le cose funzionino e non vuoi combattere ogni giorno una guerra diversa che lascia dietro di sé solo malumori: tra loro, comunque, quella era una cosa che aveva imparato solo Gena.
“Allora?”
“Levati dalle palle. Ti sta aspettando in albergo, ha detto che non aveva voglia di restare.”
“Chi? Marléne? Lei odia gli hotel, piuttosto di andarsi a rinchiudere nella sua stanza se ne resterebbe in giro tutta notte.”
Nick l’aveva guardato con l’aria del vincitore stampata in viso, ingollando il residuo di un vivacissimo azzurro del suo bicchiere, già sbronzo. Zacky gli aveva lanciato un’occhiata divertita, sorridendo, mascherando alla perfezione il fatto che tutti i suoi timori stavano per palesarsi in modo del tutto fastidioso proprio nel salotto di Matt e Val.
“Allora vorrà dire che avrai una ballerina ammalata, no?”
“Marléne ballerebbe anche con la febbre a quaranta, non è di certo un problema.”
Zacky l’aveva fissato come se gli stesse raccontando un mucchio di cazzate – e in verità, visto lo sguardo vacuo aveva ragione di credere che Nick non capisse nemmeno più quale delle sue mani fosse la destra e quale la sinistra -, cercando di ricordare dove avrebbe potuto farsi portare Marléne.
Perché tanto gli sarebbe toccato andarla a cercare, poco ma sicuro, Val gliel’avrebbe imposto.
“Sembra pazza per come la descrivi tu, lo sai?”
“Se sta sempre da sola ci sarà un motivo, no?”
“Credo che Nick abbia esagerato con i tuoi cocktail, Val. Si vede che i newyorkesi non possono competere con noi californiani.”
Il ballerino non aveva prestato attenzione alle parole di Zacky, intento a osservarlo oltre l’azzurro del liquido all’interno del suo bicchiere, che stava utilizzando come un caleidoscopio.
“E’ vero. Marléne sta sempre sola, parla poco e quando lo fa dice un mucchio di cazzate, ma non c’è nessuno che sa fare le cose come lei.”
“Io non ho ancora capito se te la scoperesti o no.”
La domanda di Zacky aveva ammutolito il ragazzo, costringendo anche Gena ed Arin a interrompere la propria attività casereccia e Val a prendere una ben precisa posizione tra il tavolo e il divano – le braccia conserte al petto – in modo da chiarire immediatamente che in casa sua, non doveva scorrere sangue o gli avrebbe cavato gli occhi con un cucchiaino da caffè.
“Alla tua bello.”
E aveva alzato il proprio bicchiere al soffitto in direzione del coglione che gli stava davanti, che continuava a fissarlo con lo sguardo vacuo di una vacca gravida.
“Nessuno si porterebbe a letto Marléne, tranne quel tizio che aveva quando stava in Francia immagino.”
“Zacky dovresti andarla a cercare, però.”
“Prego?”
“E’ da sola in giro per Huntigton, potrebbe capitarle qualcosa di spiacevole. In notti come questa le persone normali stanno a casa, non sotto la pioggia a prendere freddo.”
“Gena… non crederai davvero alle parole di questo tizio spero? E’ ubriaco fradicio. Io nemmeno a quattordici anni riuscivo a sballare con un solo bicchiere di roba!”
“Non siamo tutti uguali, Zack.”
“Val…”
“Alza il culo e vatti a rinfrescare le idee. E comprati un hamburger caldo già che sei fuori. Quando torni questi faranno schifo.”
“Non ne resteranno, semmai.”
Zacky si era alzato in piedi, lanciando un’occhiata al suo interlocutore, poi a Gena.
“Vieni anche tu?”
“Se vuoi ti accompagno.”
“Ti aspetto in auto allora.”
Val l’aveva accompagnato alla porta, squadrandolo da capo a piedi.
“Ehi Val, si può sapere cos’è che vuoi dirmi e non mi stai dicendo?”
“Ne parliamo poi. Prima che sia troppo tardi e tu faccia qualche cazzata, magari. Appena staccate dalle prove domani passi qui da noi?”
“Non cambierai mai, eh.”
“Lo considero un complimento, coglione.”
Gli aveva sorriso, appoggiata allo stipite della porta in una posa mascolina che a Zacky ricordava Matt. Anche lui e Gena si muovevano allo stesso modo?
Chissà se era quello il significato ultimo dell’amore: un qualcosa che faceva sembrare due persone un unico essere, talmente bello da essere abbagliante.
Perché Val e Matt erano proprio così e tutti loro si erano illusi, per anni, di potersi anche solo avvicinare a ciò che loro due rappresentavano: un’idea, un concetto perfetto da romanzo. Forse erano stati fortunati i coniugi Sanders a trovarsi tra milioni di individui, o forse stupidi loro a cercare di emulare un rapporto che nelle loro esistenze c’era sempre stato, una costante al pari della musica o della loro amicizia.
Una come Val non l’avrebbero trovata in nessun’altra parte del mondo, di quello ne era certo: perché Val, prima di essere donna, era complice, amica e compagna.
Si, forse aveva avuto una gran botta di culo Matt a trovarla: ma nessuno, all’epoca, avrebbe mai giurato sul fatto che la Di Benedetto potesse diventare semplicemente Val, per tutti loro.
 
 
Avevano vagato per Huntigton per almeno mezz’ora senza avere la più pallida idea di dove cercare quella cretina di una francese, Gena intenta a ripulire il vetro con un fazzolettino di carta dall’alone lasciato dal proprio fiato.
“Pensi possa accaderle qualcosa?”
Zacky le aveva scoccato un’occhiata in tralice rallentando la velocità dell’auto, osservando attentamente la ragazza continuare a guardare al di là del finestrino con aria assorta.
“Da quando ti preoccupi così tanto per gli estranei? Non è da te tutta questa filantropia.”
“No, infatti. Non è nemmeno solidarietà femminile, se te lo stai chiedendo, ma se Marléne si ammala dovrete vedervela con Lacey, i produttori e la New York City Ballett e sinceramente, non vorrei essere nei vostri panni in quel caso.”
“E’ una ragazzina Gena, se le viene la febbre le passerà come passerà a chiunque altro.”
“Ma tu non hai capito un cazzo della situazione, allora?”
“Ehi, calma con gli intercalari.”
Zackary Baker non era contrario alle parolacce proferite da una donna – tanto meno se era la sua -, ma era particolarmente sensibile alla stizza con cui Gena tentava di farlo passare per un coglione.
“Marléne è a New York perché ha vinto una borsa di studio. E’ venuta qui per fare un favore a Lacey che l’ha supplicata in ginocchio, giurando all’Accademia che sarebbe rientrata in tempo per le ultime due settimane di prove della Carmen e tu mi rispondi che l’influenza non ha mai ammazzato nessuno? Secondo me non hai capito con chi abbiamo a che fare.”
“Non è la Madonna.”
“Mi spieghi perché ti da tanto fastidio? Si vede lontano un miglio che non la sopporti, e quando hai queste sensazioni a pelle in genere fai degli enormi buchi nell’acqua. Non hai un cazzo di sesto senso, Zacky.”
“Quindi sei venuta con me perché non ti fidi?”
Lei non aveva risposto, continuando a fissare al di là del finestrino. Quando non desiderava litigare si limitava a smettere di guardarlo dritto negli occhi e si ammutoliva, come se perdesse ogni voglia di combattere, e lui amava le persone agguerrite, non quelle specie di amebe che si lasciavano pestare senza protestare.
“Gena, cazzo, non puoi davvero pensare chissà cosa di una tizia che ho visto si e no dieci minuti.”
“Non è lei che mi preoccupa. E’… non lo so, è tutto strano Zacky. A volte penso che resteremo in questa situazione per tutta la vita.”
Si era sentito la più meschina delle persone, il più bastardo degli uomini: era lui che non si fidava di Gena forse?
Tutti quei dubbi sul matrimonio, le incertezze e quel pensiero fisso che gli diceva che se avesse sbagliato con quel cazzo di anello, avrebbe dovuto realizzare di aver mandato a puttane gli ultimi otto anni della sua esistenza per un niente. E chi avrebbe avuto poi la forza di ripartire da zero?
Nessuno ha mai le capacità per uscire indenne da una vita fatta a pezzi.
“Gena prima o poi…”
“Il tuo è sempre un rimandare, Zacky. Quando temporeggi è perché non hai certezze, ma io non so davvero più cosa fare per farti capire che è tutto perfetto.”
A volte la perfezione fa paura, Gena.
Avrebbe voluto risponderle a quel modo, ma si era limitato a proseguire in direzione della spiaggia, conscio del fatto che per avere un minimo di controllo sulla situazione sarebbe stato costretto a scendere dall’auto e battere a piedi l’intera zona.
“Frena!”
“Cosa?”
“Frena! Non è lei quella?”
Il chitarrista aveva acuito la vista, i fanali a illuminare la pioggia battente sull’asfalto lucido e scivoloso, cercando di intravedere sulla strada un pulcino bagnato in cerca di un passaggio.
“E’ sulla ringhiera del parapetto! Si vuole ammazzare!”
Gena aveva aumentato il tono della propria voce di almeno due ottave, costringendolo a inchiodare bruscamente qualche metro più avanti rispetto al luogo indicato da lei.
“Fa’ qualcosa Zack!”
“E che cazzo Gena! Ma deve venirsi ad ammazzare proprio ad Huntigton?”
Lei se n’era fregata delle sue parole, aprendo il finestrino e iniziando a gridare in mezzo alla tempesta il nome di Marléne, portato via dal vento prima che potesse arrivare a destinazione. Gena era riuscita a risultare tanto preoccupata solo in poche altre occasioni, per quel motivo si era affrettato a spegnere il motore dell’auto e scendere, tentando di raggiungere la figura che camminava sul parapetto che separava una zona di scogliera – nella strada alta che portava verso Hollywood – con l’oceano sottostante.
“Ma che cazzo stai facendo?”
Dalla tizia, nessuna risposta.
Aveva provato a chiamarla mano a mano che si avvicinava, in modo tale che non si spaventasse e finisse di sotto per colpa sua – non gliel’avrebbero mai perdonato, di aver fatto fuori la francese - e alla fine, si era visto costretto a fermarsi a una decina di passi di distanza, stupito.
Marléne camminava come un’equilibrista su di una fune inesistente, un piede avanti all’altro sul parapetto in metallo reso scivoloso dalla pioggia, le braccia aperte spiegate come ali.
Era un pulcino incapace di volare, gridare, piangere.
Era tutto ciò che un uomo avrebbe desiderato proteggere, forse, ma c’era altro sotto quella patina di indifferenza e  rassegnazione, qualcosa che solo una pazza avrebbe potuto trasmettere cercando di andarsi ad ammazzare a quel modo.
“Ehi!”
Quando le aveva afferrato il polso destro, Marléne aveva sgranato gli occhi fissandolo spaventata, come se si fosse trovata davanti un mostro.
“Che diavolo vuoi?”
“Sei scema a stare lì sopra? Potevi ammazzarti.”
“Lasciami andare.”
Marléne aveva strattonato bruscamente il proprio braccio nel tentativo di sfilarlo dalla presa di Zacky sbilanciandosi pericolosamente all’indietro, e solo l’intervento del ragazzo che le aveva afferrato con poca grazia la vita, era riuscito a impedirle di fare un volo all’indietro, giù, lungo la scogliera per poi schiantarsi in acqua già morta.
“Sei un totale idiota!”
“Ti ho salvato la vita!”
“Ma se hai rischiato di ammazzarmi tu e il tuo volermi tirare giù di lì ad ogni costo. E lasciami!”
Si era allontanata da lui fissandolo torva, zuppa di pioggia che le scivolava giù dal cappuccio della felpa e lungo i capelli sciolti, uscendole persino dalle scarpe da ginnastica.
“Se ti ammali diranno che è colpa mia, alza il culo e torniamo dagli altri.”
“Come hai fatto a trovarmi?”
“Arin ci ha detto che volevi vedere l’oceano. Abbiamo pensato potessi essere qui.”
Marléne aveva sospirato, tornando a fissare la distesa scura schiantarsi con violenza sulle rocce: tanto disturbo per cosa?
“Potevi restare dagli altri, mi sarei fatta venire a prendere da un taxi. Avevo il numero per contattarli.”
“Che cretina che sei. Potevi scivolare e ammazzarti.”
“Sono una ballerina, le gambe non mi tradiscono. Conosco i miei limiti.”
Zacky era scoppiato a ridere, spiazzato da quell’improvvisa sicurezza che poteva tentare di gareggiare con il proprio, smisurato, ego.
“Ma tu davvero credevi che mi volessi ammazzare?”
“Lo credeva Gena, io nemmeno ti avevo vista.”
“Ma è in auto?”
“Si.”
“Perché stiamo a parlare sotto la pioggia allora?”
“Perché tu non alzi il culo e fai mille storie.”
“No, è perché tu non hai alcuna voglia di tornare indietro. Io sotto la pioggia ci sono da quando ci siamo salutati, non mi dava di certo fastidio.”
“Parli troppo.”
Zacky l’aveva vista fare una smorfia che doveva essere un mezzo sorriso, poi aveva girato sulle punte e si era diretta verso l’auto senza aspettarlo: era piccola, in mezzo al nero che li circondava sembrava dovesse esserne inghiottita da un momento all’altro. Tremava? Camminava troppo velocemente per comprendere se fosse realmente così o la semplice visione da dramma hollywoodiano che stava innescando il suo cervello.
In meno di due ore aveva già avuto problemi con gli sceneggiatori di Hollywood e la comparsa francese. Doveva aspettarsi anche la crisi di mezz’età?
 
 
“Zacky che è successo?”
“Prove sospese, la francesina si è ammalata e l’hanno costretta a letto almeno per oggi.”
Val era scoppiata a ridere, spalancando la porta di casa per far entrare il più mortificato dei chitarristi.
“In un modo o nell’altro avevamo un appuntamento oggi, no? Ti senti in colpa?”
“No, cioè. Non le ho detto io di andarsene mentre eravamo da Burger King, quindi non sono direttamente responsabile. Ma sinceramente non so cosa sia successo dopo che l’abbiamo trovata.”
“E’ venuta qui.”
Il ragazzo aveva sollevato lo sguardo sull’amica, sporgendosi in avanti rispetto alla posizione svaccata di pochi istanti prima.
“Cosa?”
“Ci ha detto che tu e Gena avevate una cosa da sbrigare e si è fatta portare qui in taxi per scusarsi di averci fatti preoccupare. Caffè?”
“Senza zucchero, grazie.”
La tazza fumante di liquido nero – e l’aroma forte che avrebbe dovuto svegliarlo dal torpore che si sentiva addosso dalla sera precedente – gli aveva concesso solo una leggera sensazione di benessere, cancellata dallo sguardo serio di Valary che si era appena seduta di fronte a lui.
“Che ti prende?”
“Gena ha trovato l’anello. Quello che le avevo comprato da Tiffany due mesi fa.”
“Quando?”
“Ieri sera, mentre cercavo di recuperare quella svitata da un parapetto prima che si sfracellasse sugli scogli. Avrà aperto il cassetto del cruscotto e l’avrà trovato. Quando siamo rientrati in auto Gena era totalmente fuori di sé dalla felicità, e così Marléne ha chiamato il taxi e si è fatta venire a prendere.”
“Tu non volevi darglielo?”
“No, si… cioè, non lo so. Cazzo, adesso devo sposarla davvero, Val.”
“Lo dici come se fosse una condanna, Zack. E non è carino. Senza tenere in considerazione la faccia da funerale che hai addosso. Sembra che ti stiano portando al macello.”
Zacky si tormentava la mani, lisciandosi nervosamente una ciocca di capelli tra un gesto e l’altro, spostando lo sguardo sulla collezione di maialini di Valary sino a quando non si era sentito in dovere di vuotare il sacco.
“Cosa devo fare ora?”
Val aveva portato le gambe sul divano, incrociandole come una piccola indiana, la tazza di caffè tra le mani: a Zacky piaceva parlare con lei, aveva sempre la risposta a ogni problema e la freddezza per affrontare ogni situazione che forse solo gli adulti posseggono.
O le donne come lei.
“Io non ti dirò mai se sei pronto per sposare Gena: questo lo dovresti sapere tu.”
“Sono un coglione.”
“Questo non significa che tu sia stupido. Perché non ti prendi un po’ di tempo per chiarirti le idee? Puoi stare qui da noi se ti va. Matt non avrà di certo problemi, e credo che Gena capirà. Ma devi essere sincero, Zacky, con te stesso prima e con lei poi. Lo devi a entrambi.”
“Mi stai dicendo di lasciare casa mia?”
“Con Gena dovrai lavorare anche al progetto del nuovo video, sarà lei a curare il trucco di Marléne e Nick. Dubito che una decisione del genere ora possa aiutarci a finire le riprese nei tempi previsti. Resisterai?”
“Gena parla già delle partecipazioni…”
Valary era scoppiata a ridere di gusto, facendolo sentire un totale idiota.
“Cosa ti aspettavi? Ha trovato l’anello del fidanzamento, sono anni che spera di potersi sposare e tu pensi che possa mettere il freno a mano? Sei sicuro di conoscere la tua Gena? Da lei mi sarei aspettata che oggi stesso andasse a scegliere l’abito da sposa.”
“Ci andrà appena finiranno le riprese”, era stata la laconica risposta del ragazzo.
“Okay. Parlale. Il prima possibile”, era stata la risposta seria della ragazza.
“Devo proprio?”
“Si.”
“Soffrirà e non capirà, litigheremo, piangerà e mi metterà il muso. E sai benissimo che non so resistere quando la vedo in lacrime.”
“Nessuna donna capirebbe, Zacky. Le compri l’anello di fidanzamento e poi le dici di non farsi castelli sul vostro matrimonio. E’ un controsenso, lo sai vero?”
“Io sono un controsenso, Val.”
“Ricordati chi eri.”
“Eh?”
“Ricordati com’è fatto il vero Zacky. Ti sei perso per strada, un po’ come tutti, ma forse Gena non ha la maturità per farti tornare indietro. Non è come Lacey, per esempio.”
“E come te?”
“Io e Matt siamo un’eccezione, non rientriamo nella casistica su cui si basa il calcolo delle probabilità. Lasciaci perdere, è meglio. Ora che farai?”
“Guiderò finché non mi verrà qualche idea e il coraggio per affrontare Gena.”
“Più rimandi, peggiore sarà la sua reazione. Non illuderla ulteriormente.”
Lo sguardo di Val non ammetteva errori e, soprattutto, non ammetteva prese per il culo: se c’era una cosa che quel mostro della DiBenedetto poteva fare, era spifferare tutto a Gena. Non era come il prolungamento del rapporto che univa i ragazzi, era un qualcosa che andava inglobando chiunque entrasse a far parte del loro mondo. Valary, Michelle, Gena, Lacey, il padre di Syn: tutti erano stati ingoiati da una realtà che ruotava tutta attorno a loro cinque.
Quattro, Zacky, quattro.
Forse possedevano qualche superpotere che permetteva a chiunque entrasse in collisione con il loro pianeta di iniziare a circolare all’interno della loro orbita senza possibilità di uscirne indenni. L’amicizia tra Val e Gena era nata proprio per quel motivo: per essere entrate a far parte della stessa famiglia, muovendosi sul medesimo asse orbitale.
“Non dirle nulla.”
“Non sono così stronza, Zacky.”
“A volte mi domando se i pantaloni li hai addosso tu o Matt, lo sai?”
“Facciamo a turno”, era stata la risposta raggiante di Valary mentre lo accompagnava alla porta d’ingresso.
“Senti, lo so che è un casino ed è tutto difficile, ma prenditi seriamente il tempo che ti occorre per chiarirti le idee e fare la scelta giusta. La scelta giusta non è quella che ti fa sentire con la coscienza a posto, ma bene con te stesso.”
“Da cosa lo capisci che una scelta è giusta?”
“In genere è quella che ammazza più persone.”
“Fantastico.”
“In bocca al lupo, Zacky.”
“Crepi.”
Se doveva essere sincera, Valary per quanto potesse volere bene a Gena teneva decisamente più a quel coglione di Zacky – d’altra parte, era sua amica prima di acquisirne anche la fidanzata – ed era chiaro come la luce del sole che era più incasinato che mai, in cerca di una spalla che non avrebbe mai trovato in Brian o Matto o Johnny.
Brian gli avrebbe consigliato di mollare Gena; Matt di restare con lei e portarla all’altare; Johnny di seguire il suo istinto.
Val aveva sospirato richiudendo dietro di sé la porta di casa, poggiandovi contro la schiena: decisamente, fare parte di una famiglia allargata a volte era davvero difficile.
 
 
Quando Zacky era arrivato alla sala prove, era stato tra i primi. Qualcuno avrebbe potuto credere fosse per farsi perdonare del ritardo del primo giorno, ma la verità era ben più semplice: stava evitando Gena.
“Ehi Zacky, da quando così mattiniero?”
“Non dobbiamo lavorare? Che poi Miss Francia non era ammalata?”
“Pare si sia imbottita di medicinali. Ha detto che preferisce girare oggi piuttosto che attendere un ipotetico miglioramento e rischiare di non farcela.”
Johnny se ne stava seduto intento a sorseggiare un latte caldo appena recuperato dallo Starbuck’s lungo la strada, incurante dell’aria rincoglionita dell’amico.
“Scusa ma il suo amichetto non diceva che anche da malata lei balla?”
“Infatti. Cosa pensi faccia, quest’oggi?”
Zacky si era stretto nelle spalle, sfilando dal sacchetto di carta una ciambella ricoperta da un’orrenda glassa rosa che aveva addentato – dopo averla studiata attentamente – solo per fare un dispetto al bassista.
“Dio che schifo Johnny! Ma da quando mangi roba da femmine?”
“Da quando ho avuto l’accortezza di comprare la colazione a Marléne, visto che Lacey pare decisa ad adottarla come se fosse un cucciolo abbandonato. Nemmeno avesse quindici anni, ne ha solo due in meno di me e Lacey ne parla come se avesse risvegliato in lei un improbabile istinto materno.”
Il chitarrista aveva fatto un rapido calcolo mentale, poi l’aveva rifatto cercando di cogliere l’assurdità di quei numeri associato al viso pulito della ragazza, e infine aveva fissato Johnny sgranando gli occhi con aria da bambino.
“Scusa? Mi stai dicendo che quella ha più di vent’anni?”
“Ti pare che Matt voglia qui una minorenne? Non vuole che finiamo dentro. Non per una cazzata tipo ingaggiare minorenni per girare un video.”
“Ti ricordo che è successo anche quando abbiamo girato Bat Country, Johnny. Una di quelle strafighe aveva sedici anni.”
“Quella che avevi puntato tu, se non erro.”
“Quella. Sono uno sfigato con le donne.”
“Hai solo l’istinto per trovare quelle sbagliate. Quando ne trovi una che ritieni quella giusta, scartala la prossima volta, e andrai a colpo sicuro nell’evitare casini, credimi.”
Il chitarrista aveva lanciato un’occhiata all’amico, continuando a ingoiare pezzi di ciambella in perfetto stile Homer Simpson, glassa rosa dal nauseante sapore di fragola compresa.
Perché tutte quelle parole messe a caso da Val prima e da Johnny poi, iniziavano a risuonargli in testa come pericolosi campanellini d’allarme?
“Ta-daaaaaaaaan!”
La voce squillante di Gena era stato il colpo di grazia, quello che gli aveva fatto andare di traverso un boccone prima di perdere definitivamente la vista sull’entrata in scena di Marléne, lanciata praticamente al centro della stanza dalla sua fidanzata.
“Cazzo!”
L’esclamazione di Brian aveva accompagnato il suo trionfale rientro, fedora ben calata sulla testa e giacca nera a dargli un’improbabile aria seria.
 “Come cazzo ti sei vestito?”, l’aveva apostrofato il secondo chitarrista costringendosi a staccare gli occhi di dosso alle due ragazze che confabulavano tra loro, mentre Gena continuava a tormentare alcune ciocche di capelli di Marléne che non ne volevano sapere di restare ancorati alla camelia nera che Valary si era appositamente fatta arrivare dal Giappone.
“Gena ha fatto un lavoro pazzesco.”
“Anche la modella non scherza. Sicuro che Lacey la vorrà adottare ancora dopo aver visto il video?”
“L’ha già vista ballare, dubito le vengano scazzi da gelosia Syn.”
Il chitarrista aveva sfilato dalle mani del bassista il bicchiere di cartone, scolandosi un sorso di latte caldo che gli aveva ustionato la lingua.
“Cazzo! Certo che Starbuck’s potrebbe smetterla di scaldare il latte a duecento gradi. Fanculo, che male… Matt dov’è?”
“Si sta preparando. Manca solo Zacky e poi siamo a posto.”
“Alza il culo allora, prima iniziamo prima finiamo e ce ne andiamo a casa. Anche oggi ci ritroveremo con un culo d’acqua per strada se non ci sbrighiamo.”
“Brian perché non stai zitto cinque minuti?”
“In contemplazione della tua bella? Figo l’anello, potevi dircelo che era per lei che sei scappato per una giornata intera quando eravamo a New York. Avremmo compreso. Stasera si festeggia allora?”
“Non c’è un cazzo di cui festeggiare.”
Johnny e Brian l’avevano guardato alzarsi e allontanarsi da loro, scambiandosi un’occhiata eloquente: se c’era una cosa che stava altamente sulle palle a Zacky Vengeance, era l’essere messo con le spalle al muro dalle persone che amava. Non tanto perché gli sembrava una mancanza di rispetto ma piuttosto un colpo basso. Dalla propria parte, Syn aveva di certo l’attenuante di non conoscere i fatti – e soprattutto i retroscena -, ma la sua aria scazzata avrebbe dovuto far riflettere gli amici di sempre prima di aprire bocca.
“Cos’è, mestruato oggi?”
“Cazzo ne so? E’ da dieci minuti che è qui e già ha fatto una delle sue solite scenate del cazzo. Avrà le palle girate perché Gena non gliel’ha data stanotte.”
“Dai, è impossibile! Le ha regalato quel cazzo di anello, dovrebbero aver fatto follie per dodici ore filate.”
“Zacky aveva più la faccia di quello che ha dormito su un letto di chiodi, Syn.”
Brian aveva alzato lo sguardo sulle due ragazze, il baluginio del diamante al dito indice di Gena che sfavillava sotto le luci soffuse dei riflettori e il sorriso di Marléne che gli appariva strano, persino forzato se paragonato a quello euforico che manifestava la bionda.
Se c’era una cosa che aveva capito di Marléne, era che quella tizia non sorrideva né apriva bocca per nulla che non valesse davvero la pena di prendere in considerazione, e quella mattina era stata assalita dall’Uragano Gena in piena attività sin dal loro arrivo. Le faceva pena, quella povera vittima sacrificale gettata in pasto a Miss Pahulus, ma il suo lato perverso sperava che l’esasperazione potesse portare la francese a tirare fuori le palle che aveva dimostrato di possedere e mandarla finalmente al diavolo.
Non che Gena si meritasse chissà che, ma semplicemente aveva rotto le palle, e quando Brian l’aveva vista seguire Zacky verso i camerini aveva capito che ogni aspettativa di rissa era sfumata.
“Avevi una ciambella con glassa alle fragole ma Zacky se l’è fottuta”, era stata la calda accoglienza di Johnny a Marléne che li aveva raggiunti.
Aveva lanciato un’occhiata verso il corridoio prima di emettere un lungo sospiro e lasciarsi scivolare a terra, le gambe incrociate e il tutù asimmetrico nero a farle da ruota tutt’attorno.
“Il trucco è una bomba.”
“Grazie, è merito di Gena. Ci abbiamo riflettuto su l’altra sera e alla fine abbiamo optato anche per questa”, e si era indicata la gonna – cortissima sul davanti con una lunga coda sul retro – “e devo dire che il risultato di scena è sorprendente.”
“Ci vuole anche chi sappia reggerlo, il palco”, l’aveva apostrofata Brian divertito.
“Credo non abbia problemi. Ci vive sopra da quando ha imparato a camminare.”
Marléne aveva fissato il bassista con gratitudine, felice di non dover replicare al solito coglione di turno elencando una sfilza di titoli e passi di danza che avrebbero avuto solo un effetto soporifero sul suo interlocutore.
“Non volevo essere stronzo.”
“E’ che gli viene naturale,” aveva concluso Johnny facendo ridere la francese.
“Sei di buon’umore oggi? E’ la seconda volta che ti vedo sorridere da quando sono arrivato. La malattia fa miracoli.”
“No, ma siete buffi.”
“Cazzo Johnny! Di solito le donne ci dicono che siamo fighi, non buffi!”
“Si vede che state invecchiando.”
“Ehi, fanculo Christ.”
A Marléne non dispiacevano, alla fine di tutto, quei cinque. Non era proprio una passeggiata doverli sopportare, reggere le battute onnipresenti e le risate sguaiate, le parolacce, i fiumi di birra e il fumo, per non parlare di quel bozzolo in cui vivevano in simbiosi tutti insieme e che a lei sembrava claustrofobico e anche al limite del morboso.
Un po’ forse li invidiava per quello, per essere riusciti a creare un legame che non si sarebbe mai spezzato, ma al contempo era certa che non sarebbe mai riuscita a sopportare una vita tenendosi strette le stesse persone per anni e anni, senza venirsi mai a noia reciproca.
In quel rapporto, però, c’erano equilibri precari e leggi non scritte che tutti loro seguivano alla lettera, un codice interno da cui qualunque satellite era escluso: il nocciolo della loro esistenza insieme si poggiava su regole ferree quanto le leggi del mondo stesso.
Erano belli, tutti insieme, intenti a ridere e bere raccontandole aneddoti e cazzate: erano riusciti a non farla sentire quell’animale da circo che in genere le persone riuscivano a far sembrare ma l’avevano trattata come se fosse stata un’amica d’infanzia, una a cui puoi raccontare di tutto senza avere paura di sembrare un’idiota. Anche Lacey, quando l’aveva avvicinata dopo il balletto a New York, le aveva fatto la stessa impressione: era come bere latte caldo e miele prima di addormentarsi, la piacevole sensazione di un tepore che ti scalda il cuore e ti fa sentire compreso e accettato per quello che sei nonostante le tue mille diversità.
Brillavano come stelle, quei cinque, e a lei piaceva il cielo stellato: quando era bambina, sperava sempre di poter toccare qualche costellazione ed ora, che aveva smesso di pensare di poter volare sino a sfiorare la luna, era finita in mezzo a una cosa strana, a una costellazione bizzarra e un po’ macabra dalla luce calda quanto quella del sole.
Di quelle però, che non potrai mai replicare su una cartina astrologica.
 
 
Era difficile staccarle gli occhi di dosso, era difficile farlo perché la danza al ritmo delle percussioni di Arin e dei bassi di Johnny lo ipnotizzava. Matt cantava con una carica rinnovata, mentre lui e Syn lo inseguivano su giri di riff e cori dalle voci sensuali. I corpi di Marléne e Nick si sfioravano e cercavano senza timori, con la sicurezza che in genere ti concede solo il corpo della persona che ami, notte dopo notte, di cui conosci ogni neo nascosto e ogni centimetro di pelle. A Zacky sembrava di stare a guardare qualcosa di privato e intimo, sentendosi quasi a disagio. Non era un ballo sensuale, era… accogliente. Era tutto ovattato e caldo, come quando stai per raggiungere l’orgasmo e non senti più i suoni, non distingui nemmeno più i colori e tutto è racchiuso all’interno dell’amplesso e del piacere che si sprigiona sino agli antipodi del tuo corpo.
E del suo.
Non riusciva a comprendere il motivo di quella sensazione. Forse era legata al veder danzare due corpi squarciati – entrambi troppo magri, Marléne e Nick, erano ricoperti dai disegni dettagliata di tessuti e muscoli l’uno, di ossa bianche come perle l’altra – che si stringevano in una danza macabra e devastante, o forse erano le parole della prima vera canzone d’amore che quattro teste di cazzo erano riuscite a mettere insieme. Quattro teste, quattro donne, quattro cuori, quattro storie: tutte lì dentro, ingarbugliate e intrecciate da un filo conduttore che erano quei due corpi acerbi, che erano nervi scoperti e tesi pronti a vibrare ad ogni assolo di Syn come se avessero dovuto frantumarsi in mille schegge da un momento all’altro.
C’era stato un istante – l’ultimo, forse – in cui Zacky aveva sentito un nodo serrargli la gola. Il pezzo della canzone era quello scritto da lui, in cui aveva ricordato Gena come quel raggio di sole che avrebbe potuto cambiargli davvero l’esistenza, se solo entrambi l’avessero desiderato davvero.
Le strade potevano dividersi solo per una divergenza di intenti?
Zacky aveva deglutito tornando a fissare Marléne, e a quel punto non c’erano più lui o Gena, non c’erano nemmeno gli altri sul palco: vedeva solo lei, le braccia esili strette attorno al collo di Nick che senza sforzo le cingeva la vita tenendola sollevata verso il cielo - come se dovesse spiccare il volo. Per una strana associazione mentale, al chitarrista era tornata in mente la sera in cui goffamente l’aveva presa allo stesso modo per impedirle di cadere giù dalla scogliera e aveva avvertito sotto i polpastrelli il corpo di lei. Secco, minuto, docile-, entrambi sorridenti, entrambi dannatamente vivi e felici in quella finzione d’amore di cui avevano sovvertito le leggi per raccontarlo dall’altra parte del mondo, da quella cioè, in cui eri già morto e fottuto e nulla poteva riportarti in vita per farti riparare agli errori commessi.
Il loro era un amore già morto e in quel momento erano due cadaveri stretti l’uno all’altra a rendere immensamente vero e reale e presente, il ricordo della vita.
 
 
A Zacky l’ultima cena insieme sembrava la cosa più triste del mondo, così aveva pensato di saltarla e affrontare Gena, farla incazzare e uscire per sbollire a propria volta lo scazzo. L’indomani, Marléne e Nick avrebbero preso l’aereo diretti a New York e si sarebbero rivisti mille volte su MTV recitando la parte degli innamorati odiandosi mortalmente nella vita di tutti i giorni. La cosa aveva fatto ridere il chitarrista di gusto, perché nell’ossessione di Nick verso la compagna c’era tutto fuorché attrazione fisica: gli fa schifo l’idea di toccare un’altra donna, credo sia misogino, era stata la risposta di Marléne alla fatidica domanda di Lacey che le aveva chiesto se loro due stessero insieme. Marléne era stata la salvezza di una delle promesse della New York City Ballet perché nel loro astio c’era la capacità di annullarsi reciprocamente per mettere al primo posto la danza. Nick non vedeva in Marléne altro che il mezzo per raggiungere la perfezione, e anche per lei doveva essere una cosa analoga, anche se non era scesa nei dettagli durante il suo racconto.
“Dovresti vestirti più spesso con quelle gonne, hai delle belle gambe.”
“Le metto solo in scena, sono scomode da indossare tutti i giorni.”
“Privi il mondo di una visione da urlo, lo sai?”
Marléne, in risposta, gli aveva lanciato una crocchetta di patate che lui aveva prontamente schivato, il posto accanto a lui lasciato vuoto.
Gena non era passata a salutarli, fingendo un mal di testa che Valary aveva associato allo scazzo di Zacky come la scusa ufficiale a una sfuriata con i fiocchi, di quelle che a casa Baker presagivano tempeste e mai un lieto fine.
Li avevano portati a mangiare in un pub sulla spiaggia solo perché Marléne aveva espresso il desiderio di poter vedere l’oceano per l’ultima volta prima di tornare in quella città grigia e a misura di gigante che era New York e, conclusa la cena, si era assentata per una passeggiata solitaria sulla battigia.
“Cosa guardi?”
“L’oceano?”
Non si era voltata a guardare il proprio interlocutore, perché era impossibile non riconoscere la sua voce.
“Problemi con Gena?”
“Normale routine, le cose si aggiustano sempre.”
“Guarda che a forza di rammendare, le toppe si lacerano ai lati.”
Marléne si era seduta sulla sabbia umida, all’interno di una macchia di canne che oscillavano al vento, e Zacky l’aveva imitata senza parlare.
“Sei cambiata da quando sei arrivata qui. Sei più… umana.”
“Io ho sacrificato tutto per la danza. Quando decidi di fare una cosa come questa, che ti assorbe tutto il tempo libero, non puoi avere una vita normale. Niente amici, niente svaghi, niente fidanzato. Sei sola, insomma. Per questo scarti ogni rapporto umano e lo eviti, per la maggior parte sono superflui e rischiano di farti soffrire inutilmente. Sono un ostacolo al tuo obiettivo. Quando ho deciso di accettare la borsa di studio ho lasciato anche il mio fidanzato, a Parigi, oltre a mia madre e le mie sorelle. Sono scelte che facciamo e di cui paghiamo lo scotto, probabilmente, ma a volte arriviamo a un bivio e dobbiamo scegliere ciò che ci fa stare bene. Dobbiamo essere egoisti, o non saremo mai felici.”
Occorre essere egoisti per essere felici. Anche Val gliel’aveva detto, qualche giorno prima. Era forse troppo altruista?
“Perché hai deciso di fare la ballerina?”
“E’ l’unica cosa che so fare bene.”
“Sai anche parlare bene, se per questo.”
Marléne aveva sollevato lo sguardo su di lui, sorridendo.
“A fatti sono molto meno brava, credimi.”
“Hai sofferto?”
Si era accigliata, portando lo sguardo sulla canna con cui stava armeggiando ripiegandone il gambo su sé stesso a più riprese, per tenere le mani impegnate e non lasciarle libere di distendersi.
“Mi mancano tutti quanti, ma l’ho scelto io. Non puoi sacrificare il tuo sogno, o la tua vita, per l’amore.”
“Le donne ragionano in modo opposto di solito.”
“Come dice Nick, non sono umana né tanto meno una donna. Forse è per questo.”
A Zacky sembrava una donna, a dire il vero: escluse le forme inesistenti – ma quale ballerina le possedeva? – aveva un bel sorriso e occhi scuri contornati da ciglia folte e nerissime, le mani affusolate e una folta chioma di capelli color miele.
“Rientriamo? Inizia a fare freddo.”
“Non ti mancherà Huntigton Beach?”
“Si aggiungerà alla lista delle cose che mi mancheranno e dei posti in cui dovrò ritornare.”
“A me mancherai.”
Marléne aveva sgranato gli occhi, arrossendo, senza riuscire a controbattere. Non c’era molto da dire, no? Le sarebbero mancati?
Si, moltissimo.
Da loro, però, aveva appreso una grande verità: il suo volersi allontanare dagli altri esseri umani, la sua corazza sicura di mutismo e insofferenza non l’avrebbero mai fatta stare bene con sé stessa. Avrebbe ottenuto molto di più dalla danza avendo amici, anziché nemici. E se anche i legami potevano renderla più debole, avrebbe fatto in modo di crearne solo di salutari, di quelli che potevano farla crescere e sentire ugualmente libera di inseguire il suo sogno.
Sempre tesa a raggiungere la propria stella.
 
 
“Sono una grandissima testa di cazzo!”
“Zacky?”
Gena aveva fatto capolino dalla camera da letto, assonnata e coperta solo da una maglietta del ragazzo, decisamente troppo grande per lei.
“Che ore sono?”
“Mezzogiorno inoltrato.”
“Merda! Abbiamo fatto due cazzate, Gena. La prima è essere andati a letto insieme ieri notte, la seconda è non esserci svegliati in tempo.”
Lei l’aveva fissato incredula, senza riuscire a capire ciò che Zacky cercava di dirle: sembrava un pazzo.
“Esco, ci vediamo dopo.”
“Ma dove vai?”
“Da Matt.”
Anzi, da Val.
L’aereo di Marléne stava decollando in quel momento da Los Angeles e lui non le aveva detto nulla di tutto quello che gli era venuto in mente durante la notte insonne.
Capire le cose in ritardo era l’equivalente ad aver perso la corsa vincente, e questo Zacky lo sapeva benissimo: lui odiava quelli che si lasciavano fregare senza cogliere al volo le occasioni.
Quando Val aveva sentito l’auto sterzare bruscamente nel vialetto di casa, era andata ad aprire lasciando entrare l’amico senza particolari espressioni in viso.
“Sono un coglione, lo so.”
“Veramente non capisco il motivo, ora.”
“Non sono venuto a salutarla.”
“Credo abbia capito. Ieri sei andato a casa presto perché avevi bisogno di stare con Gena, o perché hai ceduto ai suoi piagnistei?”
“Non lo so. Merda, Val, mi sto fottendo il cervello lo sai?”
“Sei solo incasinato. Comunque la tua Marléne mi ha detto di lasciarti questa.”
Zacky aveva aperto la busta bianca trovandovi all’interno due biglietti per la prima di Carmen, portando lo sguardo dai due fogli in carta lucida al viso della ragazza.
“Cosa ci faccio con questi?”
“Porta Gena a New York e goditi lo spettacolo. Già che ci sei potresti passare da Tiffany.”
“Il tuo sarcasmo non mi aiuta, Val.”
“Non farti fregare per il solo fatto che hai capito che Marléne non era ciò che credevi. Stai cercando un pretesto per fuggire da Gena.”
Zacky si era lasciato scivolare all’indietro sul divano, osservando i biglietti senza avere il coraggio di aprire la lettera che Marléne vi aveva allegato.
“Alza il culo e vai a casa. Qui quella lettera non la leggi, chiaro?”
“Sicura di non esserti fatta i cazzi miei?”
“Sicurissima. Ma dopo averla letta impazzirai, non saprai cosa fare, vorrai andare a New York ma non troverai il coraggio per farlo, riguarderai il backstage e il video duecento volte di fila ogni giorno e continuerai a crogiolarti nel tuo marasma di dubbi, se e ma. Alla fine di tutto, deciderai di sposare Gena.”
Zacky aveva alzato lo sguardo su Valary con l’aria di chi ha appena sentito la più grande bestemmia di tutta una vita.
“Sono così idiota secondo te?”
“No, ti conosco. Sei in balia degli eventi. Va’ a New York con Gena, magari ti schiarisci le idee.”
 
 
Caro Zack,
mi spiace non poterti salutare di persona. Avrei voluto ringraziarti come ho fatto con gli altri. Non so se la danza classica ti piaccia o meno, non abbiamo mai affrontato l’argomento – a dire il vero, di argomenti ne abbiamo affrontati davvero pochi e tutti in un’unica serata – ma se volessi venire con Gena a vedere la Carmen mi farebbe piacere.
Ovviamente non sentirti obbligato!
Volevo dirti un’unica cosa.
Quando sono andata al cimitero non l’ho fatto per curiosità o cattiveria o pietà, l’ho fatto perché la musica di Jimmy era bella davvero, ti scaldava il cuore.
Mi andava di salutarlo, era il mio tributo per un grande artista. Mi sarebbe piaciuto poterlo conoscere.
Anche voi riuscite a fare questo effetto, forse è una magia tutta vostra.
Magari è dovuta al sole della California.
Siete una bellissima famiglia, è stato un onore poterne far parte anche se per breve tempo.
Siete fortunati ad esservi trovati.
Grazie di tutto.
 
Marléne.
 
Zacky, seduto sulla spiaggia, aveva letto la lettera almeno tre volte, prima di dichiararsi sconfitto e sentirsi uguale a tutti gli altri uomini del pianeta. Aveva fissato a lungo i biglietti, poi aveva sorriso ripensando alle parole di Val: sarebbe andato a New York e avrebbe risolto le cose alla Vengeance.
In due settimane persino il mondo poteva finire: anche la sua vita poteva cambiare, se avesse davvero voluto farlo.
 
 
Aveva sollevato lo sguardo sul mazzo di rose che stringeva tra le mani: erano bianche, eccetto una, nera come il piumaggio di un corvo affamato.
“Niente ammiratori segreti, Len?”
“Ovvero Nick?”
“In genere gli uomini regalano rose rosse e non di un bianco slavato, alla donna che vogliono conquistare.”
“Forse non volevano conquistarmi, no? E se ora vuoi scusarmi…”
Marléne aveva chiuso la porta del camerino dritta in faccia a Nick, senza badare troppo alla sua espressione infastidita e al vociare che giungeva dal fondo della stanza, dove lo specchio a parete rifletteva volti di ragazze imbellettati di trucco. Aveva lanciato un’ultima occhiata alle rose posandole accanto ai propri oggetti di scena – un ventaglio, una rosa rossa e uno scialle nero – indecisa se aprire o meno il biglietto che le accompagnava.
Non aveva bisogno di scorgere la V. posta sul lato destro della busta, le era bastato vedere la cromia del mazzo per comprendere chi fosse il mittente.
La francese aveva sospirato, sedendosi al proprio posto e osservandosi allo specchio: l’immagine che vedeva riflessa era differente da quella di poche settimane prima e da quella che aveva lasciato Huntigton Beach. Nicky sosteneva fosse diventata una donna, anche se non riusciva a capire dove fosse la differenza tra il prima e il dopo. Non aveva perso la verginità, non si era gettata nel vuoto tentando il suicidio riscoprendo il valore della vita ma aveva solo capito che chiudere in faccia la porta agli altri per evitare di essere feriti non serviva a nulla.
Il risultato era quello che vedeva nello specchio?
“Wow Len, che belle rose! Ehi ragazze, c’è un ammiratore segreto qui, e la nostra Carmen non ci ha detto nulla!”, aveva celiato Courtney sollevando il mazzo e portandolo al viso con aria sognante.
“Allora, chi è? Non lo conosciamo, vero?”
“Veramente è un amico.”
Courtney l’aveva fissata sgranando gli occhi, gettandosi a peso morto sulla sedia accanto alla sua e portando il viso a pochi centimetri da quello di Marléne, seria.
“Len, tu non hai amici. Con il dovuto rispetto, ti sei scantata solo dopo essere tornata dalla California. Nick dice che sei diventata donna, io dico che o il sole fa miracoli oppure è accaduto qualcosa che ti ha cambiata. Non so, ti sei innamorata magari.”
“Ho rivalutato la mia politica sociale.”
“Mmh… allora significa che hai conosciuto qualcuno di davvero speciale. In sei mesi abbiamo a malapena saputo il motivo per cui eri a New York. Il video comunque è una bomba, lo sai vero? Non mi stancherò mai di ripetertelo. Tu hai l’animo da dark e ti vesti da francesina.”
Marléne era scoppiata a ridere, tornando a concentrarsi sui capelli che non volevano saperne di restare stretti nella crocchia che aveva appuntato sulla nuca.
“Ti scivoleranno giù prima del tempo, ne hai troppi. Sei emozionata?”
“E’ la prima, lo siamo tutti.”
“Sai cosa mi piace di te, Francine? Sei la persona più umile e stronza che abbia mai conosciuto. E quando dico stronza prendilo come un complimento: te ne freghi di tutto e tutti. E’ quello che ti ha fatto arrivare a New York, non il tuo cacciare a calci le persone dalla tua vita.”
Courtney non era l’ultima arrivata, era la sfortunata che si era vista costretta a dividere la camera con lei: sembrava che un muro le dividesse, e a Courtney – che amava ballare, chiacchierare, le feste alla moda e lo shopping sulla Fifth Avenue – Marléne sembrava una condanna impostale da Dio.
Il ritorno da Huntigton Beach aveva costretto la newyorkese a cedere alla curiosità di conoscere i retroscena del soggiorno, certa che in risposta avrebbe ricevuto solo un ostile silenzio e invece Marléne aveva raccontato, riso e persino domandato cos’era accaduto mentre lei e Nick erano fuori città.
“Sei la sua gemella buona, vero?”, le aveva domandato scettica, dopo la prima cena consumata insieme, Courtney.
“Forse.”
“Allora ti chiamerò Francine.”
Era stato così, che alla fine, aveva agguantato senza troppe difficoltà la sua prima, vera amica americana. Sforzandosi di non fuggire, restando in piedi contro le domande e rimanendo sé stessa.
E aveva vinto la sua prima battaglia.
 
 
“No senti amico, ti dico che devo passare. La conosco, è una mia carissima amica, coraggio… voglio solo salutarla e complimentarmi con lei. L’hai vista? E’ pazzesca!”
“Se non la smetti ti sbatto fuori a calci.”
Il buttafuori non ammetteva casinisti, né tanto meno si sarebbe fatto fregare da un teppistello da quattro soldi che voleva ad ogni costo entrare in teatro per demolirlo.
“Se la vuoi vedere, aspetti qui. Uscirà quando avrà finito di cambiarsi.”
A Zacky sembrava di essere tornato ai suoi quindici anni, quando era lui a fare la fila per ore per godersi un concerto: era troppo abituato a essere osannato dalle folle per ricordarsi di essere stato un comune mortale, ma più di tutto il suo corpo era stato pervaso, in ondate sempre più frequenti, dall’eccitazione che solo l’attesa che ti divide da ciò che più desideri al mondo sa darti. Attesa che diventava estenuante, se non eri dotato della virtù della pazienza, come nel suo caso. Era una cosa che lo faceva ridere, quella, molto più di quanto non lo fosse il fatto di essere finito a New York per andare a vedere Marléne senza nemmeno sapere cosa dirle.
Perché nell’affrontare le cose alla Vengeance, Zacky non era riuscito a risolvere nulla, se non decidere di prendere l’aereo e farsi guidare da un istinto che l’aveva tradito più volte di quante lui non volesse ricordare.
Aveva atteso per almeno un’ora buona, poi aveva sentito la sua risata.
E poi l’aveva vista, avvolta in un cappotto bianchissimo e i capelli lasciati sciolti lungo la schiena.
“Ehi.”
Marléne si era arrestata, il suo mazzo di rose stretto al petto – la rosa nera appuntata tra i capelli, a raccoglierle sulla nuca le ciocche che altrimenti le sarebbero ricadute sul viso - e un borsone da ginnastica sulle spalle. Accanto a lei un paio di ragazze si erano scambiate un’occhiata divertita, ammiccando nella sua direzione.
“Francine ci vediamo in college. Vedi di non fare tardi, non ti aspetto sveglia!”
Marléne continuava a fissare Zacky come se non credesse possibile che fosse davvero lì, davanti a lei, con quattro ore di volo aereo sulle spalle, senza Gena, senza i ragazzi, senza…
“Che ci fai qui?”
“Mi hai invitato, dovevo restarmene a casa? E adesso che cazzo ti prende? Ehi… no senti, se ti fa così schifo la mia faccia torno in albergo.”
La ragazza aveva abbassato lo sguardo sulle rose, nascondendo così le lacrime che sentiva pungerle la retina, tornando poi a sorridergli.
“Grazie. Da quando sono a New York nessuno è mai venuto a vedere i nostri spettacoli solo perché c’ero io. A Parigi ero abituata ad esibirmi con la certezza di avere mia madre e le mie sorelle in prima fila. E’ stato strano farlo senza sapere di poter contare sull’affetto di qualcuno, quando sono arrivata qui. Basta una persona per farti sentire più sicuro di te stesso e delle tue capacità. A New York ho dovuto imparare a ballare solo per me stessa e per chi paga per vedermi. Loro cercano qualcosa di diverso da quello che avrebbe voluto vedere mia madre, ma è bellissimo ugualmente. Tu sei il primo che viene a vedermi con i biglietti omaggio dell’Accademia. In genere li regalo a Courtney e ai suoi ammiratori.”
“E piangi per questo?”
“Non piango. Mi sono commossa. Ti posso offrire una cena? Credo sia il minimo per sdebitarmi del viaggio.”
“Ti sono piaciute le rose?”
“Sono bellissime. Sapevo che erano tue anche senza vedere la busta.”
“Allora non hai letto il biglietto?”
Marléne aveva scosso il capo, guardandolo dal basso della sua statura con aria colpevole.
“Non sapevo se farlo o no, così ho preferito lasciare tutto così com’era per non deconcentrarmi prima dello spettacolo. Era qualcosa di importante?”
“No, figurati.”
“Posso leggerla ora, se vuoi.”
“E’ meglio se la leggi quando sei a casa da sola. Sarebbe imbarazzante farlo davanti a me, è una cosa troppo hollywoodiana. Tu sei più da film autoprodotti da case indipendenti.”
“Dove hai lasciato Gena?”
“Alle prese con le prove dell’abito da sposa.”
Marléne aveva esitato qualche istante prima di tornare a respirare. Non era mai stata una persona particolarmente romantica: a vivere le grandi storie d’amore del balletto era finita a rigettare buona parte degli stereotipi romantici, convincendosi che nella vita avrebbe avuto un amore così grande e semplice, da superare le mille pene d’amore di decine d’eroine morte per il loro uomo.
Solo che le aveva fatto uno strano effetto avere lì davanti Zacky: chi si sarebbe mai fatto un simile viaggio solo per vedere un’amica per una manciata d’ore – una conoscente, per meglio dire - e sorbirsi un balletto classico? Lei, al posto di Zacky, non l’avrebbe fatto, detto molto francamente, per quel motivo la sorpresa e lo sconcerto avevano lasciato il posto a mille domande e dubbi.
Tutte illusioni della sua testolina scema.
“Allora ce l’hai fatta a deciderti?”
“Ha deciso Gena.”
“E’ una cosa che si decide in due, Zack.”
“Tu come lo sai?”
“Perché per una volta le leggi del mondo sono corrette.”
“Secondo te non dovrei sposarmi?”
“Secondo me dovresti capire cosa vuoi.”
“Non lo so.”
“Allora prenditi tempo.”
Sembrava Valary, con la differenza che aveva cinque anni in meno, un accento particolarissimo e la grazia di un cigno. Okay, sembrava Val solo nei pensieri ma c’era un’altra donna, al mondo, che poteva essere amica, compagna e amante come lei a conti a fatti.
Il chitarrista aveva lanciato un’occhiata fugace a Marléne, intenta a posare il borsone sull’auto a noleggio del ragazzo. Era leggera anche quando si muoveva nel fluido del quotidiano e non solo quando era sul palcoscenico, sembrava dovesse spiccare il volo da un momento all’altro, come se un soffio di vento potesse portargliela via da sotto il naso.
“Torno da New York e le dico che deve aspettare a spedire le partecipazioni e che non so ancora cosa cazzo voglio dalla mia vita?”
In quel momento era estremamente felice che Marléne non avesse letto la lettera che le aveva spedito insieme ai fiori, si sentiva dannatamente libero di poter dire davvero come stavano le cose, in un flusso di coscienza che lo stava portando a chiedere consiglio a una tizia che nemmeno conosceva.
E proprio per quello, razionale come solo Val poteva essere.
“Non lo so come funzionano queste cose, non ci sono mai passata. Quanto resti?”
“Tre giorni.”
“Allora schiarisciti le idee mentre sei a New York.”
“Mi fai da guida turistica?”
“Noi replichiamo anche domani. Ho le prove nel pomeriggio, ma la mattina sono libera. Dove vorresti andare?”
“In un posto figo.”
“Dove non devi pensare?”
“Tu che dici?”
“A New York c’è solo un posto dove entri e quando esci sei svuotato di tutto. La prima volta che ci sono stata credevo di aver vissuto un’apnea di quattro ore.”
“Una piscina olimpionica?”
“Cretino. E’ il Guggenheim Museum. Almeno per qualche ora terrai la mente occupata e forse, girando in tondo, riuscirai a capire come si esce da una spirale.”
Zacky l’aveva guardata incuriosito, mentre lei sorseggiava distrattamente dal proprio bicchiere il frappé alla vaniglia ordinato ad un ragazzino di nemmeno vent’anni.
“Sono venuto qui per romperti le palle al posto di farlo con Val.”
“A me ha fatto piacere che tu sia venuto, te l’ho detto. Mi hai fatto un regalo bellissimo Zacky. Grazie.”
“Credo di averlo fatto anche a me stesso.”
Era convinto, infatti, di aver fatto la scelta migliore del mondo.
Stare a contatto con Marléne avrebbe dato tutte le risposte alle mille domande su di lei. Quando l’avrebbe conosciuta, quando si fosse raccontata, allora sarebbero stati due libri aperti.
E nessun uomo gioca a carte scoperte con la donna che vuole conquistare.
 
 
Era tornato a New York altre tre volte, nei mesi successivi. Ad ogni spettacolo allestito dalla New York City Ballet, Zackary Baker si era presentato sempre alla prima, e poi era andato a recuperare la sua ballerina al termine delle successive repliche.
A Marléne faceva piacere passare qualche giorno in compagnia di Zacky, gli sentiva sempre addosso il profumo familiare che aveva Huntigton Beach, ma Courtney era stata implacabile nella sua ultima sentenza.
“Tu non ti faresti quattro ore di aereo per venire a vedere qualcosa di cui non te ne frega niente. Lene, apri gli occhi: quello ha una cotta per te.”
“Si deve sposare.”
Courtney aveva spalancato la bocca cercando di ingoiare aria che credeva si fosse rarefatta sino a sparire dalla stanza, cercando di scorgere sul viso della compagna una traccia di tristezza, dolore, rabbia.
E Marléne, invece, era chiusa nella sua pacata compostezza.
“Cazzo Lene, e tu non fai niente?”
“Scusa, cosa dovrei fare?”
La francese aveva sollevato lo sguardo sull’amica, attorcigliando attorno al dito indice la lunga catenella a cui era appeso un piccolo sonaglio avvolto da una gabbia d’argento intarsiato. Il vecchio della bancarella l’aveva venduto a Zacky dicendogli che li chiamavano “richiami degli angeli” e lui non aveva trovato di meglio da fare che regalarglielo. Era una cosa che gli era costata si e no trenta dollari, ma era perfetta per Marléne, per cui se n’era fregato delle sue proteste e gliel’aveva regalata.
Poi erano arrivate le partecipazioni, quella stessa mattina, quando lui aveva già ripreso il volo per Los Angeles.
“Che stronzo!”
“Courtney non capisco dove vuoi arrivare.”
“Senti, ti piace no?”
“No. Cioè, mi piace come potresti piacermi tu. Voglio dire, non… non l’ho presa in considerazione come ipotesi?”
L’aveva guardata inarcando un sopracciglio con aria imbarazzata, e Courtney si era gettata sul letto con aria sconfitta.
“Giusto, tu non ci pensi che un tizio che si fa per tre mesi Los Angeles – New York solo per vederti un paio di giorni ti possa correre dietro, no. Ovviamente. E tu non ti poni nemmeno il problema del motivo per cui con lui stai così bene. Cristo Francine, sei veramente ottusa.”
Quando Courtney la chiamava Francine, era per due motivi: o la stava prendendo in giro, o si sentiva esasperata, e dal suo tono di voce Marléne aveva dovuto ammettere a sé stessa di essere una perfetta tonta.
Non che non avesse preso in esame la remota ipotesi Zacky andasse lì con uno scopo differente dalla voglia di fare quattro chiacchiere e godersi balletti classici di cui probabilmente nemmeno conosceva l’esistenza prima di allora, ma l’aveva sempre accantonata perché la riteneva del tutto improbabile.
C’era Gena nei suoi pensieri, andavano da Juicy Couture a comprarle regali e il suo nome usciva spesso dalle labbra del chitarrista: che motivo aveva di credere le cose non si stessero sistemando tra loro?
“Cosa devo fare, ora?”
“Andrai al matrimonio?”
“Secondo te?”
“Ma cazzo Lene!”
Courtney aveva sbottato portandosi una mano alla tempia destra, massaggiandola.
“Puoi avere un pensiero lineare per una volta?”
“Più lineare di così si muore. Zacky si sposa con Gena, io vado al loro matrimonio e torno indietro. Ed essendo che io non mi sono mai posta problemi sulla natura della nostra amicizia, non vedo cosa ci sia di non lineare.”
“Tutto, a partire dal fatto che quello lì si sposi e non ti dica nulla.”
“L’avrà deciso questa settimana.”
“Lene…”
“Okay, non mi prendo in giro. E’ andata così, ma la vita è la sua. Se ha scelto di sposarsi avrà le sue buone ragioni.”
“Si, certo: il fatto che tu non abbia capito un bel niente e abbia dovuto ripiegare su quello che ha già. Vado a farmi una doccia e poi andiamo a cercare il tuo vestito. Almeno avremo di che ridere.”
Marléne aveva sorriso, ritrovandosi ad osservare i grattacieli tutto intorno: New York continuava a non piacerle ma quando camminava per le sue strade sempre attive e in movimento, con quel suo brusio di sottofondo persino fastidioso, si sentiva protetta. Era un tepore differente da quello di Huntigton Beach, ma Courtney sapeva egregiamente sostituire quella famiglia di disgraziati.
La proteggeva troppo, forse, ma era bello averla intorno, ridere, scherzare e non avere bisogno di raccontarsi per capire le cose: era bello avere un’amica.
Si sentiva stupida, a essere sincere: di tutto quello di cui si era privata, non si era accorta di quanto bello fosse poter ridere per nulla, ballare e avere una spalla a cui appoggiarsi quando era stanca, uscire a cena e stare sveglie sino a notte fonda a guardare film strappalacrime.
Huntigton Beach le aveva riportato la voglia di vivere, e lo doveva a Zacky, soprattutto. Era stato lui, con quel suo manifestato odio nei suoi confronti, a farla riflettere su come la vedevano gli altri.
Ferma davanti allo specchio di un’asettica camera d’albergo, aveva visto un’immagine di sé che non le piaceva, che la faceva sentire meschina e bastarda, decisamente insofferente verso il resto del mondo e con quell’aria da figlia di papà che aveva sempre odiato negli altri stampata sul proprio viso.
In una notte soltanto aveva deciso di tornare indietro, ai suoi quattordici anni, quando la danza non era ancora tutto e la vita non si era ancora aperta davanti a lei.
Aveva recuperato il ricordo dei motivi per cui rideva e aveva degli amici, li aveva rispolverati e messi tutti in bella mostra in prima linea: doveva ricordarli e ricordarsi chi era per riuscire a salvare la parte bella di sé stessa.
 
 
Zacky sentiva il nodo della cravatta soffocarlo, mentre avanzava a passo sicuro verso Gena.
“Dimmi che sto facendo la cosa giusta”, aveva bisbigliato a Brian prima di scendere dalla limousine nera.
Per tutta risposta lui gli aveva riso in faccia e dato una pacca sulla spalla: avrebbe dovuto scegliere un altro compagno di viaggio, quello era poco ma sicuro, magari Matt che sembrava il più euforico dei tre.
“Allora non guardare la prima fila.”
“Ovviamente ci guarderò, ora che me l’hai detto.”
“Allora va a finire che molli tutto e non ti sposi, Zacky.”
“Ma vaffanculo, Brian.”
Zacky si era quindi imposto di non guardare ai lati del corridoi di passaggio che avevano lasciato tra le due ali di sedie su cui lo attendevano amici, sconosciuti, parenti e roba simile. I suoi migliori amici – Brian compreso – lo aspettavano con un sorriso di quelli che erano tutto un programma, specie quelli di Syn e Johnny che si stavano dando gomitate da liceali mentre lui era finalmente giunto alla meta: avrebbe sposato Gena e sarebbe stata lei il suo “e vissero felici e contenti”.
Insomma, alla fine aveva preso la decisione giusta, no?
“Che amici stronzi che ho.”
La battuta di Zacky aveva fatto ridere di gusto i compagni e persino Gena, raggiante nel suo abito bianco, i capelli raccolti in una nuvola d’oro e boccoli che le incorniciavano il viso.
Aveva lanciato un’occhiata ai ragazzi indicando la sua donna, fiero che fosse tale, ma Brian gli aveva indicato una posizione al di là della bionda con un cenno del capo, poco distante dal patio immerso in un tripudio di rose rosse.
Non voltarti Zacky, non farlo.
Non occorreva voltarsi, però, bastava guardare Gena per scorgere Arin e accanto a lui una figura minuta, composta e splendente, che non staccava gli occhi dalla scena principale di quel ridicolo spettacolo.
Merda.
Zacky non le aveva mandato le partecipazioni di nozze, nemmeno le aveva detto che si sarebbe sposato con Gena. Okay, oggettivamente lo sarebbe venuto a sapere comunque, ma sarebbe stato molto più semplice farglielo sapere dai giornali – e Marléne nemmeno leggeva riviste come Kerrang!, dunque era piuttosto improbabile che si sarebbe mai presentato il problema – o non farglielo sapere affatto. Si era sentito una merda in entrambi i casi - un codardo, soprattutto, e la cosa l’aveva fatto scazzare con sé stesso per giorni interi -, poi era sceso a compromessi con la propria coscienza: Marléne era un’amica, Gena la sua fidanzata. Aveva obblighi nei confronti di una tizia che andava a trovare saltuariamente?
No.
Aveva obblighi nei confronti della persona che da sette anni lo sopportava?
Si.
La soluzione dunque era stata sofferta, ma lineare: sarebbe sparito dalla vita di Marléne, non l’avrebbe più cercata né vista, ed entrambi si sarebbero dimenticati della loro amicizia in un batter d’occhio.
C’erano un mucchio di ricordi pericolosi, troppi fotogrammi impressi su pellicole che non l’avrebbero lasciato in pace, ma avrebbe imparato a conviverci: l’aveva fatto con Jimmy, poteva farlo anche con una francese qualsiasi.
Non qualsiasi, Zacky, ma poco importa. Sempre francese resta.
Quando aveva deciso di sposarsi, aveva scelto di non mettere mai più piede a New York. Marléne stava diventando ingombrante nei suoi pensieri, era quella via di fuga che si stava aprendo davanti a lui non appena le cose iniziavano a incrinarsi leggermente, e lui non voleva far soffrire Gena.
La guardava e ne restava estasiato; era bellissima, non era mai stata tanto bella e raggiante come in quel momento. Quando Val e Matt si erano sposati, la prima cosa che aveva detto il padre di Brian era che, comunque andassero le cose, quello era un giorno dedicato alla donna: l'uomo faceva da comprimario.
Zacky si era ritrovato a pensare che Papa Gates avesse pienamente ragione: lui poteva anche essere un figo, ma restava lei l’indiscussa protagonista della festa.
Senza rendersene nemmeno conto, erano arrivati al momento di quel “si” che ti fregava per tutta la vita, e dello scambio di quelle fedi d’oro spento, prive di luce in quella giornata che prometteva pioggia sin dalle prime ore del mattino.
“Vuoi tu Zackary James Baker prendere Gena Pahulus come tua legittima sposa?”
Zacky si era schiarito la voce, ripassando mentalmente la frase che aveva sentito mille volte nei film, che si era sorbito ai matrimoni di Matt e Brian, che…
… era il suo turno, ora.
Anche loro si erano sentiti così tanto incerti, così pericolosamente impauriti, così fottutamente con la voglia di scappare?
Aveva alzato gli occhi su Gena, e il suo sguardo era stato catturato da una chiazza di colore indaco e capelli color miele mossi dal vento, da quelle gambe sottili accavallate l’una sull’altra con grazia.
Uno spaccato di Provenza che ammazzava tutto quello che le stava attorno: il rosso delle rose, il bianco di Gena, il blu elettrico dei vestiti delle damigelle e tutto quel grigio.
Perché non c’era il sole nel giorno del suo matrimonio?
Avrebbe dovuto essere tutto luminoso e raggiante, non come se dovesse morire dentro.
“Zacky?” era stata la domanda incerta di Gena mentre dietro di lui aveva sentito distintamente Brian tossire fragorosamente nel tentativo di spezzare quella coltre di silenzio opprimente come una cappa di nebbia.
“Si?”
“E’ la tua risposta, Zackary?” aveva domandato il funzionario con aria contrita: se c’era una cosa che non riusciva a sopportare erano le cerimonie che duravano più a lungo del previsto e quella, si preannunciava già come uno di quei grattacapi del tutto fuori programma che nessuno vorrebbe mai dover affrontare. Di matrimoni ne aveva celebrati a centinaia ormai – come se la gente non aspettasse altro che potersi sposare, tra l’altro – e di coppie che si erano lasciate dopo un paio d’ore o addirittura sull’altare gliene erano sfilate dinnanzi a sufficienza per affermare che quel tizio ricoperto di metallo e tatuaggi ovunque, era uno di quelli che se la faceva sotto prima di pronunciare quelle due magiche letterine.
“Si, no, aspetti. Cioè… no, ecco. Non è la mia risposta definitiva” e aveva abbassato lo sguardo da Gena alla fede che teneva tra le dita, riponendola sul piccolo cuscino in raso che le custodiva entrambe.
“Farei una cazzata enorme.”
“Zacky?”
La voce di Gena era un sussurro, quasi le stessero strappando a forza il suo nome dalle labbra, e il ragazzo stava pregando che tutto finisse nel minor tempo possibile: dopo il suo no, tutti dovevano andare a festeggiare o a casa propria, senza rompere le palle.
Lui aveva una cosa importante da fare.
“Mi dispiace, non posso. Voglio dire, mi sento obbligato a sposarti, Gena. Mi sento costretto perché tutti si aspettano questa cosa da noi, e io odio che la gente si faccia aspettative sulle mie scelte. Non voglio sposarmi.”
“Non potevi dirmelo prima? Avremmo evitato questa enorme figura di merda, Zacky.”
“Scusate…” il funzionario aveva tentato di troncare la discussione, richiudendo con un suono secco la Costituzione su cui avrebbero dovuto giurarsi amore eterno.
Zackary non sapeva cosa replicare: forse era vero che si era fermato solo per fare la valigia, prendere il primo aereo utile e scappare a New York per staccare la spina da quella condanna a cui si era volontariamente sottoposto, senza riuscire ad ascoltare Gena e sé stesso, senza riuscire a dire no.
Non era di certo una cosa tipica del suo carattere, ma c’era Gena in ballo e anni di storia e sentimenti che non aveva il coraggio di buttare via.
“Scusami davvero. Potete fare casino senza di me, comunque, e darvi ai festeggiamenti e…”
La mano di Gena l’aveva colpito in pieno viso: non c’erano lacrime, non c’era nemmeno l’odio o la rabbia che si sarebbe aspettato, ma solo la delusione amara di chi è stato abbandonato per sempre.
E lui si sentiva davvero uno schifo, ma c’era Marléne, oltre Gena, a fissarlo con gli occhi sgranati, la mano al viso e l’espressione terrorizzata.
Lo sapeva?
“Sei una grandissima testa di cazzo, Zacky” e sul suono di quelle parole lui aveva sceso i pochi gradini che lo separavano dalla folla, da amici e parenti a cui avrebbe dovuto dare una spiegazione prima o poi, e si era piantato davanti a Marléne.
Lei aveva sollevato lo sguardo su di lui, senza aprire bocca.
“Andiamo.”
“Cosa?”
“Cos’hai intenzione di fare? Muoviti no?”
Arin continuava a guardare Zacky come fosse un alieno, nemmeno lo avesse visto per la prima volta in quell’istante.
Senza delicatezza le aveva afferrato la mano che teneva in grembo e l’aveva sollevata di peso dalla sedia, trascinandosela appresso fuori dal giardino, dalla villa e dal casino di gente che nel silenzio più totale assisteva all’uscita di scena in grande stile di Zacky Vengeance.
Gena era stata una stupida: se non avesse invitato Marléne avrebbe avuto al suo fianco Zacky per tutta la vita, invece aveva deciso di osare e concedersi l’ultima dimostrazione d’amore che desiderava avere dal suo ragazzo, perdendolo così per sempre.
 
 
“Sei impazzito? Che cosa ti passa per quel tuo cervello malato? Hai appena lasciato Gena e i tuoi migliori amici al tuo matrimonio.”
“Non mi sposo. E’ stata una cazzata, okay? Dovevo già annullare tutto tre mesi fa, quando sono venuto a New York la prima volta.”
“Stai dicendo che sono io la causa?”
“No, solo il fattore scatenante.”
Marléne continuava a fissarlo con aria scettica, stringendosi nelle spalle senza guardarlo negli occhi.
“Ce l’hai con me?”
“Si.”
“Perché?”
“Me lo stai chiedendo seriamente Zack?”
“Si, mi sfugge il motivo. Qualsiasi donna sarebbe felice di essere al tuo posto: cazzo, sei stata rapita dal sottoscritto!”
Era un totale idiota, ora ne aveva l’assoluta certezza.
“Zack… ascoltami. Tu hai appena lasciato la tua fidanzata sull’altare, tu mi hai prelevata dal mio posto e mi stai trascinando non-so-dove su questa maledetta limousine carica di rose rosse dall’odore nauseante e sempre tu mi stai dicendo di non avermi mandato le partecipazioni del matrimonio. Ti rendi conto che qualunque persona con un briciolo di buon senso ti avrebbe già mandato a quel paese, vero?”
“Tu non hai buon senso. Hai sacrificato tutto per il ballo, sei pazza come me.”
Marléne fissava la pioggia battente sferzare Huntington Beach che lenta sfilava oltre il finestrino. Faceva freddo, era quasi fine marzo e ancora il sole non aveva deciso di fare il suo trionfale ingresso sulla California.
“Porti sfiga, ogni volta che vieni qui non fa altro che piovere.”
“Potrei risponderti con qualcosa del tipo non può piovere per sempre, ma non lo farò.”
“Mi puoi guardare in faccia?”
“No.”
Non voleva farlo perché aveva paura di sapere cosa poteva leggerci sopra: aveva paura di vedere che era sincero, che non era tutto un gioco ma qualcosa di folle e assolutamente serio.
“Allora te lo dirò anche così”, e si era appoggiato al sedile dell’auto accanto a lei, guardando dritto verso di sé. A dividerli c’era un niente di spazio, e Zacky poteva sentire il profumo di Marléne cancellare persino quello dei fiori.
“Mi piaci. Non so, magari come dice Val faccio la cazzata del secolo e sei la via di fuga perfetta da tutto quello conosco, ma mi faceva bene correre a New York con un pretesto qualsiasi. Mi sentivo di nuovo vivo. Di nuovo me stesso, senza gli occhi di tutta una famiglia addosso. Siamo così legati che alla fine forse ci viene persino naturale condannarci a vicenda senza volerlo.”
“Sei davvero venuto a New York per quel motivo?”
“Certo, ti sembra che l’abbia fatto perché ho sviluppato un innato amore per la danza classica? Cioè, mi sono documentato e mi sto sforzando di capire cosa ti piaccia nell’ammazzarti ogni giorno per sei ore provando sempre le solite cose, ma ce l’hai nel sangue. E’ un richiamo, magari come quello della foresta.”
La francese non era riuscita a trattenere una risata, costringendosi a guardarlo negli occhi.
Non poteva mentire: era la persona più diretta, sincera e stupida che avesse mai incontrato.
“Zacky, io tra tre mesi torno a Parigi. Quando scadrà la borsa di studio non so che ne sarà di me. Forse mi chiederanno di restare, ma non ne ho la certezza. A quel punto cosa farai? Verrai a Parigi?”
“A me Parigi piace come città, potremmo andare lì appena ci sono le vacanze, no?”
“Mi manca la mia famiglia.”
“E tu mancheresti a me.”
Aveva sospirato, rassegnata. Come facevi a parlare con un tizio che non ti stava nemmeno ascoltando, che correva dritto per la propria strada senza nemmeno fermarsi ad aspettarti o ad aiutarti a stare al passo?
“Zacky, porca miseria! Se anche restassi a New York tu vivi ad Huntigton Beach.”
“Verrò a New York ogni fine settimana” aveva risposto con aria solenne, per poi fermarsi un attimo per guardarla accucciata nel proprio angolo come se sfiorandolo potesse scottarsi. “Cos’ho che non ti piace?”
“Non ho detto che non mi piaci. Ti sto dicendo che stai creando un sacco di casini, Zacky.”
“Non ti sto promettendo amore eterno. Ti sto chiedendo di provarci.”
“Perché?”
“Perché mi sembra di tornare a respirare quando ci sei tu.”
A me il mondo sembra meno spietato quando ci sei tu, idiota.
“E se davvero dovrò tornare in Francia?”
“Troveremo un teatro che ti tenga qui negli Stati Uniti, magari a Los Angeles.”
Le aveva sorriso, avvicinandosi a lei sino a sfiorarle la punta del naso con il proprio, continuando a guardarla con l’aria da bambino felice, con la spensieratezza trionfale di chi ha ottenuto ciò che desidera da tempo.
“Sei proprio scemo.”
“Nessuno può dire di no a Zacky Vengeance.”
Si era sporto leggermente, sfiorandole le labbra con le proprie. Non si era ritirata a quel contatto, guardandolo ancora un istante prima di chiudere gli occhi e lasciare che il tempo iniziasse a scorrere veloce quanto i battiti del suo cuore.
Era davvero possibile essere così felici per una cosa tanto incerta?
Zacky aveva avvertito le braccia di Marléne cingergli il collo e l’aveva attirata vicino a sé scostandole alcune ciocche di capelli dal viso: era bella, di quella bellezza semplice che possiedono le cose a cui non dai mai troppa importanza la prima volta che le vedi.
Perché Marléne aveva il sapore di qualcosa di dimenticato e poi ritrovato, di quel qualcosa di cui ti accorgi di non poter fare a meno soltanto nell’istante in cui lo stringi tra le mani.
 
 
Ci sono cose che ti fanno capire quanto sia stupido innalzare barriere se poi basta la pioggia per farti aprire gli occhi sul mondo.
Ci sono cose che sono come tempeste: per quanto tu cerchi di sfuggirgli riusciranno sempre a essere più veloci di te e a raggiungerti, costringendoti con le spalle al muro e sradicando da terra il tuo rifugio e ogni tua certezza.
Ci sono cose nella vita che ti capitano e basta, e tu non puoi fare altro che accettarle passivamente, senza opporre loro resistenza: Zackary Baker era una di queste.
 
 
 



Note dell'autrice.
Se siete arrivati a leggere le note, significa che avete sopportato questo papiro sino alla fine (almeno, si presume sia così). Se vi state chiedendo il motivo per cui non abbia scritto una longfiction, è che non sono brava a scrivere storie puramente romantiche che superino il capitolo. Temo di scadere nella noia, e forse ci sono caduta anche con "Crossroads". Vi ringrazio dunque per aver passato il vostro tempo con questa storia con anticipo (la vostra è stata un'impresa titanica), e ringrazio Judy per esserci sempre, e sopportare ogni mia singola paranoia.
Grazie <3
Se desiderate sbirciare un blend dedicato, lo trovate QUI.
   
 
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