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Autore: _Atlas    11/04/2011    4 recensioni
Storia nata, ovviamente, grazie ad un compito affibbiato dalla prof di narrativa ^^
Traccia? (alla ben'e meglio; non me la ricordo bene XD)
"Immagina di finire in un'altra dimensione: come sarebbe? Che sensazioni proveresti? Chi e come ti riesce a 'liberare'? [...]"
E... puff! La prima ff su heavy Rain di EFP! ^3^
Per certi versi ne vado fiera... hehe XD *si gasa*
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[pg: Norman Jayden, Nuovo personaggio]
NB: ho messo nelle noticine la coppia "Slash" solo a titolo informativo... non che ci siano 'sti grandi riferimenti XD (tanto per specificare che l'OC non è la classica Mary Sue da quattro dindi che inventa chiunque ;) )
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Quarta Dimensione

 

Non ricordavo come ci fossi effettivamente finito, ma una cosa era ovvia:
non mi trovavo certamente a casa mia.
Nel senso, non propriamente nella mia abitazione, ma mentre esaminavo le prove sulla scena delittuosa, mi ero ritrovato di colpo lì.
Era una foresta, sembrava quasi autunno, e tutto era velato da una specie di nebbiolina rosata, come la bruma che si alza lenta dai campi quando tramonta il sole.
Ma di certo non era quello a stupirmi, no.
Restavo pur sempre l’agente Norman Jayden dell’FBI, e in un bosco come quello mi ci ero ritrovato svariate volte.
Ciò che mi sconcertava era il fatto che solo pochi secondi prima avevo sfiorato un’orchidea bianca sulla scena del crimine. E il tutto si trovava in un campo che, fino a prova contraria, non somigliava minimamente ad una foresta di latifoglie.
Ed ero lì, fisicamente. Avevo addosso i miei scarponcini scuri, i comodi jeans che avevo messo quella stessa mattina, e la giacca nera sopra la camicia bianca era ancora abbottonata ed al suo posto.
Riuscivo a muovermi, certo. Potevo camminare liberamente, ma per ovvie ragioni rimasi dov’ero, almeno per tentare di capire qualcosa in quella situazione astrusa. Rimasi in ascolto.
I rumori erano esattamente quelli che si percepivano in una foresta come tante: uccelli che cantano, alberi che frusciano, il gorgoglio di un torrente lontano...
Mi sforzai di restare lucido e di non cadere nel panico, dovevo mantenere la razionalità.
C’era per forza una spiegazione plausibile.
Mi chinai sui talloni e raccolsi una foglia ramata dal sottobosco. Ne ammirai i riflessi dorati e le sottili nervature che ne attraversavano la superficie vellutata.
Poi, d’un tratto come se fosse stata di polvere, la foglia si frantumò tra le mie dita, senza che io avessi fatto nulla.
Abbastanza stupito, rimasi a fissare i frammenti ramati rimasti sul mio palmo, come tante schegge di vetro tagliente.
Mi risollevai, facendo perno con le mani sulle ginocchia e mi guardai attorno, riflettendo.
Mi passò per la mente un’idea, e l’orchidea era il punto focale della questione.
Forse, sfiorandola, avevo scatenato un processo fisico-magnetico (o qualcosa del genere) che mi aveva catapultato in quel luogo, quella specie di “Quarta Dimensione”.
Ma il problema era ritornare a “casa mia”.
Feci un respiro profondo e chiusi gli occhi, mantenendo la calma e la razionalità che mi caratterizzavano. Poco dopo spalancai gli occhi, folgorato da un pensiero.
Non mi era ancora venuto in mente di parlare.
Potevo urlare, chiamare aiuto o qualcosa di simile. Diciamo che era la mia unica speranza.
Quando tentai, però, fu come se le parole mi fossero morte in gola. Avevo come una specie di blocco, un timore di non riuscire a parlare.
Respirai più volte, controllando i battiti cardiaci, presi coraggio e urlai il nome di George.
La mia voce uscì assolutamente normale, ma da qualcosa capii che quella dannata foresta fosse sterminata ed infinita.
Chiamai nuovamente a gran voce in nome del mio migliore amico e, quando non ricevetti risposta per l’ennesima volta, tirai un sospiro sconsolato.
Camminai verso uno degli alberi più vicini e, poggiando la schiena contro il tronco ruvido, mi lasciai scivolare fino a terra. Raccolsi le ginocchia al petto e affondai il viso tra le mani.
Che fare?
Continuai debolmente a chiamare George, cercando almeno di mantenere viva la speranza.
Mi costrinsi a non pensare a nulla che non fosse il pensiero di poter essere aiutato.
D’un tratto sentii una forte vibrazione e balzai in piedi.
Ci furono un’altra serie di violenti scossoni ed io caddi a terra. Istintivamente mi rannicchiai e chiusi gli occhi.
Udii una serie di altri rumori e percepii freddo. Poi mi avvolse una grande luce, molto più chiara di quella a cui mi ero abituato prima, e quando rialzai la testa per poco non mi misi a piangere.
Ero tornato nel ‘mondo normale’, e George mi era di fianco, un po’ preoccupato ma sorridente.
Mi aiutò a mettermi seduto, ed immediatamente gli gettai le braccia al collo.
Quando poi -dopo avergli raccontato tutto- gli chiesi spiegazioni su come avesse fatto a riortarmi nella Terza Dimensione, mi disse che avendo sentito la mia voce, aveva semplicemente scosso l’orchidea bianca.



   
 
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