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Autore: Pudentilla Mc Moany    11/04/2011    3 recensioni
Paracelso il fetente doveva essersi sentito così quando aveva scoperto il quarantesimo uso dell’agarica. Fu come la nascita di una stella nuova, solo che succedeva dentro di lui, a Grimmauld Place, in una notte scura di Novembre. Tutte le cose importanti accadono per caso.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: Remus/Sirius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Secondo livello della Scalata verso il Wolfstar di wolfstar_ita: il prompt è bere e io sono tutta ringalluzzita perché ho rispettato i tempi. Mi piacciono, questi due.


Di ciò che è importante



Novembre 1995

For we don’t realize our faith in the prize unless it’s been somehow elusive-
how switfly we choose it, the sacred simplicity of you at my side.*

<< Mi perdoni?>>
Quando Sirius Black fece irruzione nella sua stanza di Grimmauld Place doveva essere certo, in qualche modo incomprensibile, che vi avrebbe trovato Remus; aveva sempre avuto una certa predilezione per le entrate ad effetto, e questa onorava una lunga tradizione di sorprese male accette.
Si richiuse la porta alle spalle, vi si appoggiò sopra. Lo inchiodò col gelo di quella sua serietà stranissima, come se lo sforzo rifondesse quel naso e quella bocca e quegli occhi familiari in una forma nuova e spaventosa. C’era stato un tempo in cui Sirius Black non sarebbe riuscito ad essere serio nemmeno se ne fosse andato della sua vita.
Remus, seduto sul letto, si mise in piedi facendo cadere il libro che stava leggendo. Aveva i capelli scompigliati, e con risultati disastrosi se li premette sulla testa come per darsi un contegno che date le circostanze era del tutto superfluo.
Le scuse di Sirius puzzavano di firewhiskey e l’aria della stanza era densa di alcool e malumore. Da quando si era rimesso a bere aveva sempre quell’aspetto come di cane bastonato e un umore nero, e la cosa peggiore era che puzzava tutto il tempo, una puzza di cose vecchie e sporche e neglette, e dei rancori che gli marcivano dentro.
Volendo fare uno sforzo di onestà, Sirius aveva sempre subito il fascino discreto del bere e del puzzare. Ma c’era stato un tempo- un tempo lontanissimo, una vita prima-, in cui queste cose avevano fatto parte del suo fascino, dell’anarchia chiassosa di un Felpato che aveva occhi più luminosi e rideva tutto il tempo.
Remus lo sapeva meglio di chiunque altro. Lui c’era, la prima volta che Sirius si era ubriacato. Dopo la festa per la fine dei GUFO stava così male che aveva dovuto tenergli la testa tutto il tempo, in ginocchio sulle piastrelle del bagno del settimo piano, perché era l’unico a cui la vista del vomito non desse la nausea. Aveva quindici anni, e per la prima volta in vita sua gli era capitato di doversi prendere cura di qualcuno, ma di curarsene davvero, perché non c’era nessun altro che poteva fare quella cosa, e ricordava che non gli era dispiaciuto troppo condividere quell’umiliazione, perché pensava- era importante, era importante che lui fosse lì e tenesse la testa a Sirius e gli impedisse di fare qualcosa di stupido come soffocarsi nel proprio vomito.
In fondo, forse, anche quella notte di Novembre era una notte così; si sarebbe dovuto prendere cura di Sirius e avrebbe dovuto impedirgli di soffocarsi nella solitudine, e magari, come quell’altra notte, Sirius lo avrebbe ricompensato con un sorriso tremulo e bellissimo e lui avrebbe sentito che non era poi così male stare al mondo se si aveva qualcuno di cui prendersi cura.
Gli sfiorò un gomito con una delicatezza a cui non era abituato: fu quasi sorpreso di ritrovarvi uno spigolo familiare, un pezzo di quel corpo che una volta era stato un prolungamento del suo.
<< Certo che ti perdono.>>
Da quando aveva cominciato a bere Sirius aveva preso quest’abitudine autoindulgente di porgere le sue scuse a tutti i malcapitati a cui riteneva di aver fatto un torto. Si era cosparso il capo di cenere in ordine davanti a Tonks e a Molly Weasley e a Kingsley e a Silente, volenti o nolenti o semplicemente perplessi che fossero, e tutte quelle scuse solenni per torti banali avevano il sentore dell’umiliazione e dell’alcool, che erano tutto quello di cui Sirius sembrava fatto da quando aveva cominciato a bere.
Remus aveva capito da un po’ che quelle scuse non erano che prove di una scena madre, e che di quella scena madre sarebbe dovuto essere il coprotagonista. L’aveva saputo e aveva evitato Sirius sistematicamente; non voleva vederlo così spezzato e patetico e non voleva delle scuse farfugliate dalla bocca impastata di un ubriaco, ma soprattutto non voleva dover spiegare perché non sentiva di meritarle.
 Il fatto era che nessuno poteva sentirsi in diritto di ricevere delle scuse da Sirius, non dopo aver visto come viveva, chiuso in quella casa con tutti i suoi fantasmi e tutti i suoi rimorsi** a raccogliere i cocci di una vita.  Non aveva nulla da perdonargli e tutte le colpe del mondo le teneva per sé, per la paura che aveva assecondato finchè non se ne era lasciato avvelenare, per tredici lunghi anni di odio. E allora era Sirius quello che doveva perdonarlo, e glielo disse quasi senza pensarci, con una leggerezza anodina nella testa e un peso sullo stomaco.
<< E tu pensi di potermi perdonare?>>
<< Sei fuori di testa.>> Gracchiò l’altro, e gli spalancò in faccia degli occhi smisurati, feriti; sembrò quasi offeso che gli avesse rubato la parte, e del resto sarebbe stato tipico di Sirius, di qualunque versione di Sirius. La versione di quella sera si premette di più contro la porta per bilanciare l’equilibrio che stava perdendo e sembrò rimettere in ordine i pensieri.
<< Perché non ho creduto- non ho voluto credere nella tua innocenza.>> Continuò allora Remus, cercando di mantenere la voce sul tracciato instabile della posatezza.
<< …Sono stato il primo a dubitare di te, tu non mi avresti mai- se non fosse stato per me, tu non mi avresti mai…>>
<< Ti ho odiato davvero, per tredici anni.>>
Sirius gli afferrò il bavero della camicia e avvicinò il volto al suo, con rabbia e senza troppa convinzione. Remus poteva sentire il suo fiato appiccicaticcio sulle guance, e si sentì così triste, come se la tristezza che gli era stata raggomitolata nello stomaco per tutti quegli anni si stesse stiracchiando. Aveva voglia di vomitare. Sentì la morsa dell’altro che si faceva molle, e poi le sue mani stanche sulle clavicole.
<< Avrei voluto non farmi odiare.>>
<< Non avrebbe cambiato le cose.>>
<< Avrebbe cambiato tutto, invece. >>
La voce roca e vibrante di Sirius lo rese vecchissimo e molto stanco tutto di un colpo; era una sensazione strana e sfocata, quella quiete che si sentiva dentro come dopo aver pianto. << Senti, ti va se ci sediamo?>> Indicò il letto dietrò di sé e si massaggiò gli occhi con una mano sporca. Con l’altra tirò Sirius per il gomito senza troppe cerimonie, e fu sollevato quando sentì che lo stava seguendo. Lo mise a sedere sul materasso; l’altro non replicò, e allora si inginocchiò sul tappeto ai suoi piedi. Per un attimo la pressione della mano di Sirius sui capelli lo fece sussultare di nostalgia, ma fu un contatto così breve che non ci fu il tempo di ricordare com’era stato un tempo.
Tornò a concentrarsi lui lacci delle sue scarpe, e quando se le fu tolte mise mano agli stivali di Sirius e lottò con le cinghie di metallo che li chiudevano. Aveva gli occhi bassi sulla pelle nera: prese fiato e cominciò a parlare, e si sorprese a scoprire un tono più leggero nella sua voce.
<< Se a quindici anni qualcuno mi avesse detto che un giorno mi sarei abbassato a toglierti le scarpe, Sirius, mi sarei dato una mazza da battitore in testa.>>
<< Se a quindici anni qualcuno mi avesse detto che un giorno ti saresti abbassato a togliermi le scarpe, Lunastorta, ti avrei dato una mazza da battitore in testa.>> Replicò l’ultimo erede dei Black puntellandosi sul materasso coi gomiti. Allo stato attuale delle cose, malgrado le sue dichiarazioni belligeranti, sembrava più che contento di farsi servire.
<< Un pensiero delicato.>> Grugnì Remus sistemandosi sul tappeto. Quando riuscì a strappargli via dal piede il primo stivale emise un sospiro soddisfatto e si dedicò con lena al secondo.
<< …Quand’è che siamo diventati così vecchi?>>
Remus alzò lo sguardo e ne incrociò uno grigio e antico. Quando il secondo stivale si decise a dargliela vinta sobbalzò sorpreso, e fece un sorriso a metà prima di parlare con la voce che gli tremava di un riso trattenuto.
<< Vuoi davvero che ti risponda?>>
Quello scosse la testa tirando fuori un vecchio sorriso sgualcito, e Remus gli posò una mano sulla caviglia quasi senza pensarci, con l’aria pratica di uno che tastasse il polso a un malato. In un certo senso era il suo modo di assicurarsi che Felpato fosse ancora vivo da qualche parte, negli angoli di quello scheletro amico che si muoveva, beveva, e ogni tanto parlava.
<< Ti ho amato davvero, Lunastorta.>>
Aveva ancora questa capacità piuttosto inservibile di uscirsene con le cose più impreviste, quando beveva. Anche questo non era mai cambiato, ma prima aveva avuto un tempismo migliore.
Remus si tirò in piedi mettendosi a sedere accanto a lui sul letto, con la schiena curva come Atlante.
Col gomito sul ginocchio e la guancia sul palmo della mano, decise che prima del contrattacco doveva guardarlo per un po’ con un sopracciglio sollevato. Aveva sempre un sopracciglio alzato a portata di mano quando il gioco si faceva troppo duro ed esprimere dei sentimenti sarebbe stato troppo inarticolato da parte sua.
<< Commovente, Sirius. Vuoi che ti salti al collo?>>
<< …Nel senso erotico del termine?>>
<< Solo se sei un masochista.>> Fu l’imbeccata del licantropo. Tirò su le gambe  si spostò indietro come un gambero, gualcendo le coperte. << Fammi posto.>> Aggiunse poi con un sospiro, per abitudine, e sentì una fitta malcontenta nello stomaco quando si rese conto che Sirius era dimagrito tanto che che anche così, a gambe e braccia aperte sul materasso, ne occupava una porzione minuscola. Gli diede un colpetto sulla spalla comunque, e quello si voltò docilmente su un fianco. Sembrava molto contento della sua compagnia, talmente contento che la felicità gli traboccava dagli angoli degli occhi, disegnandogli rughe nuove che a Remus non andava di odiare. Sprimacciò il cuscino e si stese; guardò il soffitto con le mani sullo stomaco per un pezzo, in silenzio eccetto che per il rantolo ubriaco dell’uomo accanto a lui.
<< …Anche ad Azkaban, ti amavo.>>
Remus fece un sospiro lunghissimo e non rispose. Si mosse un po’ sulle coperte e si tolse la bacchetta da una tasca del cardigan, per posarla sul comodino. Spense la candela con le dita, si girò verso Sirius; l’altro uomo borbottava nel sonno.

Si svegliò nel cuore della notte con un sussulto e un brivido, come un animale braccato. Il fuoco nel camino era quasi spento. La camera era sprofondata in un’oscurità fredda, striata dalla luce della luna contro il mogano del legno.
Decidendo a malincuore che qualcosa andava fatto, Remus si alzò senza curarsi troppo di fare piano; se lo conosceva, Sirius avrebbe dormito sodo fino al pomeriggio del giorno dopo. Si gettò sulle spalle la vecchia coperta all’uncinetto che giaceva abbandonata ai piedi del letto e andò a incantare le braci del camino perché bruciassero in un fuoco scoppiettante e bruciassero a lungo, asserragliando la stanza di luce e calore. Forse avrebbero fatto bene anche al suo umore.
C’era troppo freddo in quella casa, pensò, e per un po’, mentre rabboccava le fiamme, si perse nell’idea un po’ folle di partire, una volta finita la guerra, e portare Sirius al sole e al caldo di qualche spiaggia lontana. A Felpato era sempre piaciuta la spiaggia, anche se aveva dimenticato l’ultima volta che c’erano andati insieme. Si sedette sul materasso; quello cigolò e lui gemette sollevato, sentendo le punte delle dita che gli formicolavano nel ritrovare il calore. Accanto a lui Sirius dormiva sodo, dandogli le spalle, e nel sistemargli addosso una coperta patchwork Remus si trovò a guardarlo un po’ più del necessario e si accorse di una cosa strana, e ci mise moltissimo tempo a capire cosa ci fosse di strano, perché era troppo stonata, quella nota stonata.
Sul letto grande che era stato dei suoi avi, nel freddo di una notte gelata d’autunno, Sirius sorrideva.
Era già abbastanza strano che dopo tredici anni ad Azkaban riuscisse a dormire tranquillamente; non aveva più dormito per bene, in effetti. Non era raro che fosse insonne per tutta la notte, e quando dormiva i suoi erano sonni agitati; anche per questo aveva cominciato a bere, Remus ne era sicuro, per dormire e per dimenticare la notte nel caso non ci fosse riuscito.
Che poi gli dormisse accanto, e sorridesse, era un miracolo privato che si concesse di osservare
minuziosamente, catalogando ogni fremito delle palpebre e ogni mugugnare sommesso con una precisione botanica e le sopracciglia aggrottate, come se stesse assistendo a un evento rarissimo e di proporzioni cosmiche che aveva deciso di svelarsi a lui, proprio a lui. Paracelso il fetente doveva essersi sentito così quando aveva scoperto il quarantesimo uso dell’agarica.
Fu come la nascita di una stella nuova, solo che succedeva dentro di lui, a Grimmauld Place, in una notte scura di Novembre, e l’agarica era molto importante, ma questo sembrava così più importante da spazzare via tutto il resto.
Accadde per caso, come tutte le grandi cose; accadde che la presenza di Sirius, vivo e accanto a lui, lo travolgesse con una forza inaudita, stordente. Accadde che si sentì più leggero e più saggio insieme, e gli venne voglia di perdonare il passato e se stesso e Sirius e tutto l’universo, perchè tutto il dolore, tutto l’orrore avevano portato a quel momento semplice e benedetto***, alla presenza concreta e miracolosa dell’uomo che amava –che amava!, al suo fianco.
La stanza non gli sembrava più così fredda.
Remus pensò- pensò che Sirius dormiva sodo, e che non l’avrebbe disturbato, e che comunque non avrebbe potuto fare altrimenti, ed era stupido anche solo pensare di poter trovare una giustificazione, perché quella era una cosa importante, e allora prese la mano di Sirius e si aggrappò a lui come se la sua sopravvivenza a quella notte dipendesse dall’avere un braccio attorno al suo fianco, dal gesto ovvio di nascondergli il naso fra i capelli. Si disse, per consolarsi, che da vecchi era normale rinunciare alla propria compostezza inglese, e sospirò forte ridendo piano fra sé.
Sirius si mosse fra le sue braccia, e anche se trattenne il fiato un po’ per abitudine, Remus non fu in grado di sentirsi troppo mortificato per averlo disturbato, e lo stomaco che gli si stringeva di una commozione infantile sembrava confermarlo. Lo sentì muoversi e muovere le gambe e poi i piedi nudi sui suoi, e sentì quel corpo leggero in un modo ridicolo voltarsi verso di lui, la testa di Sirius contro il petto e lo sguardo liquido e assonnato e grato agganciato al suo e poi il respiro regolare di quando si fu addormentato.
Con il peso di un corpo intero sul braccio e la coperta di lana sui piedi, Remus scivolò senza accorgersene in un sonno senza sogni e senza incubi. La mattina dopo si sarebbe svegliato senza sentirsi il braccio e sudato dalla testa ai piedi, e immensamente grato e in imbarazzo avrebbe sorriso a Sirius di un sorriso tremulo e bellissimo.




*; **; ***: mentre scrivevo ho ascoltato in loop una canzone di Vienna Teng, Eric’s song. Per quanto mi riguarda questa fanfiction è praticamente una songfiction, ma probabilmente sto esagerando e tutte le influenze le sento solo io nella mia testa. Le parti asteriscate sono quelle che coscientemente ho ripreso dalla canzone, la prima in forma di citazione, le altre parafrasando un po’ il testo. Che tra l’altro mi ha fatto pensare a Sirius e Remus in una maniera impressionante dalla prima volta che l’ho letto. Insomma, ascoltate questa canzone mentre leggete, se vi va!
  
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