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Autore: Roxe    15/04/2011    6 recensioni
Ogni frase che iniziava con ‘io e Mary’ spostava qualcosa dentro di lui. In una direzione che non riusciva a controllare.
Un movimento nervoso ed imprevedibile, sul quale la mente non aveva alcuna giurisdizione.
E questo era in qualche modo terribilmente spaventoso, perché per la prima volta sentiva premere sulla parete della coscienza qualcosa di diverso dal pensiero razionale, che tentava d’infilarsi tra le maglie della ragione per emergere in superficie.

[ Pairing: Sherlock-John-Mary ] [ Pre-slash ] [ Rivality ]
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

PreScriptum Mi dispiace molto di avervi fatto aspettare tanto per quest’ultimo capitolo. Purtroppo come spero avrete letto nell’intro modificata ad hoc un’improbabile febbre d’Aprile mi ha allettata per un’intera settimana, e non ho potuto lavorare alla storia come avevo programmato.
Mi scuso ancora per la lunga attesa, avendo fatto quest’esperienza d’aggiornamento estemporaneo piuttosto fallimentare penso che tornerò al vecchio metodo: prima scrivi (quasi) tutto, poi posti.
In compenso ora posso davvero promettervi con una certezza del 100% che non aggiornerò più in ritardo questa storia.
(Come sono spiritosa **)

 

 

 

No way back

 

 

 

La vetrina dello Speedy’s esponeva il suo cartello LOokiNg foR MaId da ormai un mese, senza riscuotere particolare successo.
La pessima calligrafia orgogliosamente sfoggiata in quelle tre parole costituiva un forte deterrente persino in quel periodo di crisi. E la paga era comunque una vera schifezza. Come il caffè.

Il foglio spiegazzato salutava ogni avventore del bar dondolando avanti e indietro con indolenza, e mettendo così a dura prova la resistenza del vecchio scotch incollato al vetro, che sfidava coraggiosamente l’usura del tempo senza dare il minimo segno di cedimento.

Il marciapiede era stato spazzato di fresco, come dimostrava la totale assenza di foglie secche solitamente distribuite in ordine sparso sul lastricato in quella stagione.
Speedy non la sapeva proprio caricare la caffettiera, però ci teneva ad accogliere i suoi clienti presentando un ingresso decoroso. Il che ricadeva inevitabilmente a vantaggio della signora Hudson, la quale sfruttava gratuitamente l’ossessione per la pulizia del padrone del locale calpestando ogni giorno un suolo impeccabile.

Il 221B pagava in cambio solo il piccolo prezzo di un ingresso un po’ angusto, separato dalla vetrina del bar unicamente da una sottile striscia d’intonaco bianco.

John si fermò di fronte al portone, posando la sua enorme valigia a terra.

Quel familiare, stretto portone nero, con su inchiodati quei tre vistosi numeri d’ottone ormai ossidati che campeggiavano sulla vernice nera. E quella B, un po’ più piccola, fissata da due viti trasversali proprio accanto a quel leggero graffio ch’era sempre stato lì da che aveva memoria, e probabilmente sarebbe rimasto lì per sempre, ad eterno ricordo di chissà quale evento di un lontano passato.

Alla ringhiera del seminterrato mancava sempre un ferro. Il secondo dal muro.

Come mancava ieri. E l’altro ieri.
E come sarebbe mancato anche domani.

Vedeva quello spazio vuoto ogni giorno, da tanto tempo.
Non viveva più lì da quasi due anni. Ma gli capitava ancora di passargli accanto anche sei, sette volte in una sola giornata, senza neanche degnarlo di uno sguardo.

Eppure adesso Watson fissava quel foro nella sequenza ordinata di sbarre con la sorpresa di chi torna in un luogo impresso da tempo solo nella memoria, e si stupisce di ritrovarlo esattamente come l’aveva lasciato, incredulo che gli anni non abbiano scalfito neanche il più piccolo particolare della realtà durante la sua lunga assenza.

Un involontario sospiro uscì dalle sue labbra mentre distoglieva gli occhi con una mossa nervosa, tentando di scrollarsi di dosso quel ridicolo senso di nostalgia. E John sollevò il viso, scontrandosi con la fitta coltre di nubi che inghiottiva l’orizzonte, troppo densa per poter essere trafitta dalla timida luce di quel mattino d’autunno, avvolgendo Londra nella sua consueta atmosfera plumbea.

Prometteva di piovere.

E in Inghilterra quando il cielo ti fa questa promessa quasi sempre la mantiene.

Solo uno sciocco avrebbe potuto sperare nel sole fissando quelle nuvole scure in cui l’aria continuava ad addensarsi, pronta a precipitare sulla terra goccia dopo goccia.
Infilando le mani nelle ampie tasche del giaccone Watson si strinse nelle spalle, rabbrividendo davanti all’umido presagio che incombeva sopra di lui ed emettendo un altro meccanico sospiro.

D’un tratto fu colto da una strana sensazione, come un formicolio. E si voltò automaticamente verso sinistra. Per istinto.

 

Così lo vide.

 

Procedeva rapidamente nella sua direzione. La testa alta e lo sguardo all’apparenza perso nel nulla.

La sua lunga figura si stagliava tra gli occasionali abitanti del marciapiede, spiccando senza sforzo in mezzo a quel miscuglio di variegata normalità.
Il cappotto nero, eternamente slacciato, ondeggiava dietro di lui ad ogni falcata, producendosi in una ritmica ed ampia oscillazione.
Avanzava con quel suo consueto portamento da dominatore, attraversando la vita degli altri senza rallentare. Perchè tutti gli cedevano naturalmente il passo ogni volta che la collisione sembrava inevitabile.

Il mondo era suo.
E non sapeva che farsene.

Lo attraversava di fretta, apparentemente incurante di ciò che lo circondava. Incamerando ad ogni battito di ciglia tutti i più insignificanti dettagli dell’esistenza per poi masticarli distrattamente e gettarli via, ai piedi dell’enorme catasta delle cose inutili da sapere.
Mentre quell’enorme massa d’informazioni involontarie gli scivolava addosso lui continuava a camminare in linea retta, perfettamente al centro del lastricato, mettendo un piede davanti all’altro ad un ritmo incalzante. Senza nessuna variazione.

Finché non lo vide.

In piedi di fronte al 221B, con le mani in tasca e la schiena inutilmente rigida, eternamente sull’attenti, che lo osservava da lontano con quel suo sorriso appena accennato.

Nell’istante in cui incontrò lo sguardo di John la sua andatura rallentò sensibilmente.
Le spalle scattarono all’indietro, spostando il suo baricentro fino a modificare l’assetto del suo equilibrio, e costringendolo ad avanzare per qualche metro con movimenti incerti e malfermi, quasi esitanti, per poi tornare ad accelerare improvvisamente, senza più recuperare la sua algida compostezza, procedendo con un passo ora frettoloso e impaziente. Pericolosamente vicino alla corsa.

Watson scorse appena il vistoso sorriso che affiorava su quel volto lontano, distratto da quegli occhi di colpo immobili ed attenti, fermi nei suoi, ancora troppo distanti perché potesse scorgere la rapida dilatazione delle loro pupille.

Ma non serviva.
Nel momento in cui i loro sguardi si erano toccati Sherlock era arrivato lì, di fronte a lui. Ed i metri che ancora li separavano non erano altro che una sciocca formalità delle leggi del tempo e dello spazio, che si ostinano a non voler tenere conto della realtà.
Ogni passo in più era un peso in meno, anche se l’aria sembrava svanire assieme alla distanza, portando l’ossigeno via con sé, e costringendo il petto ad alzarsi ed abbassarsi con una frequenza serrata, ingoiando con sempre maggior disappunto respiri vuoti che non bastavano più.
Forse proprio l’improvvisa mancanza di fiato affollò nella testa di Watson tante immagini di quella stessa scena, e quell’assurdo senso di nostalgia tornò a posarsi addosso senza un vero perché, facendone emergere una tra tutte. La più remota e la più chiara nella memoria, stampata a fuoco sulla fragile superficie della mente. Come ogni prima volta.
Così lontana e così diversa.
Eppure così vicina.

E così simile.

Finalmente la percezione tornò a coincidere con la realtà, e Holmes si fermò ad un passo da lui, appena un po’ più vicino del normale. Più di quanto non fosse solito fare. Proteso in avanti in un modo strano, come a voler annullare la maggior quantità possibile di spazio neutro tra loro evitando d’invadere il suo. Senza aver smesso un solo momento di guardarlo.
E di sorridere.

John sollevò la testa per non perdere quel contatto, e gli uscì dalla bocca una frase antica.

 

- Buongiorno Mister Holmes.

 

Sherlock aggrottò appena le sopracciglia, per un attimo sorpreso.

Poi ricambiò quello sguardo con espressione divertita. E la sua voce suonò pacata, intrisa della calma appropriata ad una risposta ovvia e naturale. Anche se sotto la superficie della parola covava come una vibrazione sommersa, perfettamente trattenuta ma comunque percettibile.

- Sherlock, prego.

Il sorriso di John si allargò sensibilmente, trasformando i suoi occhi scuri in due sottili fessure.

- D’accordo. Sherlock.

Pronunciò adagio quel nome, scandendo ogni sillaba come chi  per imparare un termine difficile appena sentito lo ripete ad alta voce, tentando d’imprimere nella mente quel suono curioso e sconosciuto. Senza smettere di scambiare con lui lo stesso sguardo, sostenendo a fatica quel bagliore particolarmente acceso, intriso di complicità.
E di qualcos’altro.
Un fremito sfuggente e sotterraneo che scorreva dietro l’iride, impossibile da afferrare.

Alla fine Watson abbassò gli occhi con un sospiro.
Nessuno riusciva a sostenerlo troppo a lungo.
Nemmeno lui.

Neanche dopo tutto questo tempo.

Alla perdita di quel contatto Sherlock scosse la testa con un movimento leggero, manifestando apertamente il fastidio di quella nuova distanza che si era creata tra loro.
Con una rapida mossa si protese in avanti, allungandosi oltre la spalla di John e fissando con ostentata curiosità la grossa valigia marrone posata sul marciapiede a qualche passo dalla vetrina dello Speedy’s, accanto ad una piccola cassettiera malmessa che faceva la sua magra figura in mezzo alla via, mettendo in mostra le ormai troppe cicatrici che il tempo le aveva inferto nella sua lunga e fedele esistenza al fianco di John.

- È tutta qui la sua roba, dottore?

Watson sollevò nuovamente la testa, scuotendola energicamente.

- Oh no! Ho portato con me solo lo stretto indispensabile. Il resto arriverà con un camion dei traslochi tra… Mmmh…

Una breve pausa per sollevare la manica della giacca scoprendo l’orologio appena un istante e poi guardare la fila ordinata di macchine che invadeva la strada, guadagnando con fatica ogni singolo centimetro d’asfalto, senza manifestare alcun cenno d’impazienza.

- …Un’oretta buona direi, a giudicare dal traffico.

Indugiò qualche attimo su quella carovana d’esseri umani in viaggio verso la loro vita, che si ripeteva uguale a sé stessa ogni mattina, senza variazioni.
Poi si voltò di scatto, unendo le mani dietro la schiena ed inarcandosi in una posa buffa, mentre puntava deciso lo sguardo sulle due finestre al primo piano del 221B di Basket Street.

 

- È un posto di prima scelta questo!

 

La voce squillante, a stento trattenuta. Che tentava di smorzare il riso suonando il più naturale possibile.

- Già.

Holmes seppe controllare assai meglio il tono della sua laconica risposta mentre si girava a sua volta, accomodandosi nella stessa identica posizione, e fissando anche lui con sguardo solenne quelle grandi tende accostate.
Due statue goffe col naso all’insù, ferme a qualche passo dal portone.
L’una di fianco all’altra.

- Dovrà costarle un patrimonio viverci.

- Neanche troppo. Sono amico di lunga data della proprietaria, che mi fa da tempo un prezzo di favore.

John non riuscì più ad evitarsi di sorridere.

- Oh che fortuna. È amico anche del marito?

Si voltò giusto un secondo.
Appena il tempo necessario per riuscire a catturare il labbro di Sherlock che per un solo istante sfuggiva al suo controllo, increspandosi in un ghigno subito ripreso e trattenuto.

- No… Di lui non molto.

Ma Watson perse comunque la sfida, costretto ad abbassare la testa coprendosi la bocca con una mano per nascondere l’accesso di riso che affiorava inarrestabile dal petto.
Chiuse gli occhi un momento, tornando poi ad incrociare le braccia dietro la schiena e ad alzare il viso, ricacciando in gola la risata con un ultimo sforzo.

Con la coda dell’occhio vide Holmes dondolare cautamente il busto avanti e indietro, lasciando scivolare tra i denti una voce oziosa, condita da un pizzico di rimprovero e di saccenza.

- Lo sostengo da tempo del resto, che i matrimoni sono una pessima idea come principio.

Senza staccare gli occhi dalle nuvole scure che si riflettevano sul vetro delle finestre qualche metro sopra la sua testa continuò a dondolarsi con oscillazioni sempre più ampie, del tutto incurante delle occhiate che quell’insolito movimento attirava su di lui. Fino a quando non si fermò di colpo, con la schiena talmente inarcata all’indietro da rendere ardua la comprensione di come riuscisse a rimanere in equilibrio senza vacillare.
Da quella posizione esagerata, in qualche modo impacciata, continuò a parlare con tono improvvisamente pacato. E insolitamente basso.

- Un mio lontano conoscente si sta separando dalla moglie in questo periodo, ed è stato buttato fuori casa senza troppi complimenti. Io glielo avevo pur detto -e ripetuto- ch’era veramente pessima quella sua cocciuta idea di sposarsi. Ma non mi ha voluto dare retta. Dopo tutti questi anni ancora non è riuscito a rassegnarsi all’evidente quanto inevitabile dato di fatto che io ho sempre ragione.

Mentre quel fiume di parole gli attraversava la testa John la scosse debolmente, lasciando che il sorriso sulle sue labbra prendesse una piega amara.
E il suo volto si abbassò adagio. Le braccia ricaddero senza forza lungo i fianchi.
Gli occhi scivolarono a terra. Tra le pietre. Incastrandosi sulla punta dei piedi. Ormai completamente privi dell’ilarità che tentavano solo pochi istanti prima di trattenere.

Sherlock non si voltò a guardarlo, ma non potè risparmiarsi di vedere.
Quelle spalle incurvate e quel capo chino, sconfitto dal peso che gli aveva appena gettato addosso, ostentando la sua sciocca ragione con il gesto infantile e rabbioso del bambino che esibisce boriosamente una sicurezza che non ha nel disperato tentativo di convincere se stesso.

E invece lo sapeva.
Di avere torto.

Forse lo aveva detto proprio per questo. Per poter sentire quel dolore, e non dimenticarlo neanche in quel momento.
Aveva dovuto toccare con mano quanto fosse forte ancora la pressione che esercitavano quelle zanne affilate sulla loro preda. Nella segreta speranza che avessero allentato almeno un po’ la presa.

Ma si era sbagliato.

 

- Condividere la vita con qualcuno non è mai facile.

 

Nessuna traccia d’ironia nelle composte parole di John, pronunciate con voce sommessa.

Non serviva guardare.
Non voleva guardare.
E la distanza continuava ad aumentare vertiginosamente, tornando ad essere metri, e chilometri. In una manciata d’istanti.
Holmes raddrizzò il busto di scatto, mantenendo la testa alta e gli occhi fissi sulle curve di quell’inferriata fiorita che tante volte aveva guardato senza sentire il bisogno vedere, mentre il suo cervello tentata d’individuare senza successo anche solo un grammo di verità nella frase che aveva appena sentito.

- Ah davvero?...

Non gli era mai sembrato difficile.
Nemmeno una volta.

Sentì le spalle di John sollevarsi lentamente, la sua testa alzarsi e fissarsi ancora là, su quei vetri chiusi che riflettevano il cielo. Le mani tornarono ad intrecciarsi dietro la schiena, e dalla bocca uscì un profondo sospiro.

 

- Non ci crederà, ma una volta ho diviso l’appartamento con un tizio che teneva teste mozzate nel frigo.

 

Improvvisamente di nuovo vicino.
Ad un solo passo da lui.
E Sherlock si voltò di colpo, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati, sfoggiando l’espressione più scandalizzata che avesse mai attraversato il suo viso. Così eccessivamente carica di sorpresa e disgusto da risultare perfettamente credibile.

- Oh mio dio, è una cosa abominevole! Non posso credere che esistano persone del genere!

John scoppiò finalmente a ridere. Senza trattenersi.
Si girò a guardarlo scuotendo la testa e fissando gli occhi in quelli saturi di un orrore quasi perfettamente genuino di Holmes, che si portò con un gesto enfatico le mani giunte all’altezza del mento, stringendo le labbra e parlando con voce forse appena troppo grave per suonare sincera.

- Non si può mai sapere con chi saremo costretti a convivere nella vita.

E Watson continuava a ridere, senza più riuscire a fermarsi.
Si passò le mani tra i capelli chiudendo gli occhi. Immerso in quella risata genuina che gli usciva dritta dal cuore, spazzando via ogni ombra.

Poi alzò nuovamente la testa e la scosse. Con una forza insolita. Tornando a fissare su Sherlock uno sguardo risoluto, nuovamente divertito.

- A proposito! Il mio nome è John Watson, piacere di conoscerla.

Nel pronunciare quella frase allungò la mano verso Holmes, replicando quel gesto lontano che per la prima volta li aveva visti insieme, proprio lì davanti, pronti a condividere la vita senza sapere nulla l’uno dell’altro, per una banale questione d’affitto.

Sherlock fissò quelle dita protese verso di lui, a pochi centimetri dal suo petto.
E non esitò un solo istante ad afferrarle.

Strinse quel palmo soltanto un momento. E non si fermò.

Con un gesto veloce ruotò il polso verso l’esterno, portando il dorso della mano di John verso l’alto e sollevandolo con la stessa rapidità, senza dargli il tempo di capire le sue intenzioni.

E prima che potesse accadere le labbra furono su quelle dita.
Premute. Schiacciate contro la sua pelle.

Nessuna distanza.

Senza osare respirare. Ad occhi chiusi.
Assaggiando quel sapore nuovo e familiare.
Avvertendo sulla bocca il fremito che attraversava quella mano serrata nella sua. Intrappolata in una stretta troppo forte, esasperata dal terrore di poter perdere un’altra volta la presa.

Qualche istante ancora.
Prima d’allontanarla. Faticosamente.
Aumentando di nuovo la distanza.

Per evitare di trasformare quel contatto in qualcosa d’indefinibile.
E irragionevole.

Sherlock riprese fiato, liberando la gola.
La mano di John a pochi centimetri dalla sua bocca, incastrata in quel laccio che continuava a stringere. E a stringere. Fin quasi a stritolarla.
Poi aprì gli occhi, fissandoli in quelli sorpresi di Watson,  che lo guardava con aria incerta e divertita, ritrovando sul fondo delle sue iridi grigie il fremito che prima non era riuscito ad afferrare, ma adesso emergeva in superficie con una chiarezza tagliente.

Una gioia feroce.

Spaventosa nella sua intensità.
Come solo le rare emozioni che attraversavano i suoi occhi sapevano essere.

E le labbra di Sherlock si schiusero in un violento sorriso.

 

- Incantato.

 

John rise ancora.
Con un tono forte. Trasparente.
Guardando quel viso traboccante d’esultanza ed ironia. Assaporando il benessere di respirare quell’aria. Ricambiare quel sorriso. Sentire quelle lunghe dita strette attorno alle sue, che sembravano non volerlo lasciar andare.
Mai più.

E tornare finalmente a casa dopo un lungo, lunghissimo viaggio.

 

Il familiare suono dello scrocco della serratura li spinse a voltarsi, spostando i loro sguardi sul portone che si stava schiudendo di fronte a loro un gemito, lasciando che una piccola figura vestita di viola sporgesse la sua testolina rossa e ben acconciata fuori dall’ingresso, fissando i suoi occhi allegri prima su Holmes, poi sulle loro mani strette l’una nell’altra, e infine su Watson, mentre la sua bocca sottile si allargava in un raggiante sorriso.

- John!

La signora Hudson non ci pensò nemmeno un secondo.
Si lanciò in avanti a braccia aperte afferrando Watson per le spalle ed attirandolo a sé.

- Signora Hudson!

John si lasciò andare in quell’abbraccio inatteso, divincolandosi a fatica dalla presa di Holmes per poter sostenere con entrambe le mani il fragile corpo della sua nuova padrona di casa, che continuava a cinguettare stringendolo al petto.

- Sono così felice che sia tornato a casa John!

Sherlock rimase immobile, con il palmo vuoto proteso in avanti, osservando con una punta d’invidia quella donna capace di esprimere così spontaneamente ed apertamente la sua felicità.

E lei si staccò da Watson all’improvviso, aggrottando le sopracciglia mentre agitava l’indice davanti al suo naso con uno scherzoso accento di rimprovero.

 

- Non ci lasci mai più!

 

Fissando quel dito e quella silenziosa accusa John si limitò a sorriderle.
Senza rispondere.

Mrs Hudson fece un passo indietro, spalancando il portone ed invitandoli dentro con un gesto affrettato.

- Entrate, entrate! Che sta iniziando a piovere!

- Subito!

Watson si voltò e si diresse alla volta della sua valigia, afferrando la maniglia con entrambe le mani e tornando rapidamente verso l’ingresso. Ma il peso non indifferente dello stretto indispensabile destabilizzò con facilità il suo equilibrio, costringendo Holmes a spostarsi per evitare di prendere una sonora valigiata sugli stinchi.
Prolungando il movimento con cui aveva appena scansato il colpo Sherlock s’inchinò con una mossa teatrale, indicando l’entrata del 221B con un ampio gesto del braccio.

- Prego, mio caro Watson.

John gli sorrise divertito, scuotendo la testa. Catturato dallo sguardo scherzoso di Holmes si dimenticò di guardare dove stava mettendo i piedi. E gli ingombri.
Lo spigolo duro del suo corpulento bagaglio andò così ad impattare nella porta con un colpo brusco che rimbombò per tutto l’androne delle scale, lasciando un vistoso graffio sulla vernice scura a circa venti centimetri dal suolo.

La signora Hudson si chinò d’istinto a valutare il danno, mentre John si tirava indietro mortificato.

- Oh accidenti! Mi dispiace, io…

Ma la padrona di casa scosse la testa con un sorriso, mettendogli una mano sulla spalla.

- Stia tranquillo John! Questo portone ne ha già prese tante di botte, e ne prenderà ancora altre mille! Ferite di guerra! Ne va orgogliosa! Vorrà dire che ogni volta che vedremo quel segno ci ricorderemo di questo bel giorno!

Mentre parlava prese Watson sottobraccio, conducendolo all’interno dell’abitazione ed avviandosi con lui su per le strette scale che portavano al primo piano.

Sherlock rimase fermo sull’ingresso, osservandoli mentre salivano un gradino dopo l’altro trascinandosi dietro quel carico massiccio.
Non fece nulla per evitare che la porta si richiudesse alle loro spalle, emettendo un debole cigolio.
Il battente si serrò con un tonfo sordo, facendo scattare la serratura.

Soltanto allora Holmes si voltò. E si diresse verso quella cassettiera malandata in mezzo al marciapiede, fermandosi ad osservarne la superficie logora e piena di solchi.
Di ognuno di essi avrebbe potuto indovinare facilmente l’origine, leggendo in quelle mille cicatrici tanti piccoli pezzi della sua vita.
Ma non lo fece.

Si limitò a posare una mano su quel piano ruvido. Con esitazione.
Trattenendo il respiro.

Una goccia cadde all’improvviso sulla vecchia tavola in noce, disegnando un piccolo cerchio bruno tra le sue venature. E Sherlock alzò la testa verso le nuvole.

Il cielo stava mantenendo la sua promessa.

Chiuse gli occhi.
Aspettando di sentirla sul viso.

E mentre il suo palmo aderiva con forza a quel legno consumato Holmes espirò adagio.
Lasciandolo finalmente libero di muoversi alla velocità che preferiva.

Il cuore.

Mentre avvertiva distintamente quello spaventoso squarcio da troppo tempo incuneato al centro del petto che finiva lentamente di richiudersi, colmando l’ultimo residuo di distanza.

               Senza lasciare neanche un millimetro di spazio.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note finali (Seduti comodi?...):
1. Spero che nessuno si sia trovato troppo spiazzato dal(l’ ulteriore) salto temporale di questo ultimo capitolo. La fic in realtà si era già conclusa nel cap precedente, e ciò che avete appena letto è una sorta di postfazione.
Volevo che l’inizio del capitolo creasse un po’ di confusione, e spero di non averne generata troppa.
La mia idea era che la scena sembrasse descrivere l’arrivo di John a Baker Street dopo la sua corsa per Londra, per poi trasformarsi lentamente, dettaglio dopo dettaglio (sta per piovere e non c’è il sole, John ha la giacca, Sherlock non è in casa), in tutt’altro momento nel tempo, saltando a piè pari tutto quello che è successo nel mezzo.
Questa storia voleva solo mettere in campo le pedine e far partire il gioco, senza raccontarne lo svolgimento. Ma nonostante questo mio intento programmato fin dall’inizio era indispensabile (no, forse non era indispensabile… però l’ho trovato terribilmente azzeccato) ‘chiudere’ raccontando la soluzione definitiva -lontana nel futuro- alla fase di stallo  fotografata nel finale del capitolo precedente, che vedeva Watson correre  sospeso tra due vite, intrappolato in una situazione ambigua destinata a durare a lungo nel tempo.
John comincia a correre nel capitolo precedente e arriva veramente a casa solo anni dopo, con una lunghissima corsa ideale.
Con questo epilogo il cerchio dell’abbandono si apre e si richiude all’interno della storia, finendo compiutamente il discorso che aveva iniziato, e il lettore fa lo stesso viaggio della cassettiera di John, tornando alla fine nello stesso posto da cui era partito.

2. Ve ne sarete accorti tutti penso, ma già che sono a fare le note… :
Tutto il dialogo tra John e Sherlock davanti al 221B è ricalcato sul loro primo incontro davanti a quella stessa porta nel primo episodio della serie BBC.
I due ‘replicano’ volutamente la scena del primo trasferimento di Watson a Baker Street nel giorno del suo ritorno a casa dopo anni d’assenza, facendo finta di non conoscersi. Come se si trattasse davvero di ripartire da zero, con un nuovo inizio.
Tra l’altro non so se qualcuno di voi ci ha fatto caso, ma ho voluto sfruttare l’occasione per scrivere un intero dialogo in cui Sherlock Holmes e John Watson si danno del lei, nonostante l’ambientazione moderna, così come si danno del lei nella versione italiana del canone. (in inglese è sempre you).
Ho voluto rendere tutta la scena del dialogo il più possibile ‘ottocentesca’, rifacendomi anche ai forbiti modi d’apostrofarsi che i due utilizzano nei racconti originali di Doyle. «My dear Watson» è una delle frasi che Holmes usa spesso per rivolgersi all’amico, che non chiama MAI per nome.
Anche il baciamano è una pratica ottocentesca, ovviamente. **
Spero che fosse chiaramente percepibile il gioco sulla ‘distanza’ che ho cercato di creare. La fic è partita con un allontanamento fisico tra i due, e finisce in questa breve scena che è un progressivo riavvicinamento a metà tra il fisico e l’emotivo, guidato dal desiderio di Sherlock di annullare finalmente quella distanza che si era creata nel primo capitolo tra lui e John, che ha dovuto sopportare per anni, e che adesso si sta dissolvendo lentamente centimetro dopo centimetro, raggiungendo il suo culmine nel punto zero in cui tra loro non esiste più alcuna distanza, né fisica né emotiva, attraverso quel contatto antico ed insolito.
Volevo che fosse una scena un po’ senza tempo, e senza fandom. E ancora una volta sono rimasta quasi del tutto fuori dalla testa e dal cuore dei protagonisti della vicenda, lasciando che i gesti parlassero per loro.
Inutilmente pesante (e inopportuno) sarebbe stato entrare troppo ‘dentro’ Watson e Holmes in questo giorno.
Il salto temporale si porta dietro un enorme bagaglio di fatti, sentimenti e cambiamenti (matrimoni, morti presunte, morti reali, battaglie all’ultimo sangue ecc ecc) che non possono essere riassunti in un semplice incontro, se non al prezzo di rendere il tutto eccessivamente gravoso, ed io invece volevo che questo epilogo avesse un’aria intensa e leggera. Fresca come la gioia di riuscire finalmente ad afferrare una soluzione a lungo cercata.
Ciò che provano questi due uomini che tornano a convivere dopo anni di separazione si dovrebbe leggere –o meglio intuire- attraverso ciò che fanno.
Il salto temporale non è comunque lungo come nel canone (almeno sei anni). Grossomodo ne sono passati due dagli eventi narrati nei capitoli precedenti.

3. Si capisce dal discorso che fa Holmes, ma per sicurezza lo ribadisco: ovviamente Mary in questa versione ‘moderna’ non è morta, lei e Watson si sono semplicemente sposati e poi separati, come succede al 70% delle coppie nel 2011, e non poteva invece succedere nel 1800.
John si è ritrovato fuori casa e sta tornando a vivere a Baker Street, dietro invito di Holmes.

4. Il titolo di questo cap è stato messo lì appositamente per ingannarvi (*.*).
Venendo dai capitoli precedenti l’interpretazione più ovvia che si può dare a quella strada senza ritorno è un’impossibilità per Watson di tornare a Baker Street dopo la decisione presa. In realtà una volta letto il capitolo la frase assume un significato esattamente opposto, e molto più ampio.
Sono tante le vie senza ritorno in questa fic: Sherlock non può tornare indietro. Non vuole fare a meno dell’amico, e non gli resta che tentare di trattenerlo con sé. Mary non può tornare indietro, ha lasciato John e non tornerà da lui. E soprattutto non può farlo Watson. Non può più tornare sui suoi passi.
Non importa dove andrà, non potrà mai allontanarsi veramente da Baker Street. Anche lui ha preso una strada senza ritorno.

5. È giunto il momento di rivelarvi un mio piccolo segreto…
C’è un motivo scemo per il quale il personaggio di Mary mi è sempre rimasto simpatico, nonostante il suo ruolo scomodo e lo scarso impegno che ci mette Doyle nel tratteggiarlo. Qualcosa che me la fa piacere nonostante l’enorme ‘danno’ che fa entrando in scena e nonostante abbia i capelli biondi (io odio le bionde).
Il motivo è che io e lei siamo omonime.
Da qualche parte nella psiche il mio orgoglio s’incendia all’idea di avere lo stesso suono della moglie di John Watson, nonchè ‘rivale’ di Holmes, che esce addirittura vittoriosa dallo scontro.
Ripensandoci attentamente…  questa è la cosa più simile ad una Mary Sue che io abbia mai scritto in vita mia.
Gh. Mi si accappona quasi la pelle… Forse tra un po’ scriverò un best seller che venderà milioni di copie, sul quale scriveranno miliardi di fanfiction (piene a loro volta di Mary Sue) e dal quale produrranno una serie di film campioni d’incassi. [Questa è un’ipotesi di fantasia. Ogni riferimento a libri o persone realmente esistenti è puramente casuale].
Ma tornando ad essere seri…. È ovvio che questa scemezza non sia l’unico motivo per cui apprezzo il personaggio. Il principale motivo per cui lo ritengo determinante  al di là della sua misera comparsata è che in lei vedo materializzata la vera nemesi di Holmes.
In un certo senso è proprio Mary il suo nemico naturale, più di Moriarty, Mycroft o la Adler, che in realtà riescono ad assumere l’ambito ruolo di suoi avversari perché sono estremamente simili a lui.
La signora Watson invece è davvero il suo contrario in ogni cosa, dalla più stupida alla più importante. Bionda/moro, donna/uomo, cuore/cervello, comune/straordinario. Dite una caratteristica di Sherlock e lei avrà l’opposta. Sempre.
Holmes contro di lei non ha nessun’arma. Non può battersi. E se ne rende perfettamente conto.
Mary incarna tutto ciò che è normale, ordinario, femminile, carnale, delicato, banale, sentimentale, noioso se vogliamo, ma così rassicurante ed empatico che a Holmes manca totalmente. Rappresenta quella normalità di cui lo stesso John è costituito, e di cui il dottore ha bisogno per sfogare la sua emotività più genuina.
Lei è tutto ciò che Sherlock non potrà mai essere. È il cuore che si scontra con la ragione.
Un cuore che perde su molti fronti ma esce vittorioso da altre battaglie, che la mente non può combattere.
Concludo la nota con un’uscita ancor più scema di quella con cui ho iniziato, linkandovi l’immagine ‘ideale’ di come mi figuro io l’aspetto di Mary Morstan.
Non ho idea di chi sia la tizia in questione, l’ho trovata a giro per la rete e photoshoppata qua e là.
È particolarmente scema come cosa, me ne rendo conto. Ma visto che stiamo a slashare un telefilm… facciamo anche il casting no?

6. Sull’onda della nota precedente posso finalmente spiegarvi uno dei motivi principali per cui ho scritto questa storia.
Al di là del tema, dello svolgimento, e dei protagonisti della vicenda, uno degli intenti di questa fic era di posizionare Watson nel modo più corretto possibile al fianco di Holmes, e per farlo mi sono voluta cimentare in una sorta di apologia dell’eterosessualità di John.
Sembra un paradosso. Soprattutto perchè siamo in un contesto slash. E invece secondo me è proprio quando si naviga in queste acque che è importante tenere conto di questo aspetto.
Io trovo che attribuire a Watson delle nascoste pulsioni omosessuali, screditando la sua attrazione per le donne, in realtà non faccia altro che sminuire e banalizzare enormemente il sentimento che prova per Sherlock.
Cosa c’è di straordinario in un gay attratto da un uomo?
Assolutamente niente.
Mentre ciò che lega John a Holmes non ha niente di ordinario.
È un’affezione talmente intensa e fuori dal comune da trascendere il suo orientamento sessuale.
Il dottore non s’ “innamora” Sherlock perché in realtà è gay, s’ “innamora” di lui NONOSTANTE non lo sia.
A Watson piacciono le donne, e solo le donne. Non è nemmeno bisessuale. Eppure è chiaramente “innamorato” di Sherlock, che ne possiede tutta la mente, e metà del cuore.
Solo metà, perché John ama sinceramente di Mary, di quell’amore passionale, fisico, sentimentale e privo di struttura ch’è più naturale nell’uomo.
Ciò che prova per Sherlock è di tutt’altro livello e spessore, e non ha niente a che vedere con la sessualità.
In questa differenza si nasconde il cuore della mia fic, in cui ho cercato di raccontare la scissione di Watson tra queste due forme d’amore, così diverse tra loro. Il suo bisogno di averle entrambe crea la situazione descritta nella mia storia. Per questo trovo indispensabile difendere il sentimento sensoriale e sessuale che John prova per quella che sarà la sua futura moglie, separandolo nettamente da quello che prova per Holmes.
Quando ostento il mio blocco psicologico nel non poter leggere fic ad alto tasso erotico su questa coppia perché composta da attori esistenti dico tre quarti della verità. Il motivo è principalmente quello, ma in parte la mia riserva nasce anche dal fatto che non vedo alcun punto d’incontro tra questi due uomini sull’argomento ‘sesso’.
Senza dubbio esiste il modo di farli finire a letto insieme, ed in questo fandom ne ho anche intravisti di molto azzeccati e IC. Solo che sarebbe appunto un incidente, una contingenza, una forzatura. Qualcosa d’anomalo che s’inserisce in un legame che tocca tanti tasti e svariati organi, ma non quelli sessuali. E gran parte della sua bellezza sta proprio in questo.
Badate bene che parlo da slasher convinta, che ama leggere e scrivere -ed ha in passato letto e scritto- cose anche sconcissime, ai limiti della denuncia penale.
Eppure in questo caso (e solo in questo) trovo il legame tra questi due uomini particolarmente splendente proprio perché cammina su binari tutti suoi, che non si possono ricondurre ad una definizione precisa (slash, bromance, yaoi, shounen-ai et similia).
Siamo davanti ad una simbiosi talmente forte da far “innamorare” tra loro un normale uomo eterosessuale e un genio asessuale.
Alla fine sono una ragazza all’antica, di quelle che tendono a separare l’amore dal sesso, ed anzi conferiscono all’amore platonico una caratura maggiore, le rare volte in cui davvero esiste. E resiste. Questa è secondo me una di quelle volte.
Perciò è così importante secondo me parlare dell’amore che John prova per Mary. Perché solo definendo (e difendendo) con chiarezza questa parte ‘normale’ della sua emotività si riesce a dare la giusta luce al vincolo straordinario che lo lega a Sherlock.
Questa storia in fondo non fa che puntualizzare ed approfondire il discorso che avevo iniziato nella mia prima fic riguardo al suo titolo (I wanna grow in your garden). È sempre lo stesso discorso che gira nella mia testa e che tento di esprimere attraverso ciò che scrivo.
Per questo Watson non poteva rispondere sì a quella proposta. Perchè tra loro non c’entrano nè il sesso, nè gli affitti da pagare, nè le regole sociali. È qualcosa di molto diverso da un semplice, banale matrimonio, che può finire con un semplice, banale divorzio.

7. È finalmente giunto il tanto atteso momento del quizzone.
Jerry Scotti è di fronte a voi, seduto sul suo comodo sgabello rialzato. Avete esaurito tutti gli aiuti e potete contare solo su vuoi stessi per riuscire ad agguantare il montepremi finale. Un milione di euro in tappi di bottiglie se risponderete a questa semplice domanda:
Chi tra voi sa dirmi…quante mogli ha avuto John H. Watson?
A. due        B. una       C. sei
D. zero       E. sette      F. dato non pervenuto
La risposta esatta è probabilmente la F, ma vi assicuro che per ognuna delle altre risposte esistono fior di detrattori con tanto di minuziose ed accuratissime teorie.
L’ipotesi più accreditata sembra essere la A, che attribuisce a Watson una prima moglie Mary Morstan, dopodichè gliene appioppa un’altra –senza nome né identità- in seguito alla sempre più famosa frase di Holmes «deserted me for a wife» ed una serie di altri dettagli e deduzioni (ha ha ha).
Durante le mie ricerche sull’argomento ho scovato addirittura un simpatico amico il quale avanzava con tanto di argomentazioni serissime l’ipotesi che la seconda moglie di John fosse in realtà Mrs Hudson… **
Questo è il casino che spesso succede quando un personaggio diventa più potente del suo autore, e ne forza il volere, costringendolo a scrivere su di lui anche dopo che la vena sembra essersi esaurita. Doyle voleva concludere la storia di Holmes con la sua morte nello scontro con Moriarty, lasciando Watson alle cure della sua mogliettina Mary. [«Pray give my greetings to Mrs. Watson, and believe me to be, my dear fellow,very sincerely yours, Sherlock Holmes.» (*_*)]
Ma non gli è stato permesso.
Sir Arthur è stato anche assai resistente, per otto lunghi anni non ha toccato penna ed ha lasciato il povero Sherlock a galleggiare nel fiume, però alla fine ha dovuto comunque cedere alle pressioni del pubblico, e andare a ripescarlo.
Credo che il nostro consulting detective sia il primo personaggio letterario ‘resuscitato’ a furor di popolo a dispetto della morte decisa dal suo creatore. Dopo di lui letteratura (e fumetto) sono stati invasi da queste ress forzate, dettate più dal desiderio di guadagno che dall’ispirazione letteraria.
Questo non vuol necessariamente dire che tutto ciò che viene dopo la redivivazione sia da buttare via, o senza valore. Tutt’altro. Io per prima sono felice che Holmes non sia morto precipitando in quella cascata, perché ci saremmo persi tanta robba. Spesso anche se costretti gli autori tirano fuori delle gran belle cose, solo che non ci possiamo stupire se gli scappa qua e là qualche cialtronata, visto che l’interesse per l’argomento in loro è scemato.
La seconda moglie di Watson è effettivamente una cialtronata. Un essere inutile buttato lì di sfuggita, senza nome né aspetto, né alcun tipo di senso narrativo. È talmente sciatta come uscita che verrebbe quasi la tentazione di dare alla celeberrima frase di Sherlock qualsiasi altro significato, appioppando al dottore una scappatella extraconiugale con la moglie di Lestrade, oppure ad Holmes una dislessia settoriale per la definizione delle creature dotate di tette (mogli, donne, cameriere, femmine, guastafeste, rompicoglioni, tutti sinonimi). Se ci fosse solo quella frase, io lo farei.
Purtroppo però c’è anche il non trascurabile dettaglio che John leva le tende da Baker Street.
E John leva le tende da Baker Street solo quando si trova una maledetta moglie. Quindi per quanto sciattamente esposta temo che l’idea di un secondo matrimonio di Watson fosse esattamente ciò che aveva in mente l’autore mettendo quelle parole in bocca a Sherlock.
Posso immaginare che a Doyle sia suonato un vago campanello d’allarme quando gli è passato per la testa che avrebbe chiuso le avventure di Sherlock Holmes lasciando questi due scapoli/vedovi a vivere soli soletti al 221B di Baker Street fino alla loro morte. Probabilmente ha sospettato che nel 2011 avremmo potuto pensar male, così ha tirato fuori la seconda moglie in zona cesarini.
Ma noi pensiamo male lo stesso, quindi è stata fatica (poca) sprecata.
Sir Conan l’aveva trovata una moglie a Watson, ed era Mary. Per poter ricomporre la coppia di detective che tanto piaceva al pubblico ha dovuto eliminarla, e a quel punto glien’è fregato assai poco di ridefinire la questione, ha solo rimesso in piedi alla meno peggio e all’ultimo momento la situazione finale che avrebbe voluto lasciare all’origine, con un Watson sposato e un Holmes se non morto (per carità… che poi gli toccava ressarlo di nuovo…) quantomeno ritirato a fare l’apicoltore (?????????????... come gli è venuta questa lo sa solo lui… Candyman!).
Allora! Con questo cosa volevo dire!
Non lo so! Però! C’ho ragione! E i fatti mi cosano!
*Dono della sintesi vieni a me*
Stringendo… Il senso di tutta questa lagna/riassunto/analisi (ve lo avevo detto o no che era una cosa lunga? Non mi date mai retta…) è che volendo riportare a moderno tutto ‘sto garbuglio noi ci troviamo in una situazione più vantaggiosa rispetto a Doyle. Ai suoi tempi il divorzio già esisteva, ma era una cosa rara, se volevi liberarti di una moglie era più semplice farla secca.
Nel 2011 per fortuna invece esiste addirittura la separazione, quindi è buffo da dire ma risulta più facile per noi rispettare i suoi desideri di autore in un remake moderno di quanto non lo fosse per lui farlo nei primi del secolo.
Sto parlando dell’ipotesi B ovviamente, quella secondo cui Watson ha avuto una sola moglie, Mary Mostan, dalla quale si è separato a causa di un lutto (poniamo la morte di un figlio?) per poi ritornare da lei dopo un po’ di tempo.
C’è addirittura chi avanza questa stessa ipotesi pure nel canone, anche se in un contesto ottocentesco il divorzio sembra essere abbastanza improbabile.
Intendiamoci… la pratica esisteva già 4000 anni fa nella cultura egizia, e l’Inghilterra è pioniera sull’argomento. Ve lo ricordate il nostro amico Enrico VIII? Quello che uccise tante mogli perché continuavano a entrare in bagno? Ecco! Lui creò a muzzo la Chiesa Anglicana nel 1534 solo per poter divorziare da una di quelle poveracce (evidentemente si era stufato di doverle accoppare) alla faccia della religione cattolica e soprattutto di Papa Leone X, che glielo impediva. Lo sapete no, a quei tempi the King riceveva sia il potere temporale che quello religioso, la palla e la staffa, quindi non poteva sgarrare pena la detronizzazione e tante altre cose poco carine e… INSOMMA! Ditemi qualcosa quando divago così!
STRINGENDO!*Nggggh* Se è vero che il divorzio oltremanica esiste e viene praticato sin dal 1500, resta comunque una faccenda più che altro per nobili e Re fino al ventesimo secolo. C’è anche da dire che uno dei motivi per chiedere il divorzio al tempo era la sterilità, e calcolando che in sei anni di matrimonio in casa Watson di figli non s’era vista nemmeno l’ombra l’ipotesi potrebbe anche non essere così peregrina, ma alla fine dei conti è molto più semplice e meno arzigogolato associare il lutto di cui parla il dottore al fatto che Holmes parli di UNA moglie e non di Mrs. Watson (come definisce Mary dopo il suo matrimonio con John) arrivando alla più lineare conclusione che la Morstan sia effettivamente morta, e il buon dottore si sia risposato.
Doyle non poteva farlo, anche se secondo me avrebbe voluto. Ma nel 2011 noi possiamo. E quindi facciamolo. Io scelgo la B.
L’accendiamo!
In fondo in fondo in fondo in fondo sono un po’ romantica dai…  Preferisco pensare che nella sua vita John abbia amato una sola donna.
E un solo uomo.

PS Siete giunti fino a qui, e questo dimostra il vostro indubbio coraggio, la vostra abnegazione e la vostra enorme pazienza, ma soprattutto dimostra che avete davvero un sacco di tempo da perdere.
Per questo meritate un premio.
Immagino che il finale vi abbia lasciato un po’ in sospeso, e che sarete curiosi di sapere almeno com’è andata la prima notte di reunion di questi due freschi… coinquilini.
Ah-ah! Se pensate a cose zozze vi mando a rileggere la nota 6. Non vi conviene.
Se invece fate i bravi posso dirvi che per gentile concessione della bravissima fanwriter Stray cat Eyes ho l’onore di potervi indicare la sua splendida fic Floating, feeling come seguito ideale di questo capitolo, assicurandovi che la mia idea di come sono andate le cose quella sera è praticamente identica, solo che io l’avrei scritta molto peggio. In circa 4mila caratteri...
Ringrazio questa bravissima autrice per avermi permesso di linkare il mio lavoro al suo, e per aver composto questa meraviglia che mi ha fatto tornare la voglia di scrivere dopo anni.
Grazie di esistere! ><v

  
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