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Autore: _Syn    18/04/2011    2 recensioni
8018 (pre-slash) A Kicchina
Davanti agli occhi Yamamoto sorrideva, dietro gli occhi, rovesciata sulla retina, prendeva vita la realtà tagliente in cui era stato catapultato. Erano quelli i momenti in cui sorridere diventava difficile, eppure così necessario.
E questo, due occhi ancora più affilati, l'avevano capito.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kyoya Hibari, Takeshi Yamamoto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: Questa fanfiction partecipa all'iniziativa di FanWorld “Pesca la tua Carta” con il seguente prompt:

Quattro di picche: Scrivi una storia di qualsiasi tipo che abbia al suo interno le parole uova, coniglio e colomba.

E' un 8018, sì (pre-slash, più che altro). Coppia nuova, per me. Me ne sono innamorata senza possibilità di scampo, sono persa. E dire che all'inizio la snobbavo. Ora diciamo pure che li vedo dappertutto.
E' dedicata a Kicchina – ne voglio una anch'io, eh XD – che mi ha assecondata in questa follia attraverso quello strumento malefico che è tumblr. Spam selvaggio, portaci via :D

Oh, il titolo è “Senza nome” non perché non sia riuscita a trovare un titolo – che poi sarebbe anche possibile quando si tratta di me – ma per un motivo che vi sarà chiaro verso la fine. E' parecchio introspettiva, perciò vedete voi se sia il caso di iniziare anche solo a leggerla XD Ma come primo tentativo ho deciso di sondare il terreno selvaggio delle menti di Hibari e Takeshi messi insieme- e le menti di questi due sono qualcosa di estremamente complesso. Infatti avrò trollato dall'inizio alla fine. Ma pace, mi darò all'uncinetto se così fosse.

Spero vi piaccia, nonostante la coppia non sia delle più gettonate. Ma sono meravigliosi e io continuerò a inquinare il fandom da oggi in poi.

I numeri romani che vedete all'inizio dei paragrafi servono a definire la linea temporale della storia. La prima parte coincide con l'inizio dell'ultima parte, è solo un introspezione che piano piano si sviluppa anche nella prima e seconda parte. Scusate, io devo sempre complicare le cose se no non sono contenta.


Senza nome



III


Solitamente arrivava a scuola in anticipo solo quando aveva gli allenamenti di baseball. Non era lo studente modello, uno di quelli già in classe prima della campanella. Be', in effetti anche dopo la campanella, una volta iniziate le lezioni, Yamamoto Takeshi restava in classe solo fisicamente e finiva per fantasticare sul baseball, pensare alla partita imminente, sonnecchiare mentre il professore parlava di una certa regola matematica... No, Yamamoto Takeshi non era affatto uno studente modello, ma un cervello ce l'aveva. A volte potevi pensare che fosse del tutto inconsapevole di essere un ragazzo intelligente, profondamente legato alle emozioni di quelli che lo circondavano e capace di capirli. Solo a volte. Perché poi abbandonava quello sguardo innocente, quasi idiota avrebbe detto qualcuno, e i suoi occhi diventavano affilati, fermi e, ancora di più, perfettamente consapevoli di quello che stavano guardando. Forse quello era il sorgere dell'istinto, un'arma che probabilmente Yamamoto teneva nascosta la maggior parte del tempo per sviare gli altri e far credere qualcos'altro. Ma non era neanche così. Non intendeva mentire, nascondere una seconda natura e camuffarla con qualcosa di più semplice. No. Lui non era capace di mentire, né agli altri né a se stesso. C'era una sorta di biancore dentro di lui, ma tra le esplosioni di luce giacevano delle ombre che passavano davanti ai suoi occhi e gli ricordavano che non mentire e comprendere quello che vedeva non significava sempre essere felici. Significava, appunto, sapere. E la consapevolezza di ciò che ci sta intorno non è sempre il biglietto d'entrata per un mondo felice. Davanti agli occhi Yamamoto sorrideva, dietro gli occhi, rovesciata sulla retina, prendeva vita la realtà tagliente in cui era stato catapultato. Erano quelli i momenti in cui sorridere diventava difficile, eppure così necessario.

E questo, due occhi ancora più affilati, l'avevano capito.

Solitamente arrivava a scuola in anticipo solo se quando aveva gli allenamenti di baseball. Quella mattina, ne aveva approfittato per sfidare le ombre di qualcun altro.



I


In quel periodo gli allenamenti procedevano come al solito, senza sforzi eccessivi, ma i giocatori erano in campo ogni pomeriggio. Il campionato era lontano, ma questo non significava che Yamamoto decidesse di prendersela comoda e, con il suo entusiasmo, riusciva a trascinare anche il resto della squadra. La scuola era immersa nel silenzio al suo interno, mentre all'esterno risuonavano le voci dei ragazzi, i sibili del vento e delle palle da baseball scagliate a tutta velocità, i rumori dei passi rapidi... Era qualcosa di familiare, ormai, perciò chi passava di lì non lo trovava fastidioso.

Hibari Kyouya, per esempio, pur ritenendo indegno qualunque essere umano che provasse il desiderio di fare squadra o branco trovava in qualche modo armonioso quel susseguirsi di rumori, suoni e voci. Dopotutto, la squadra di baseball faceva parte della Namimori, era uno dei tasselli che la rendevano tale e, nel momento in cui vinceva il campionato, riusciva a renderla più preziosa. Non che a lui interessasse chi vincesse o chi perdesse una partita, solo che nel momento in cui l'umore generale della squadra calava era molto più probabile prevedere l'insorgere di disordini. E se dei ragazzi felici tendevano a riunirsi in quel modo disgustoso e a fare baldoria, allora i ragazzi tristi e arrabbiati cercavano in tutti i modi di sfogare il disappunto facendo cose che danneggiavano la scuola. In ogni caso, si trattava di scegliere tra i due mali quello minore.

Il capo della commissione disciplinare voltò la sua sedia girevole verso la finestra e, attraverso la tenda tirata, intravide Yamamoto Takeshi effettuare un lancio. Era diventato molto più forte di prima, questo l'avrebbe intuito chiunque, anche se parecchi membri della squadra ancora non riuscivano a spiegarsi un miglioramento così netto. Be', in effetti neanche chi sapeva cosa si nascondesse dietro quei miglioramenti riusciva a comprendere come Yamamoto potesse superare i suoi limiti in quel modo. Era come se avesse una molla e fosse in grado di lasciarla scattare a piacere, come se quella molla racchiudesse in sé un ammontare di energia praticamente illimitata.

Non si era aspettato una vittoria come quella, dal momento che non aveva idea di quanto fosse migliorato. E fino ad allora l'unico capace di sorprenderlo e elettrizzarlo in battaglia era stato Reborn – forse perché non aveva mai scoperto tutte le sue carte.

Ma era rimasto leggermente sorpreso davanti alle capacità di Yamamoto. Non era il tipo di sorpresa che lo coglieva quando si trattava di Tsunayoshi Sawada: quell'erbivoro era talmente debole che non riusciva a capire da dove riuscisse a procurarsi tutta quella forza, quando era necessario. Hibari l'avrebbe paragonato a un coniglio, ma di tanto in tanto quel paragone vacillava e finiva per accantonare il pensiero di Sawada in un angolo del cervello, per poi ripescarlo al momento giusto. Ma, in fondo, erano stati scelti tutti dal piccoletto. E lui non lasciava nulla al caso, neanche i particolari più insignificanti che nessuno avrebbe notato. Sicuramente non aveva ignorato neanche quella sua tendenza di Yamamoto Takeshi di salvare il nemico; e Hibari, la sera dell'incontro tra i Guardiani della Pioggia, aveva immaginato che Yamamoto avrebbe fatto qualcosa di così inaspettato e così lontano da ciò in cui lui credeva. Volendo essere precisi, Hibari non credeva in nulla se non nella sconfitta totale del nemico e nel fatto che agisse da solo. E, volendo essere ancora più precisi, l'idea di quelle temporanee e fulminee collaborazioni con quel gruppo di erbivori non lo entusiasmava affatto. Ma l'occasione per diventare più forte e ripagare il conto a una persona al momento fisicamente non disponibile cresceva in lui inesorabile, perciò aveva deciso di rimanere in quel cielo, di volare libero e senza legami come aveva sempre fatto. Il vantaggio era che dall'alto di quel cielo aveva una visuale migliore e non aveva limiti. Era immenso, come la gamma di scelte che aveva a disposizione: eppure, lui ne sceglieva sempre e solo una, l'unica possibile quando l'armonia da mantenere è una soltanto e va di pari passo con i tuoi desideri. Il suo desiderio era uno solo.

Hibari si alzò dalla sedia e si avvicinò alla finestra, guardando in alto. Guardare il cielo... Anche prima che tutti quegli eventi prendessero luogo gli era sempre piaciuto farlo. Andare più in alto possibile e poi fermarsi a guardarlo, oppure chiudere gli occhi e, semplicemente, dormire. Forse perché nessuno ti costringe a guardare il cielo. Alla fine era lì che la sua forza nasceva, maturava ed esplodeva; poi si placava, diventando nient'altro che un eccesso di noia trasformato in pigri sbadigli. Era lì che poteva essere qualunque cosa volesse e non temere nulla. E lui non temeva nulla.

Quando abbassò lo sguardo e vide il campo da baseball Takeshi si levò il capello ed esultò, lanciandolo in aria, mentre sorrideva come se fosse al colmo della felicità.

Esplosione, limiti sciolti, sicurezza. Avevano modi così diversi di esprimere lo stesso concetto. L'esplosione di Hibari era il rumore di una vittoria violenta, i limiti si perdevano mentre avanzava verso il nemico, ormai terrorizzato da lui, e la sicurezza lo abbracciava come una seconda pelle.

Hibari tirò le tende e chiuse la finestra. Qualcuno avrebbe detto che guardare Yamamoto Takeshi troppo a lungo faceva male agli occhi, ma non lui. Era solo arrivata l'ora del suo sonnellino pomeridiano.

E se qualcuno fosse arrivato a rompergli le uova nel paniere l'avrebbe morso a morte.



Solo quando il sole cominciò a tramontare oltre l'orizzonte Yamamoto Takeshi si rese conto di quanto fosse tardi. Si asciugò il sudore sulla fronte con un braccio e sorrise, respirando profondamente per riprendere fiato. La stanchezza gli crollò addosso come un senso di appagamento perfetto, che racchiudeva in sé tutti gli sforzi del pomeriggio e le soddisfazioni ottenute. Era una sensazione quotidiana, ma non si sarebbe mai stancato di sentirla sulla pelle. Donava tranquillità, annebbiava i sensi in modo che la mente diventasse un mare di calma. Era quella stanchezza che ti permetteva di addormentarti con il sorriso.

“Per oggi abbiamo finito!”annunciò, rivolto a tutta la squadra.

Dopo aver bevuto un po' ed aver infilato la testa sotto un getto d'acqua fresca, Yamamoto si avviò verso gli spogliatoi con un asciugamano intorno alle spalle.



II



Il silenzio è una condizione estremamente destabilizzante in certi casi. Soprattutto quando si passa da situazioni in cui non c'è posto neanche per ricordarsi cosa sia e situazioni come quella, in cui il silenzio è talmente forte che ci si sente a disagio anche facendo il più piccolo rumore.

Ma a Yamamoto piaceva, perché era come il momento subito dopo la pioggia, quando l'unico rumore che credi di sentire è quello delle nuvole che si diradano e il cielo si apre.

Era il momento perfetto per raccogliere tutto ciò che il caos aveva disperso durante il suo regno. Anche le cose più semplici, come modulare il respiro, rilassare i muscoli e stiracchiarsi. Lui non aveva paura di rompere il silenzio perché quello sarebbe sempre rimasto lì, insieme a lui.

Diventava l'elemento finale per rendere una doccia rigenerante un momento perfetto. E infatti camminare per i corridoi della scuola con quel senso di fresco silenzio sulla pelle dava quella sensazione: una perfezione fugace, eternamente fugace.

Gli ricordava un po' le giornate passate con Tsuna e gli altri, piene di voci e allegria, nel momento in cui giungevano al termine. Erano così piene e belle che alla fine non veniva neanche in mente di far posto alla tristezza della fine, per non rovinare il momento. Poi il momento continuava, per esempio, quando tornava a casa insieme a Gokudera e Ryohei, attraversando le strade buie della città.

Nel silenzio lui poteva riascoltare le loro voci e non stancarsi mai, oppure chiuderle in un angolo privilegiato e concentrarsi su qualunque altra cosa, come il baseball o la spada. Nel silenzio dopo la pioggia, la solitudine diventava necessaria, ma non l'estensione di un desiderio più grande. Yamamoto non pensava a tutto questo facendo ragionamenti intricati, in effetti, ma si limitava a seguire ciò che sentiva, quell'istinto speciale, come se la strada che conduceva a quel punto fosse naturalmente scritta dentro di lui. Se avesse dovuto spiegarlo avrebbe semplicemente risposto con una risata, per poi dire: “E' bello, no? Sfinirsi per qualcosa che ci piace e poi godersi la pace.”

Sì, avrebbe detto così.

Ridacchiò come se fosse stato in compagnia di una persona davvero divertente mentre attraversava il corridoio bianco e silenzioso e, preso dall'allegria, accelerò il passo e la mazza da baseball che teneva per il manico andò a cozzare rumorosamente contro un termosifone. Onde sonore si sparsero nel vuoto, rimbombando come un'eco inquietante.

“Ops.” fece Yamamoto.



A Hibari piaceva dormire. Non lo trovava un modo inutile di sprecare il tempo, non credeva neanche che così avrebbe perso ore preziose della sua vita. Dormire era necessario, anche alle bestie più feroci e assetate di sangue, e aiutava la mente a liberarsi dagli ingombranti pensieri derivanti dalla sua posizione di Presidente della Commissione Disciplinare, così da far spazio ai nuovi problemi che sicuramente sarebbero emersi il giorno dopo. Certo, Hibari non dormiva semplicemente per quel motivo, non si abbandonava alla pigrizia lasciando scivolare nel calore del sonno i suoi forti istinti solo per avere la prontezza di spirito adatta per occuparsi di un gruppetto di erbivori.

Il sonno era un piacere. Diverso da quello di lanciarsi in una rissa, riportare l'ordine scatenando un disordine ancora più grande – ma nell'ombra – o osservare situazioni interessanti. Non era complicato, non prevedeva sforzi immani e lo lasciava nella solitudine più totale, perso dentro se stesso e poi nel buio. Per questo odiava essere disturbato ed essere svegliato durante quei sonnellini. Quando qualcuno travalicava i confini della sua mente, svegliandolo, commetteva un crimine. La natura del crimine passava in secondo piano, a quel punto, perché la sensazione che si veniva a creare nel momento in cui apriva gli occhi per un motivo esterno tutto il suo corpo sentiva il desiderio di farla pagare a quel motivo. Non tollerava gli insolenti, gli impiccioni e le persone rumorose: che fossero insolenti, impiccioni o rumorosi involontariamente non era affar suo. Andavano puniti.

Per questo, mentre scivolava nel sonno sdraiato sul divanetto del suo “ufficio”, un istinto rosso sorse dentro di lui quando un rumore metallico e echeggiante si diffuse nella scuola.



“Ops.” Yamamoto Takeshi, per sua immensa sfortuna, si trovava di fronte all'ufficio della Commissione Disciplinare, perciò rimase un attimo immobile quando la porta vicino al termosifone si aprì. Ne emerse un Hibari ancora assonnato, ma perfettamente consapevole di quello che avrebbe dovuto fare visto che aveva i due tonfa stretti tra le mani.

“Yamamoto Takeshi.” pronunciò, mentre il ragazzo si portava la mazza da baseball incriminata dietro le spalle. Non era consentito portare oggetti come quello all'interno della scuola, a esclusione degli spogliatoi e della palestra, perciò l'espressione di Hibari divenne ancora più irosa – in tutta la sua compostezza, comunque – quando si rese conto di quella seconda effrazione. Perché sì, anche svegliarlo era vietato dal regolamento da lui stilato.

“Ehilà, Hibari... Anche tu torni a casa?” chiese ingenuamente. Si era ripreso dalla sorpresa di vederselo comparire davanti così all'improvviso e ora si comportava come al solito, chiacchierando in modo gioviale, come faceva con tutti. In un certo senso Hibari trovava quel modo di agire idiota oltre ogni umana comprensione, ma quando lo sguardo di Yamamoto cambiava, così impercettibilmente ma anche così chiaramente, si domandava se il ragazzo non fosse davvero sicuro di potergli tenere testa. O forse, più semplicemente, se pensasse che fossero amici, compagni o chissà cosa.

In ogni caso, odiava quell'atteggiamento.

“Mi hai svegliato.” rispose.

“Be'... addormentarsi prima di cena non va bene, non credi? Stanotte non chiuderesti occhio e domani...”

Questione di millisecondi e un tonfa si scontrò quasi con la sua mascella. Fortunatamente, colpì il legno resistente della sua mazza da baseball che Takeshi aveva saggiamente deciso di usare come scudo. Hibari aveva lo sguardo duro e serio che aveva sempre quando si trattava di combattere contro qualcuno. Non reagì in nessuna maniera quando Yamamoto parò il suo colpo, ma continuò ad attaccare, fino a trasformare il corridoio nel loro campo di battaglia. L'aveva fatto proprio arrabbiare, eh...?

Allontanò il tonfa dalla mazza e si fece avanti, in una miriade di colpi rapidi e precisi.

“Non stiamo...” un colpo gli sfiorò la guancia “infrangendo...” un tonfa rischiò di ammaccare la mazza da baseball “il regolamento, combattendo qui?”

Kyouya era un avversario forte, anche quando si trattava di un duello nei corridoi della scuola, e una familiare scarica di adrenalina incendiò le vene di Yamamoto, portandolo automaticamente a ricevere e colpire i colpi dell'altro.

Hibari non diede segno di averlo sentito, comunque, e lo colpì allo stomaco con la punta del tonfa, atterrandolo. Non era il Guardiano più forte tanto per dire, Takeshi lo sapeva bene. Si portò le mani alla parte lesa, un occhio chiuso e l'altro puntato verso Hibari. Stava ancora sorridendo, nonostante il dolore. Forse erano i resti dell'adrenalina che ancora scorrevano nel sangue, ma il dolore in quel momento non sembrava disturbarlo troppo.

Si appoggiò al muro, a pochi centimetri dal termosifone che aveva scatenato tutto e, senza staccare gli occhi da Kyouya, batté il pavimento con una mano. Invito?

“Una volta mi sono addormentato contro un muro. Non è molto comodo, in effetti, ma se sei stanco potresti usare la mia spalla. O il grembo, sai. Le ragazze dicono che sia un cuscino perfetto per dor...” un tonfa di Hibari si conficco nel muro, letteralmente. Gli era piombato contro in un secondo, seccato da quel suo chiacchiericcio insensato, e anche irritato dalla proposta. Come se lui dormisse con un altro essere umano accanto.

“Vuoi che ti morda a morte così seriamente da mandarti all'ospedale, Yamamoto Takeshi?”

“Ahaha, allora non eri serio, prima? Che peccato, pensavo fosse uno scontro...”

L'altro tonfa, posizionato orizzontalmente, si bloccò contro il suo collo, rendendogli difficile persino respirare, figurarsi parlare.

Ma i suoi occhi erano sempre lì, aperti, e non lo abbandonavano un attimo. C'era qualcosa di simile nei loro sguardi, forse perché erano entrambi così affilati e capaci di penetrarti dentro come lame. Eppure erano diversi, forse perché Hibari cercava di allontanare ogni sguardo e Yamamoto, al contrario, tentava in ogni modo di attrarlo con quelle iridi color nocciola.

Mordi a morte, diceva l'istinto.

Mordi a morte quel sorriso irritante.

Poi Yamamoto sollevò un braccio, afferrando con le dita un'estremità del tonfa che lo teneva bloccato contro il muro, e con uno scatto che sorprese anche Hibari riuscì a liberarsi. Kyouya rischiò di perdere l'equilibrio a causa di quel movimento così rapido e inaspettato, ma si rialzò comunque velocemente, in posizione di attacco.

“Ehi, ehi...” esclamò Yamamoto mettendo le mani davanti al petto. Non aveva ancora ripreso la mazza da baseball, che giaceva sul pavimento, poco lontano. Non che gli importasse che fosse disarmato. Era irritante, tanto bastava a fargli perdere la pazienza.

Stava preparando un nuovo attacco, quando una voce lo chiamò dall'altra parte del corridoio.

“Hibari-san!” era Kusakabe. Altri problemi in arrivo.

Il ragazzo restò ancora qualche secondo immobile, lo sguardo puntato contro Yamamoto.

“Facciamo un'altra volta?” ebbe il coraggio di chiedere.

A Hibari servì tutto l'autocontrollo di questo mondo per evitare di piombargli addosso e schiantarlo contro un muro, finendo per danneggiare anche la scuola. Cosa che aveva già fatto, in ogni caso, conficcando il tonfa nella parete. E per questo Yamamoto Takeshi avrebbe pagato con gli interessi.

“Hibari-san!”


III


Una colomba tagliò l'immensità del cielo e lo allontanò momentaneamente dai propri pensieri.

Ogni tanto che Takeshi si perdeva a osservare quella volta celeste, pensando al futuro, a quelli che erano i suoi desideri più grandi. Erano tutti lì, in quel cielo che sostava sulle loro teste come una sicurezza: finché c'era, finché non crollava, allora tutto era possibile. E Yamamoto ci credeva, con quel sorriso un po' ingenuo e un po' determinato.

Era possibile migliorare, possibile vincere il campionato di baseball e combattere quasi fino a morire, ma senza arrendersi. Erano cose che aveva imparato in quell'anno incredibile.

La luce dentro di lui brillava fino ad accecarlo quando ci ripensava, ma era proprio per quel motivo che ombre ancora più oscure si spandevano sotto ai suoi piedi, con il rischio di farlo inciampare. Alcune di esse si riflettevano nel cielo, come per ammonirlo, avvisarlo. Poi cadeva la pioggia e insieme all'acqua il nero delle ombre scorreva via, unendosi alla luce. Allora gli ammonimenti e gli avvertimenti entravano nella sua spada, si univano all'istinto.


Quella mattina era arrivato prima a scuola, anche se la squadra non aveva programmato di allenarsi. Aveva aperto gli occhi ed era appena l'alba. Ma dalla finestra aperta della sua stanza il vento piacevole di fine primavera l'aveva costretto a scostare il lenzuolo leggero per godere a pieno della sua freschezza, per respirarlo a pieni polmoni.

Forse era quel periodo dell'anno a rianimarlo così velocemente a quell'ora del mattino o forse i dolori allo stomaco dopo lo scontro con Hibari che gli impedivano di trovare una posizione adeguata, che non lo facesse gemere a ogni movimento troppo azzardato. Aveva dormito con un cuscino sotto la pancia.

Si passò una mano sul livido che faceva mostra di sé sulla pelle chiara e si domandò se quel giorno avrebbe dovuto sostenere un altro attacco.

Ridacchiò. Hibari era una persona che lo incuriosiva in modo diverso dal solito. Lui non si sforzava troppo di capire le persone, perché con lo spirito che aveva e l'atteggiamento che lo animava non era difficile farsi degli amici. Li vedeva per quello che erano, tutti, e non cercava, come facevano gli altri, di vedere nella gente qualcosa che non c'era, a causa di pregiudizi infondati.

Con Hibari si andava al di là del pregiudizio. Era un'istituzione a scuola, il suo nome veniva sussurrato con timore – o non pronunciato più semplicemente – e chiunque conosceva i modi con cui il ragazzo amministrava la giustizia e l'ordine, alla Namimori.

In realtà Yamamoto era rimasto quasi completamente all'oscuro della sua esistenza fino a quando non si era trovato a fronteggiarsi direttamente con lui, durante le prime settimane di scuola, e infine quando erano finiti nella stessa famiglia in quel gioco di cui quel bambino di nome Reborn tirava i fili. Era stato divertente conoscerlo, cercare di capirlo, osservare i suoi movimenti nell'ombra, sempre lontano da tutti e da tutto, come un'esistenza indipendente. Eppure esisteva, faceva parte di quello stesso sistema. Non era impalpabile, inconsistente o un essere divino e al di sopra del mondo.

Yamamoto Takeshi l'aveva capito subito che al di là di tutto era un essere umano. E il livido che pulsava dolorosamente sul suo stomaco glielo ripeteva: era un dolore umano che agiva da calamita, forse in maniera troppo irresponsabile per essere ragionevole, e lo attirava a lui.

Per questo, un po' per il vento profumato e fresco, un po' per quel dolore pulsante, Yamamoto si lavò e vestì in fretta per raggiungere la scuola.



Le strade erano quasi deserte a quell'ora, tranne per qualche anziano signore che passeggiava silenziosamente, solo o in compagnia, e per gli studenti che prendevano la metropolitana per arrivare all'università. In ogni caso, era un mondo azzurrino e quasi surreale, soprattutto per chi era ancora assonnato. Ma Yamamoto aveva il dolore allo stomaco e tenerlo sveglio e perfettamente consapevole della realtà.

La nebbia mattutina era vestita dell'azzurro del cielo, ancora chiaro, quasi rosato, e lasciava viaggiare attraverso il suo velo impalpabile il vento che l'aveva svegliato. Profumava d'estate e si insinuava dolcemente nella camicia leggera della divisa.

Era un momento perfetto.


La scuola, come aveva immaginato, era ancora chiusa e deserta. Poteva sempre scavalcare il cancello e entrare furtivamente. Non si domandò perché volesse sfidare così sfacciatamente l'autorità di quel luogo, ma seguì l'istinto ed entrò. Saltò dal cancello, atterrando con un tonfo sordo, e si pulì le mani sui pantaloni mentre si avviava verso l'entrata dell'edificio.

Era aperto, a differenza del cancello principale. Forse oltre a Hibari c'erano anche altri membri della Commissione. Yamamoto si sentì come in un videogioco, pronto a penetrare nel territorio nemico, attento a non farsi notare. Ridacchiò divertito da quel pensiero e seppe sin da subito dove andare.


Salì le scale che portavano al tetto con calma, senza affrettarsi troppo. Il cielo fuori era ancora chiarissimo, come se il tempo fosse fermo.

Hibari era sicuramente sul tetto, sdraiato da qualche parte a osservare quell'azzurro. Saltò gli ultimi gradino due a due, come se a quel punto fosse stato preso dall'impazienza, e aprì piano la porta. Fu investito subito dalla luce naturale del sole ancora nascosto dalle nuvole sottili e leggere e dovette aprire e chiudere gli occhi un paio di volte prima di abituarsi a quella vista.

Quando saliva sul tetto, qualche volte, gli tornava in mente lo scontro tra Levi-a-Than e Lambo. Non era stata una notte che avrebbe rivissuto, quella, e ancora ricordava la sensazione provata quando Tsuna era entrato nel campo elettrico, salvando il loro amico in pericolo. Era stato come essere investiti da un onda che sapeva sarebbe arrivata, prima o poi. Yamamoto sapeva quello che Tsuna avrebbe fatto e quel calore all'altezza dello stomaco che poi sgorgava dal cuore, come una sicurezza, erano uno dei pilastri della sua vita. In un certo senso era come se quell'atteggiamento lo facesse apparire più forte degli altri, ma in realtà anche lui, da quando era entrato a far parte di quel gioco così realistico, aveva finito per usufruire delle spalle dei suoi amici. Era lo stesso Yamamoto di sempre, o quasi, perché prima che loro arrivassero la cornice della sua esistenza non era mai stata così piena.

Ora c'era posto persino per quei particolari che lo portavano ad alzarsi a quell'ora del mattino: aveva bisogno di guardarli, perché quella loro natura così schiva e isolata lo attraeva come poche cose. Hibari era pieno di quei particolari, ne costituivano l'esistenza e il corpo.

Faceva parte della sua natura farsi avanti. Così, senza alcuna intenzione molesta in realtà. Se la si vedeva dal suo punto di vista, quell'intenzione diventava persino involontaria, come il respirare.

Era un sentimento, ma era diverso da qualunque altra cosa. Era un sentimento perché gli faceva battere il cuore e la sensazione dell'adrenalina che gli scorreva dentro, come un fiume selvaggio, non lasciava adito a dubbi. Era il sentimento adatto a lui.

Per quel motivo lo cercava. E alla fine lo trovava.


Lo sguardo azzurro di Hibari gli diede la sensazione di una stilettata, precisa e secca. Non disse nulla, tuttavia, e si limitò a rimanere nel suo punto, abbastanza lontano da non infastidirlo e abbastanza vicino per guardarlo.

I tonfa erano posizionati proprio vicino alle sue braccia e, conoscendolo, non sarebbe stato uno sforzo per lui alzarsi, afferrarli e cominciare uno scontro.

Notando la sua immobilità, Yamamoto gli fece un sorriso – niente di così luminoso, un sorriso a labbra chiuse – e mosse la mano che aveva nella tasca per salutarlo. Sapeva che Hibari avrebbe notato quel movimento, anche se nascosto. Notava tutto. O quasi. Chissà perché, Takeshi aveva l'impressione che tenesse nascoste persino a se stesso certe cose.

Adrenalina, curiosità, affinità. Stupidità.

Era un sentimento e raggruppava tutte quelle caratteristiche. Mancava solo il nome.

“E' vietato entrare a scuola prima che i cancelli siano stati aperti.” gli fece notare Hibari, restando sdraiato. Hibird gli svolazzava intorno. Era una visione divertente.

“Ahaha, non sono bravo a memorizzare le regole.”

“Sei bravo a scavalcare i muri.” lo rimbeccò Hibari, con uno sguardo evidentemente scocciato. Anche la minima effrazione andava riportata ed era il suo lavoro.

“Sì, be'... in quel momento mi bloccava la strada.” rispose Takeshi, azzardando un passo avanti. Hibari non reagì.

“Irritante...” borbottò tra i denti. Hibird si posò sulla sua testa, come per dirgli di calmarsi, che quel ragazzo era venuto a scuola così presto, sfidando le regole, per vederlo. Yamamoto scoppiò a ridere senza ragione davanti a quella scena.

Hibari si alzò di scatto e prese un tonfa. Era poggiato su un ginocchio, una mano per terra e l'altra sollevata e armata.

Quelle esplosioni di ilarità erano un'altra cosa che non tollerava e ultimamente si verificavano spesso su quel tetto. Aveva imparato a reagirvi così, molto più istintivamente del solito. Forse erano entrati a far parte del suo bagaglio di ricordi, pensò Yamamoto. Ecco, è umano, si disse. Perché si ricorda di me e reagisce alla mia risata. Penso che fosse carino e ringraziò di non averlo detto ad alta voce.

“Scusa, non volevo disturbarti.” disse poi. Non che con Hibari le scuse servissero. Infatti non aveva ancora abbandonato la sua posizione e Takeshi pensava che stesse ancora considerando l'idea di riprendere da dove avevano lasciato il giorno prima. Glielo stava ricordando soprattutto il suo stomaco.

Ma prima che Hibari potesse scattare e atterrarlo, Yamamoto alzò gli occhi al cielo. E lo guardò, senza dire niente, con le mani affondate nelle tasche, Hibari a pochi passi da lui e il vento nei capelli. Una scena nuova, ma che sembrava già persa nel cielo.

“Anche se è così grande trovo sempre quello di cui ho bisogno.” sussurrò Yamamoto, abbastanza forte perché Hibari lo sentisse. “Non si scappa dal cielo, vero, Hibari-san?”

Nessuno sfugge, nessuno può fare a meno di guardarlo o di desiderarlo.

Esplode in noi, scioglie i limiti e, anche in quella grandezza sconfinata, ogni tanto si ferma nell'azzurro e ci offre una sicurezza. Tutto questo e una sola parola per esprimerlo: cielo.

Hibari sembrava seriamente intenzionato ad alzarsi e a bloccarlo con quella mossa del giorno prima contro la rete metallica alle sue spalle.

“Però puoi attraversarlo.” sussurrò Yamamoto ancora più piano, mentre si sedeva quasi vicino all'altro. Hibari sentì comunque quello che aveva detto.

Stava cercando di capirlo?

Stava cercando di violare il suo territorio?

Stava cercando di infastidirlo?

Stava cercando di farsi ammazzare?

“Stai un po' zitto...” lo rimbrottò, colpendolo con una violenza un po' contenuta sul braccio, con un tonfa.

“Ahaha, oggi sono più chiacchierone del solito. Ci diamo il cambio? Mi piace la tua vo...”

La sentì perfettamente l'esplosione che accompagnò lo scatto di Hibari e fece appena in tempo a fermare un tonfa dal rompergli il naso.

Percepì il suo respiro infrangersi sul viso e la forza dei suoi occhi entrargli dentro come per dargli involontari indizi sul sentimento che stava provando.

Adrenalina... Curiosità... Affinità.

Anche quel sentimento che nasceva nel petto di Yamamoto ce l'aveva, un nome. Come il cielo. L'avrebbe scoperto, forse, quando un'altra colomba avrebbe tagliato il blu, sbucando dal nulla e continuando a esistere nell'immensità.

Per ora non era importante, ci avrebbe pensato poi.

  
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