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Autore: My Pride    19/04/2011    8 recensioni
Potete chiamarmi spettro, diavolo, demone o figlio delle tenebre, se ciò vi aggrada. A me non importa. Chiunque sia stato a farmi questo, fosse anche il Diavolo in persona, se lo incontrassi sul mio cammino, probabilmente, lo ringrazierei.
Forse sono stato semplicemente dannato e non me ne rendo conto adesso come non me n’ero reso conto a quel tempo, ma ciò che provai durante quei primi giorni della mia nuova esistenza non lo scorderò mai: i suoni vivi, i colori nitidi, le luci e le ombre che sembravano palpabili, quasi potessi intrappolarle fra le dita... si era rivelata una situazione meravigliosa.
[ Prima classificata allo «Yaoi Contest: Citazioni di Alessandro Baricco» indetto da Ale2 ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Originale al contest «Voglie estive di gustose letture» indetto da aturiel ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Protagonista al contest «L'amore ai tempi di EFP» valutato da Lady Viviana ]
[ Prima classificata e vincitrice del Premio Miglior Personaggio secondario al contest «Let's talk about a Beatle» indetto da DakotaDeveraux ]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dè a tha thu_5
SCENA II: GOCCE D’INCHIOSTRO SU CENERE NEL VENTO
 
    Non capii esattamente nemmeno io come tutto fosse iniziato, oppure quando avessero cominciato a susseguirsi poi giorni, mesi, anni.
    Avevo veduto quel piccolo fiore iniziare a sbocciare dinanzi ai miei occhi, e il momento in cui sarebbe stato raccolto aveva cominciato a farsi sempre più vicino. Durante quei mesi che aveva passato in nostra compagnia, William aveva legato parecchio con Henry, il quale, dopo essersi finalmente abituato a quella sua strana presenza, aveva di poco messo da parte pennelli e tele per insegnargli ciò che sapeva della vita e del mondo. Gli aveva parlato delle bellezze di Parigi, dei boulevard che di primo mattino odoravano di pane appena sfornato, persino della grandezza della Torre Eiffel e di come da lassù le luci della città risplendessero, simili a tanti piccoli diamanti, al calar della sera.
    Non erano poi state rare le volte in cui, quando tornavo dai miei lunghi e solitari viaggi, trovavo quello stesso Henry intento a leggergli testi in francese - che spesso William non capiva - o vecchie favole, quasi fosse un padre premuroso che accudiva il figlio. Quel lato di lui non l’avevo mai visto e mai avrei creduto esistesse, sebbene lo conoscessi ormai da lunghi anni. Tornava ad essere se stesso solo quando sentiva avvicinarsi l’ora di dipingere. E quando essa scoccava nel suo orologio interno, scacciava rapidamente William e gli imponeva di cercarsi qualcos’altro da fare, tornando ben presto a lavorare su quelle vecchie tele. Quel suo modo di fare, però, non faceva altro che incuriosire quel ragazzino, che gli si avvicinava di soppiatto per spiare il suo operato.
    Più e più volte l’aveva pregato d’insegnargli anche quello e, nonostante i tentennamenti iniziali, Henry aveva infine ceduto. Gli aveva mostrato come impastare i colori, come stenderli poi sulla tela per creare uno sfondo di base, spiegandogli in seguito come avrebbe dovuto impostare i soggetti da rappresentare, ottenendo però risultati tutt’altro che soddisfacenti. Erano state molte di più le tele impiastricciate da William che quelle dipinte da Henry nell’ultimo periodo.
    Ciò in cui quel nostro piccolo amico eccedeva era la musica. Se ci rifletto adesso, forse, posso comprendere fin troppo bene il motivo per cui cominciava a suonare non appena gliene si presentava l’occasione. La sua vita, fino al momento del nostro incontro, non aveva avuto altri colori se non quelli dei tasti di quello strumento. Nessuna sfumatura, nel corso dei suoi dodici anni, soltanto una vita bianca e nera. Una vita bianca e nera che fino ad allora gli era bastata e che aveva poi cominciato ad andargli stretta, non lasciando però che la passione per il piano si spegnesse a poco a poco come era accaduto per tutto il resto.
    L’avevo trovato seduto dinanzi al piano, un giorno, esattamente come quando l’avevo portato lì per la prima volta. Aveva cominciato a pigiare su quei tasti un po’ alla rinfusa e, non capendo cosa stesse facendo, al principio avevo persino temuto che potesse scordarmelo. Invece aveva in seguito iniziato a dar vita ad una melodia quasi indefinita, mai sentita fino ad allora, e non aveva smesso finché non mi aveva visto con la coda dell’occhio, spaventandosi. Quelle sue scuse frettolose mi avevano fatto sorridere. Si era strofinato gli occhi, rossi probabilmente per la mancanza di sonno o altro, ed era sceso dallo sgabello, pronto a sgattaiolare via in fretta. Io l’avevo fermato, avvicinandomi e invitandolo ad accomodarsi ancora una volta. E nel sentirlo così vicino, battito contro battito, mi aveva colto una sensazione di quiete e pace che mai, dal momento in cui ero rinato in tale forma, mi aveva avvolto. Sotto il suo sguardo incantato, avevo poi cominciato a suonare come non avevo mai fatto, probabilmente perché, in cuor mio, ero sempre stato un esibizionista ammaliatore e volevo che da quella mia esibizione ne restasse esterrefatto. Oltre ad Henry, però, fino a quel momento nessun altro aveva mai avuto il privilegio di sentirmi suonare. C’erano stati sì momenti in cui da giovane avevo intrattenuto mio padre con la cornamusa, ma quei tempi erano ormai un ricordo che andava pian piano svanendo.
    Avevo dunque trovato strano il mio aver un pubblico così giovane, da poco entrato nei primi anni della pubertà. Bastava che muovessi anche soltanto di poco le mani e lui le seguiva con lo sguardo, quasi rapito, intonando di tanto in tanto qualche bassa melodia sfruttando le vibrazioni delle corde vocali. Ne era uscita una musica senza alcun senso, in realtà, ma nessuno di noi due, quel giorno, aveva aperto bocca per farlo notare all’altro.
    Forse ciò che mi fa ancora ridere è il fatto che fosse ormai divenuto quasi un rituale per entrambi. Quando la sera ritornavo nell’appartamento mi si presentava dinanzi agli occhi sempre la stessa scena: Henry seduto sul proprio sgabello, intento a dipingere con una concentrazione tale che sembrava fuori dal mondo, e William al piano che lo intratteneva con la sua musica, come un tempo facevo io, esercitandosi persino nella Sonata in Sol maggiore [1]. Non appena si accorgevano della mia presenza si voltavano entrambi a guardarmi, e quello che era ormai diventato il mio piccolo tesoro mi sorrideva e, scendendo dallo sgabello, mi correva in contro, afferrandomi una mano per portarmi al piano lui stesso.
    Era una delle poche libertà che gli concedevo, quella. Sapevo quanto amasse sentirmi suonare, quasi più di quanto non adorasse vedere Henry dipingere. Fino a quel momento non aveva mai visto un quadro, o almeno così ci aveva raccontato. Aveva solo qualche vago ricordo di quella musica particolare che di tanto in tanto si dilettava a suonare, ma non rammentava da dove essa provenisse.
    Anche chiedergli della sua famiglia non aveva portato a nessun passo avanti. Sapeva soltanto che i suoi genitori erano entrambi morti a causa di una malattia genetica, ma non aveva idea di quanto tempo avesse passato per strada. Guardando i calli sulle sue dita si poteva pressoché dedurre che, fin da piccolo, aveva compiuto in nero qualche lavoro manuale, però era difficile capire quando avesse realmente iniziato. Molto probabilmente la figura più vicina ad un padre che aveva avuto in quegl’ultimi anni, era stato un certo Beaver, uno dei ragazzi che avevano occupato con lui la catapecchia in cui aveva vissuto fino a quel momento. Ci aveva raccontato che era stato questo Beaver a provvedere a loro, pensando lui stesso a rubare del cibo per farli mangiare. A portarlo via era stata la malattia, e lui e gli altri bambini erano rimasti nuovamente soli. Forse era anche per quel motivo che molti avevano deciso di andare al Foundling, chi poteva dirlo. Su questo punto, William non era stato mai abbastanza chiaro.
    La malattia, però, a dispetto di ciò che noi tutti avevamo creduto, non aveva risparmiato neanche lui. Quel bagliore morente, che sempre più di frequente gli vedevo negli occhi, ne era la prova tangibile. Spesso, sempre più spesso, sembrava sforzarsi nel mettere a fuoco oggetti e persone, e a nulla era servito munirlo di un paio d’occhiali. Solo in seguito scoprimmo che quel suo problema era legato ad una malattia della vista [2], ma a quel tempo non c’era alcun modo per curarla. Ai giorni nostri basterebbe intervenire chirurgicamente per sostituire il cristallino, ma, nel novecento, chi mai avrebbe potuto fare una cosa del genere? Io non conoscevo nulla di medicina, e anche sapendo almeno le basi non avrei comunque potuto far nulla per far sì che la vista di William migliorasse.
    Io ed Henry potevamo soltanto assistere impotenti all’avanzamento progressivo di quella malattia che lo privava, giorno dopo giorno, del senso visivo. Se ci fossimo realmente trovati tutti e tre in questo ventunesimo secolo, nel piccolo appartamento a St. Louis che utilizzo quelle rare volte in cui, come adesso, mi ritrovo a mettere nero su bianco le esperienza vissute in tutti quegl’anni, probabilmente il mio William non avrebbe sofferto in quel modo. Aveva perso quasi del tutto la vista all’età di diciassette anni. Compiva sforzi sempre maggiori, e nemmeno il mio decidere di portarlo in giro per il mondo era servito a qualcosa. Volevo che vedesse le bellezze delle città europee prima che non potesse più farlo, ma nonostante la felicità iniziale che gli si dipingeva in viso quando si ritrovava a vedere cose come la Chiesa di S. Mattia [3] a Budapest, la Oude Kerk [4] di Amsterdam o l’interno del Louvre [5] a Parigi e i suoi meravigliosi quadri, nulla poteva nascondere ad entrambi la realtà della situazione. Ma lui aveva affrontato quel suo destino a testa alta, senza smettere un solo istante di vivere e sorridere. 
    Se ci ripenso adesso, non l’avevo mai sentito lamentarsi. Mai una volta che avesse fatto una qualche scenata, che avesse pianto disperatamente o imprecato contro una qualsiasi invisibile presenza. Niente. Semplicemente, aveva accettato il fatto che sarebbe diventato cieco e che, con molta probabilità, la malattia che l’aveva privato dei suoi genitori avrebbe portato via anche lui. Non sapeva quando sarebbe accaduto e nemmeno gli interessava, quel che aveva fatto era stato solo continuare a godersi ogni singolo giorno o attimo che si susseguiva, uscendo sempre più spesso e volentieri e riuscendo persino a portarsi dietro Henry, che da quanto ricordassi non aveva visto la luce per anni.
    Quel pittore stravagante non era stato per niente contento della decisione di William, ma l’aveva assecondato soltanto in onore di quell’affetto che aveva cominciato a provare per lui. E in fin dei conti lo comprendevo. Avevamo visto quel bambino crescere, diventare quasi un uomo, maturare dinanzi ai nostri occhi. Ma quella spensieratezza e quell’innocenza che l’avevano sempre caratterizzato non era mai scomparsa, anzi, sembrava persino essersi rafforzata. E c’erano momenti in cui lo guardavo da lontano, mentre se ne stava semplicemente seduto sul pavimento tra fogli e scatoloni a leggere, o quando ci ritrovavamo ad uscire tutti e tre insieme per dirigersi al Victoria Park [6], dove si accomodava accanto ad Henry e l’osservava dipingere quei nuovi soggetti che richiamavano spesso l’attenzione di molti. Era rapito dal modo in cui rappresentava su tela l’enormità degli spazi verdi presenti in quel parco, o quando si concentrava sui laghetti e sulle piccole onde create a pelo d’acqua dalle folaghe. E io lo vedevo lì, seduto vicino al pittore, un esserino entrato nella nostra vita senza nessuna ragione, ma che sembrava aver portato un po’ d’equilibrio nella vita di entrambi. C’erano momenti, però, in cui metà della mia anima non riusciva a sopportare la sua vicinanza, ed era proprio in quelle occasioni che mi allontanavo per giorni e giorni da loro, cercando conforto per quel mio cuore maledetto.
    Fu proprio durante quei periodi che uccisi il primo essere umano e ne assaporai il sangue. Era stato un furfante e un uomo di poco conto, in realtà, ma il privarlo della vita innescò in me una reazione spaventosa. La bestia aveva cominciato a ribollire e a chiedere sempre di più, godendo del sapore malvagio che possedeva l’anima di quello sventurato. Ma la mia ragione, quella parte umana che era morta in quello sprazzo d’erba in mezzo al nulla delle Highland secoli prima, aveva cercato in tutti i modi di ricacciarla indietro. E non ero tornato a casa finché non ci ero realmente riuscito. Avevo passato giorni d’inferno, attimi in cui sentivo il cuore battere forte e vedevo le vene dei polsi pulsare contro la pelle sottile, ed ero sempre stato più che sicuro che, se mi fossi visto allo specchio, l’immagine che quell’oggetto avrebbe riflesso non sarebbe stata quella a cui ero sempre stato abituato. Se sono qui a raccontare tutto questo, lo devo solo alla mia forza di volontà, che mi aveva fatto ricordare chi ero stato e non cos’ero diventato.
    La paura che ciò potesse succedere ancora, però, al principio si era insinuata nel mio animo. Spesso, quando vedevo William in compagnia di Henry, dentro di me montava una rabbia così cieca che mi ci voleva tutto il mio autocontrollo per ritornare in me. A quel tempo non potevo sapere che quella sorta di gelosia era dovuta al sentimento che, nel mio essere, avevo cominciato a nutrire per William. Dirlo adesso ad alta voce non mi fa più lo stesso effetto che mi faceva durante quei giorni, ma, anche a causa della mentalità dell’epoca, per me era stato più che difficile da accettare. Non potevo credere che io potessi provare sentimenti simili per un ragazzino. E non soltanto per il semplice fatto che, in fin dei conti, ero un mostro. Lo trovavo deplorevole, immorale, oltremodo controproducente, e il solo pensare che quei miei pensieri e sentimenti potessero sporcare un’anima candida come la sua, mi mandavano letteralmente in bestia.
    Se fosse stato l’animo di qualcun altro... non mi sarei fatto problemi, lo ammetto. In fondo, che senso avrebbe avuto? Adesso che comprendo cosa sono davvero, me ne importa relativamente poco. Avrei potuto anche contaminare ogni singola anima delle persone che abitavano a Londra, ma non la sua. La sua doveva restare immutata e così era stato, fino al giorno in cui si era spento per sempre e ci aveva lasciati entrambi.
    Ricordo perfettamente quegl’ultimi anni, quei momenti in cui, durante la notte, ci sedevamo in un angolo impolverato della stanza e, con il solo ausilio d’una lampada ad olio, illuminavamo quel piccolo rifugio e cominciavamo a leggere, aiutando anche William a farlo quando la vista gli si stancava troppo. Oppure quando, mentre Henry dipingeva come suo solito, noi due occupavamo il nostro posto, dinanzi al piano, e io gli guidavo le mani sui tasti giusti finché non ne imparava le posizioni, cosicché potesse suonare liberamente pur non potendo vedere alla perfezione. Imparò ben presto ad improvvisare la Sonata anche ad occhi chiusi sebbene il risultato fosse tutt’altro che soddisfacente, visto il modo in cui suonava di solito. Eppure non per questo si perdeva d’animo, insistendo ancora e ancora finché non crollava quasi mezzo addormentato sulla tastiera. E a quel punto era Henry a metterlo a letto, augurando frettolosamente la buonanotte anche a me prima di coricarsi a sua volta. Ma io non dormivo. Io vegliavo su quel mio piccolo tesoro che dormiva placidamente, stanco ma felice. Il viso bambinesco e spettrale con cui l’avevo conosciuto aveva lasciato spazio ai futuri lineamenti d’un uomo, ma nessuno di noi tre, a quel tempo, avrebbe mai potuto sapere che non lo sarebbe mai diventato.
    A volte, quando lo sentivo parlare con Henry mentre io accordavo il piano, si ritrovava a chiedergli come mai non avesse ancora famiglia, ricevendo sempre la solita risposta. «Non fa per me», diceva Henry, e quello io non lo contestavo affatto. Come padre se l’era cavata bene, non lo negavo, ma non ce lo vedevo proprio ad occuparsi a tempo pieno d’una famiglia tutta sua. E William non insisteva oltre, fantasticando però su come sarebbe stato l’aver moglie e figli, lasciando dentro di me una bizzarra sensazione d’amarezza. Quando poi era Henry a rigirargli la domanda, chiedendogli se lui avesse voluto metter su famiglia, William rispondeva che aveva già tutto e che dunque non gli interessava. La verità era che sapeva che avrebbe solo fatto soffrire la donna che avrebbe sposato in futuro, lasciandola da sola troppo prematuramente. Era un ragazzino e già ragionava come un uomo, in alcuni momenti. Quella, però, era una cosa che mi rendeva orgoglioso di lui, e che non faceva altro che rafforzare ciò che avevo già cominciato a provare anni addietro.
    Forse quella mia convinzione fu intensificata anche da William stesso, persino oggi non saprei darmi nessuna risposta. Ma quella lontana sera la ricordo ancora, ed è tuttora il ricordo più prezioso che ho di lui. Avendo cominciato a dipingere per strada, Henry era stato subito notato da un grande stimatore d’arte dell’epoca, il cui nome in questo momento mi sfugge. Era stato dunque invitato a presenziare al sontuoso banchetto che l’uomo avrebbe tenuto nei pressi della sua residenza, lasciando me e William da soli in casa nonostante la riluttanza che l’aveva animato. Non se la sentiva di andarci, infatti, ma non perché temesse un possibile pubblico. Essendo peggiorato, William aveva cominciato a vedere unicamente le sagome di cose e persone, e la febbre che aveva contratto a causa del freddo non aveva giovato. Si era convinto solo dopo molte insistente del malato in questione, che lo aveva rassicurato come solo lui sapeva fare. C’ero io con lui, aveva detto, e ciò aveva fatto sì che Henry si decidesse.
    Ore dopo avevo controllato che William si fosse addormentato, e avevo cominciato a suonare da solo come ormai non facevo da tanto, chiudendo persino gli occhi per aiutare la concentrazione. E mi ero letteralmente estraniato dal mondo, giacché non avevo nemmeno avvertito l’arrivo di William poco tempo dopo. Non aveva fatto nessun rumore e mi si era avvicinato, restando semplicemente immobile fino a quando non mi ero reso conto della sua presenza.
    Non avevo smesso di suonare, ma avevo soltanto lanciato un’occhiata nella sua direzione prima di tornare a fissare distrattamente dinanzi a me. «Cosa stai ascoltando, mo chridhe [7]?» gli avevo chiesto in tono scherzoso, avendo intravisto nei suoi occhi ormai opachi un baluginio di serenità. E lui, socchiudendo le palpebre e sorridendomi, mi si era avvicinato per prendere posto al mio fianco, stando attento ad ogni singolo passo che faceva.
    «La tua musica», aveva sussurrato poi. «
È allegra e vivace, ma fra le note nasconde anche tristezza e malinconia».
    Quelle sue deduzioni mi avevano fatto sorridere a mia volta, a dir poco compiaciuto. «
È una vecchia canzone del mio paese natale», gli avevo confessato. «Fino a questo momento, non l’avevo mai suonata con uno strumento del genere».
    «È bella», una constatazione semplice e chiara, pura e cristallina come l’acqua d’un ruscello delle Highland. «Mi piacerebbe vedere la tua casa, un giorno». Ma sapevamo entrambi che quel suo desiderio non si sarebbe mai realizzato. Anche se l’avessi portato in Scozia, quella Scozia che non visitavo da secoli, lui non sarebbe mai riuscito a vederne le bellezze, ad accarezzare con gli occhi le brughiere e le lowlands.
    «Ti ci porterò, mo gille». Quelle erano false speranze, lo sapevamo bene, ma avevo lo stesso continuato a parlare. «Ti sveglierai tutte le mattine con il canto della pernice bianca, che si poserà sul davanzale della tua finestra; verrai accarezzato dal piacevole vento che si innalza dalle brughiere, sentendone la frescura sulla pelle, e vedrai quegli stessi luoghi sprizzare vita e colori, uno spettacolo che lascia senza fiato ogni nuova estate; ci dirigeremo sui gran piani, lungo la costa occidentale dove ogni zona pullula di rododendri e azalee, e ti mostrerò le macchie di felci e i cespugli di ginestre, spiegandoti le loro proprietà; ti porterò nei boschi, così che tu possa osservare i pini e i larici più alti e robusti che tu abbia mai visto, e andremo a caccia di lepri e volpi, di cervi rossi e di galli cedroni, e ti farò sentire il buon profumo degl’iris selvatici. I miei occhi saranno i tuoi occhi, e assaporerai quella libertà che solo nelle Highland è possibile trovare».
    Gli avevo visto spuntare un nuovo luminoso sorriso sulle labbra, a quelle mie parole, e nonostante l’espressione sul suo viso fosse apparsa triste e spaesata, era stato con quello stesso sorriso che si era voltato a guardarmi con quei suoi occhi ormai privi di luce.
    «Fammi innamorare di questo tuo mondo, Seumas», mi aveva proposto, pronunciando il mio nome per la prima volta e con voce ferma e melodiosa. «Fammi innamorare del tuo mondo, della tua casa, di tutte quelle bellezze a cui hai appena accennato. Fammi innamorare della tua musica».
    Fammi innamorare della tua musica. Quali pretenziose parole. Ma erano state proprio quelle a farmi capire quale fosse stato, tempo addietro, il sentimento che mi aveva spinto a tenerlo con me anziché cacciarlo. Probabilmente, però, se l’avessi fatto, non avrei sofferto in quel modo non appena ci lasciò.
    Si era spento del tutto a soli diciannove anni. Aveva tenuto duro finché aveva potuto, continuando a dar vita a quella musica assurda e geniale che era stata la sua vita fino a quel momento, ballando su di essa quel che restava dei suoi anni e assaporando la felicità fin dove gli era stato concesso. Ma era soltanto un essere umano, e il suo orologio interno si era fermato del tutto. Non avevo fatto nemmeno in tempo a realizzare quel suo ultimo desiderio, quello di portarlo nella mia bella e amata Scozia. In un primo momento non ero quasi riuscito a crederci, in realtà. Sembrava che mi rifiutassi di assimilare quella notizia, quell’avvenimento che aveva accartocciato il nostro piccolo e idilliaco mondo.
    Se io non avevo accettato il concetto della sua morte, Henry era stato letteralmente distrutto dal dolore. Aveva cresciuto quel ragazzo come un figlio, accudendolo nei lunghi mesi in cui io partivo per i miei viaggi, e il rendersi conto che ormai non c’era più aveva intaccato quel poco equilibrio mentale che gli era rimasto. Il dolore l’aveva reso folle, e non passarono molti anni prima che, forse stanco di vivere con quella pazzia in corpo - che non gli permetteva neanche più d’esprimere la sua arte, la sola cosa che avesse mai fatto -, si togliesse la vita. Ed io, nuovamente solo, non ero riuscito a restare un attimo di più in quell’appartamento pregno di ricordi.
    Avevo solo voluto provare a dimenticare, in seguito. Quando nella mia mente tornavano a riaffacciarsi prepotentemente quei momenti vissuti come un comune essere umano, la metà più debole della mia anima cadeva in pezzi. In realtà parecchie cose le ho volutamente dimenticate per non soffrire, anche se ammetto che questa è una cosa che è servita a ben poco. I ricordi più dolorosi e tristi sono rimasti, proprio come quello legato al mio ritorno a casa, ad esempio. Non avevo dimenticato neanche per un istante la promessa che avevo fatto al mio William. Prima che il destino ce lo strappasse così violentemente via, rubando quell’anima che con tanta fatica avevo coltivato negli anni, gli avevo promesso che l’avrei portato alla mia casa, in Scozia. E anche se così non era stato, ero comunque partito dopo secoli di lontananza per tener fede a quel patto.
    La sensazione che provai nel rivederla è tuttora impossibile da definire. Nonostante fosse passato tutto quel tempo, erano ben poche le cose che erano cambiate davvero: volgendo lo sguardo a quel cielo azzurro che sovrastava le Highland, avvolte nella quiete come secoli or soro, si potevano vedere le pernici e gli altri uccelli che si libravano liberi in volo, sempre più su fra quelle nuvole soffici e bianche mentre si lasciavano andare ai loro canti e stridii; bastava poi abbassare le palpebre e, figurandosi quelle meravigliose lande nella mente, respirare a fondo per sentire i mille odori della brughiera, e udire i richiami degli animali che popolavano i dintorni. Uno spettacolo magico che mai avrei pensato di rivedere ancora, e che avrei tanto desiderato poter vedere con lui, con William, il pallido fantasma da cui ero stato ammaliato.
    «Siamo a casa, mo chridhe», avevo sussurrato al vento, sentendolo carezzarmi le guance con dita leggere e delicate velate di tristezza. «Siamo a casa». E da quel momento in poi, seppur separati dal tempo e dalla morte, lo saremmo stati davvero.


 
 
 
DÈ A THA THU A’ CLUINNTINN, MO CHRIDHE?
FINE






[1] Venne composta tra l’estate e l’autunno del 1774, e fa parte delle sei sonate per pianoforte che Mozart scrisse.
Come quella in Re maggiore, anch’essa si suddivide in tre tempi.
 
[2] La malattia a cui si fa riferimento è la cataratta. Consiste nell’opacizzazione del cristallino, che conduce alla progressiva perdita della vista. È più frequente con l’avanzare dell’età, ma ci sono anche casi di cataratta in età più giovane.
I sintomi sono generalmente caratterizzati da un offuscamento visivo globale, ma il disturbo della vista è tanto più evidente quanto più estesa e più intensa è l’opacizzazione del cristallino.
La cataratta totale rende praticamente ciechi ed è necessario intervenire chirurgicamente, sostituendo il cristallino opacizzato con una lente artificiale intra-oculare, posizionata dietro all’iride. In passato erano stati commercializzati colliri destinati a rallentare il processo di opacizzazione del cristallino, ma tali prodotti nel tempo non hanno dimostrato una reale efficacia clinica.
 
[3] Si erge sulla piazza della Santissima Trinità, e nonostante si chiamata con il nome dell’apostolo Mattia, l’edificio è dedicato alla Madonna.
Fu costruita tra il 1255 e il 1269 per la volontà del re Béla IV d’Ungheria. Nel 1541 venne trasformata in una moschea dai turchi, per poi passare ai gesuiti. Nel 1873 e il 1896 fu oggetto di restauri da parte dell’architetto Frigyes Schulek, che la ricostruì parzialmente in stile neogotico.
E’ uno degli edifici più interessanti della città di Budapest e patrimonio artistico e turistico della città.

[4] In olandese significa “Vecchia chiesa”, ed è l’edificio parrocchiale più vecchio di Amsterdam.
Fu consacrata nel 1306 dal vescovo di Utrecht, e le sue fondamenta vennero gettate su un cumulo artificiale, ritenuto il terreno più solido in quella provincia paludosa.
Il disegno originale dell’edificio era audace e la chiesa era in piedi da solo mezzo secolo quando vennero fatte le prime modifiche, le navate laterali vennero allungate e avvolte attorno al coro a semicerchio, così da sostenerne la struttura.
Non molto dopo l’inizio del XV secolo alla chiesa vennero aggiunti i transetti nord e sud, creando la pianta a croce. Il lavoro su questi rinnovamenti venne completato nel 1460, anche se è probabile che l’avanzamento venne interrotto dai grandi incendi che colpirono la città nel 1421 e nel 1452.
 
[5] È uno dei più celebri musei del mondo, e come se non bastasse la vera origine del termine Louvre è dibattuta.
Il palazzo che ospita il museo fu originariamente costruito durante la dinastia dei Capetingi, sotto il regno di Filippo II, e attualmente la collezione del museo comprende alcune delle più famose opere d’arte del mondo, come la “Gioconda” e la “Vergine delle Rocce” di Leonardo da Vinci, “Il giuramento degli Orazi” di Jacques Louis David, “La Libertà che guida il popolo” di Eugène Delacroix, la “Venere di Milo” e la “Nike” di Samotracia.
 
[6] Situato nella zona dell’East End, è uno dei parchi comunali della città di Londra.
Il parco fu aperto al pubblico nel 1845. Questo grande parco è simile a Regent’s Park ed è considerato da alcuni come il miglior parco dell’East End. È attraversato su due lati da canali: il Regent's Canal e l’Hertford Union Canal.
In esso sono rimasti pezzi del vecchio London Bridge, demolito nel 1831, posti accanto all’Hackney Wick, monumento celebrativo della Seconda guerra mondiale.

[7] Letteralmente significa “Cuore mio” ed è gaelico scozzese. Si tratta inoltre di un ovvio richiamo al titolo che fa da completo perno al racconto.





_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa storia ha partecipato al contest indetto da Ale2 e ThePhantomAgony, Citazioni di Alessandro Baricco, e si è stranamente classificata prima. Viene quasi da chiedersi come diavolo sia venuta fuori una roba del genere, in verità. Ebbene, non ne ho la più pallida idea nemmeno io, se devo essere sincera.
Potrei dire che quando ho letto la frase che ho scelto e che ho seminato un po’ ovunque nella storia, tipo in questo passaggio “La sua vita, fino al momento del nostro incontro, non aveva avuto altri colori se non quelli dei tasti di quello strumento. [...] come era accaduto per tutto il resto” o in questo “Aveva tenuto duro finché aveva potuto, continuando a dar vita a quella musica assurda e geniale [...] assaporando la felicità fin dove gli era stato concesso”, ho avuto una sorta di visione, ma sarebbe quasi come mentire. Non lo so affatto come questa storia sia stata stesa. Diciamo più che altro che quando ho aperto il foglio Word, le parole sono scivolate da sole e hanno preso vita propria, sarebbe di sicuro la versione più giusta. Riserva in sé un pizzico di me - come ogni mia storia, ma questa ne ha un po' di più -, e devo dire di essermi particolarmente affezionata a tutto il background.
Ammettiamolo: non tutti i personaggi mostrati sembrano sani di mente... specialmente il protagonista principale, che non si capisce esattamente cosa sia. Avevo in mente una spiegazione abbastanza illogica per spiegare la sua natura, dunque ho voluto giocare più sulle spiegazioni avvenute nelle note anziché tentare di darne una piuttosto incoerente io. Possiamo piuttosto prenderlo come una sorta di cadavere posseduto da un demone, e dunque ancora in grado di muoversi, o come un hanyou. Per fare un esempio, basti pensare a come sia nato Naraku di Inuyasha, sebbene a quei tempi si pensasse che la possessione demoniaca non fosse rara.
Avrei voluto dare una spiegazione migliore, ma non c’è un vero e proprio modo per spiegare la nascita contorta di questo protagonista, di cui viene rivelato il nome soltanto verso la fine della storia. Se ci si fa caso, però, viene vagamente accennata la sua natura, precisamente in questo pezzo “Ma d’altra parte sembravo attendere proprio il momento in cui quella sua vita si sarebbe spenta, consumandosi a poco a poco come la cera d’una candela. Era come se aspettassi pazientemente qualcosa, senza riuscire ancora a comprenderne il motivo. [...] Quelli erano attimi in cui qualcosa, dentro di lui, fremeva, premeva insistentemente per poter uscire, e io ero lì ad osservare, pronto a ghermirla non appena si fosse liberata”. Nella mia mente contorta, mentre procedevo con la stesura, mi aveva in qualche modo ricordato quando Sebastian di Kuroshitsuji attende di gustare l’anima di Ciel. Dunque, per l’appunto, può essere considerato una sorta di demone.
Spero che in un qualche contorto modo vi sia piaciuta, vi lascio al commento della giudice:


GIUDIZIO
Grammatica, sintassi e stile: Credo mi troverai estremamente breve nei miei commenti, ma come dire, mi hai preso talmente tanto che non riuscirei ad essere prolissa nemmeno volendolo.
Non ho trovato errori, la storia è scorrevole, forse soltanto la lunghezza dopo un po’ può stancare il lettore, ma letta in capitoli separati e non tutta in una volta, credo dia tutt’altro effetto. Non so commentare, mi è sembrato tutto molto appropriato, dalla scelta del lessico, ai tempi che hai voluto dare alla vicenda. Forse l’unico appunto, da farmi meritare un ‘senti chi parla’ è l’uso delle virgole, che in qualche caso mi sembrava errato, ma essendo anche io confusa su questo tema non mi sento di farlo valere come errore.
Voto: 9,5

Originalità: Qui potrei scrivere un tema, ma non lo farò, tutta la fan fiction per me è originale, dai personaggi, alle interazioni che hai creato tra di loro, dall’attenzione incredibile che hai dato a tutti i riferimenti che hai messo, all’atmosfera forse un po’ gotica del tutto, alla vicenda stessa. Non riesco a commentare con parole più positive, anche la relazione che hai fatto instaurare tra i due protagonisti, così velata, è decisamente perfetta.
Voto: 9

Personaggi: Adorati tutti dal primo all’ultimo. Dal protagonista ed il suo cambiamento in una soprannaturalità che non conosce ma che è costretto a vivere, al pittore in cerca d’ispirazione che poi con il piccolo William finisce per diventare paterno e si lascia coinvolgere in una maniera inaspettata e totalizzante. E poi William, mi ha davvero coinvolto in una maniera inaspettata, è semplice ed ingenuo come vuole la sua età, però riesce a capire cose che nemmeno i due improvvisati genitori capiscono, soprattutto direi ‘ti strappa l’amore dal cuore’. Un’originale è terribile quando si tratta di caratterizzare personaggi, perché non si ha mai la certezza di quello che il lettore percepirà, io dico che è stato un lavoro che ha fatto entrare i tuoi personaggi dritti nella mia testa.
Voto: 9,5

Uso della citazione: Ammetto che su questo campo ho dovuto rileggere la fan fiction ed i tuoi commenti più volte per riuscire a capire come l’avevi inserita. Poi ho avuto l’illuminazione e devo dire che è stato un modo molto elegante per inserire una citazione estremamente complessa.
Anche qui mi ritrovo a parlare poco, forse avrei enfatizzato ancora di più i passaggi in cui risulta chiara l’ispirazione dovuta alla frase scelta, ma è un commento personale, quindi assolutamente da prendere come un’annotazione.
Voto: 8,5

Totale: 36, 5




Spero alla prossima ♥
_My Pride_



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