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Autore: Silvar tales    21/04/2011    4 recensioni
«Dì la verità, ho fatto schifo», domandò al suo pseudo-stalker, che si era accomodato su quella rigida sedia di plastica come se si trovasse in spiaggia.
Assieme al sapore dell'aria primaverile, assieme al retrogusto della polvere del teatro, della vernice delle scenografie e dei fiori che riceveva in camerino, poteva convincersi di... ma sì.
Salire su un altro treno.
Sasori rise cristallino, mettendo in mostra la sua bianca fila di denti regolari.
«Sì, hai fatto proprio schifo».
Una ventata gli mosse i capelli setosi, e il salice piangente sfoggiò un ultimo inchino all'artista.

[Settima classificata al contest "Wicked and...lovely, incantevole e pericoloso (Seconda edizione)" indetto da The forgotten dreamer]
[Partecipante alla challenge "Le situazioni di lui & lei" indetta da Starhunter] [#9 luogo: teatro]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Akasuna no Sasori, Deidara | Coppie: Sasori/Deidara
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
- Questa storia fa parte della serie 'Sasori & Deidara - The Great Revival'
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Siviglia
[
#9 luogo: teatro]


“Deidara, sei in ritardo”.
“Sì, lo so” rispose noncurante il ragazzo incravattato, avanzando con un sorriso beffardo nel corridoio artisti. Un altro uomo gli urlò dietro, scocciato: “devi cambiarti! Vai in scena tra venti minuti” “hai preparato la voce?” Un altro viso femminile gli soffiò in faccia questo sbrigato interrogativo, mentre lui continuava a scavalcare con aria di sfida chiunque gli si parava davanti. “Posso spaccare i lampadari, cazzo!” Esclamò brillante il ritardatario, girandosi indietro per un momento e rivolgendo un gesto di stizza ai suoi assillanti. Si infilò poi nel camerino più spazioso, evitando le lamentele dei dirigenti. In piedi davanti allo specchio a parete, iniziò frenetico a sbottonarsi la camicia e i pantaloni eleganti. Appoggiati sul portabiti, a fianco del tavolo dei trucchi, c'erano quegli attillati costumi di scena che lo stringevano odiosamente in vita e sulle caviglie. Prima di indossarli si tolse l'intimo, per il puro piacere di ammirarsi nello specchio. Ormai lo faceva sempre, prima dell'inizio di uno spettacolo, quasi fosse un rito per ricordarsi di quanto lui fosse sfrontato e privo di paure. In effetti, in una civiltà così corporea, se la materia prima andava alla grande, tutto diventava possibile. E la sua andava meravigliosamente.
Gli piaceva pensare della vita come una giungla, e di lui come un eroe grintoso di altre epoche che sapeva benissimo il mezzo con cui farsi strada e vincere: la sua voce, i suoi occhi blu, e il suo carattere sfacciato.
Si annodò i capelli in una coda a ciuffo dietro la nuca, poi infilò tutte le componenti del vestiario, facendo attenzione a non dimenticarne nessuna. Aveva i secondi contati. “Deidara, Deidara!” Una mano bussò energicamente alla porta, facendo sobbalzare il ragazzo nella sua perfetta procedura. “Sì arrivo, Rosina...” Ribatté alterato, aprendo la porta e cincischiando una guancia della giovane che l'aveva chiamato. “Sei già pronta, che brava...”
“Idiota, muoviti ad andare in scena, e allacciati quel nastro”. Deidara le rivolse allora il solito suo sorriso beffardo, e in tutta risposta fece un giro su se stesso, porgendo la propria schiena alla ragazza. “Allacciamelo te, tesoro” disse sfacciato. Lei eseguì, sbuffando, poi lo spinse senza troppi convenevoli verso le scale che portavano sul palcoscenico.

La sua entrata era annunciata da quella frizzante apertura di violini, la musica di quel pezzo era pimpante e furba al punto giusto, e descriveva in modo perfetto il personaggio che interpretava. Prima di entrare in scena a pieno petto, e prima di cominciare ad incassare aria nei polmoni, Deidara azzardò un'occhiata sul pubblico che stava aspettando di vederlo comparire e cantare, già trepidante di vedere l'interpretazione di quella parte più amata e conosciuta.
Pochi secondi ancora lo separavano dalla sua entrata.
Ancora poche manciate di lodevoli note, ta-ta, ti-ta, ed ecco.
La parte di buttarsi in scena era arrivata. Colse il punto con l'orecchio allenato sia dall'esperienza che dalle abitudini acquisite con le innumerevoli prove, e mosse il piede per cominciare quella camminata decisa che lo presentava agli spettatori.
Il teatro era pieno, la gente era ordinatamente distribuita nei palchetti, nella platea e nelle file del loggione. Anche nei posti più svantaggiosi e inutili. Le luci puntate contro viso gli davano sempre quella piacevole ed eccitante sensazione di straniamento, e con la familiare bolla nello stomaco poteva iniziare a stupire con la voce.

“Largo al factotum della città, largo!”




*




Stringeva ancora trepidante quel pezzo di carta stropicciata, timbrata con la data corrente e colorata dell'icona blu del teatro. Un altro costosissimo biglietto di platea. Non riusciva ancora a credere di averlo fatto di nuovo. Ormai era più a teatro che da qualsiasi altra parte, e non solo seguiva le rappresentazioni della sua città, ma anche quelle di altre, lontane o vicine che fossero. E questo lo portava a spendere immancabilmente un patrimonio, insostenibile per le magre finanze di un semplice studente universitario squattrinato come lui. E tutto per cosa? Per vedere lui cantare.
Trattenne il fiato nei pezzi salienti. Ogni onda di quella musica imponente e leggera si portava dietro le mille espressioni del suo viso, che cercavano disperatamente di mascherare lo sforzo che compivano le sue corde vocali. Ma lui era bravo, giovane e bravo, anche se proprio per la sua giovinezza era stato relegato alla categoria limite delle stelle nascenti, e per il momento non poteva pretendere di sfondare nella sua carriera ma doveva solo aspettare e sperare di venire adocchiato da qualche troupe di rilievo.
L'esecuzione del giovane baritono si concluse sotto scroscianti applausi, martellanti sulla schiena piegata del suo elegante inchino. Quella celebre cavatina era stata accolta, come sempre, con grande entusiasmo da parte del pubblico. Le mani dello spettatore si mossero autonomamente, cercando di esprimere in quei due battiti almeno una parte di tutta l'ammirazione che provava per l'uomo sul palco.

L'opera scivolò, atto dopo atto, e il sipario venne calato su quel magro tempo in cui vivono i personaggi e i miti parlanti. Era inutile dire a se stesso Rossini è un grande, o la lirica è immortale, o altre ipocrisie del genere. Lui non era neppure un gran intenditore, o un gran appassionato.
E allora apparentemente non c'era nulla che giustificasse quell'emozione che lo pervadeva mentre applaudiva a fine spettacolo, e si lasciava invadere dal riassunto di tutti quegli impulsi onirici e raffinati, dettati dalla musica, dalla scena, dalla voce dei cantanti.
Dalle vecchie signore alle giovani in vestito da sera, dagli anziani magnati ai ragazzi scapestrati come lui. Le voci che provenivano da pulpiti diversi sembravano emesse dalla medesima gola: il buco nero della critica si tramutava in onore.
“Il solito colosso che sfonda...”
E quanti, quanti davano del carino e del bravo e del migliore a lui. Lui che aveva dominato l'intera scena per tutti i due lunghi atti, tenendo testa a uno dei pubblici più temuti per la sua pignoleria, fatto di baluardi melomani più morti che vivi. Era quasi geloso.

Avanzò di passo incerto tra la folla che si avviava all'uscita, tra quella moltitudine di megere esageratamente profumate che ingombravano il passaggio con i loro goffi movimenti, nel tentativo di infilarsi i cappotti di pelliccia. “Mi scusi...” Mormorava educato facendosi strada tra la gente, con un sorriso ebete ancora stampato in volto, incollandosi addosso molti sguardi femminili non abituati a vedere un giovanotto spettinato e vispo come lui tra i consueti frequentatori del teatro. Teneva ancora stretto in mano il libretto del Barbiere di Siviglia, ormai stropicciato e strappato in più punti.
Per poco non dimenticò la giacca che aveva depositato nel guardaroba, tant'era sovrappensiero. Solo quando sentì la fresca aria notturna sferzagli la guancia si risvegliò un poco dal suo stato di torpore; l'aria era umida, e una pioggia impalpabile cadeva su quella sporca città. Tuttavia non era munito di ombrello, quindi si limitò a stringersi nella giacca, noncurante. Affrettò il passo, dando un'occhiata ansiosa all'orario: mezzanotte e mezza.
Doveva spicciarsi, se non voleva rischiare anche stavolta di perdere il treno. Attraversò il viale con ritmo spedito, per poi fermarsi al primo semaforo, attendendo il verde pedonale. Tutto sommato la gente in giro per le vie non era poca, nonostante il brutto tempo e l'ora tarda di un venerdì.
“Scusa...” inaspettato, sentì un tocco sulla spalla destra che lo fece sobbalzare. Subito pensò a un borseggiatore, a un drogato, ma decisamente era troppo ansioso.
Si voltò di scatto, sentendo il cuore in gola per essere stato colto alla sprovvista.
Un uomo, il cui viso era parzialmente coperto dall'ombrello, gli stava porgendo il libretto d'opera ormai illeggibile, con le pagine attaccate e l'inchiostro sbavato.
“Ti è caduto questo”.
Il ragazzo lo prese, titubante, alzando poi lo sguardo sul viso dell'altro.
Quella fu una delle poche volte in cui sentì il cervello fracassare il moto dei suoi neuroni con tanta violenza: capelli biondo sporco, portamento e sorriso aristocratici, occhi blu.
Brillavano persino al buio.
“S-sei Iwa?”
Domanda retorica, chiaramente era lui.
Il giovane gli sorrise di rimando, invitandolo inspiegabilmente a ripararsi sotto al suo ombrello. “Stasera sono il Barbiere di Siviglia, ma puoi sempre chiamarmi Deidara”.
Possibile che fosse lui? E perché parlargli?
Cos'aveva in mente?
“Senti accompagnami in teatro, ho dimenticato una cosa...” Continuò il cantante, notando perplesso che l'altro non dava segni di vita. L'uomo fece allora marcia indietro con fare risoluto, tornando sui suoi passi.
“Ehi, aspetta... Io devo prendere il treno!”
Lo disse tutto d'un fiato, rendendosi conto solo in quel momento che la creatura con cui per un anno aveva agognato anche solo scambiare un mezzo sguardo, gli stava voltando le spalle dopo avergli rivolto la parola.
L'aristocratico sbuffò, ignorando il ragazzo.
“Che problema c'è? Ti porto a casa io. Senti mi dici come ti chiami, ti va?”
Deidara, esisteva davvero. Non era solo una creatura della dimensione melodrammatica.
“Eh? Ehm... Sasori” rispose l'interpellato, abbassando lo sguardo, rosso in viso. L'altro rise, forse divertito dal suo comportamento. 
“Devi essere un grande appassionato di opera lirica tu, no?”
“Certo...”
Come no.


*




Deidara sbuffò, appoggiando la sua borsa sulla sedia del camerino.
“Accidenti, non c'è...” Constatò guardandosi intorno. Sasori era concentrato più sulla sua immagine che sulle sue parole. Continuava a fare associazioni di idee sempre meno propizie, il che cominciava leggermente a preoccuparlo. E poi naturalmente continuava a chiedersi del come e del quando e del perché lui, misero spettatore e topo da loggione infiltrato della platea, si trovasse nel camerino di Deidara Iwa. Forse aveva assistito a troppa lirica senza gradirla mai troppo, ed ora si trovava catapultato in una di quelle commedie. La legge del contrappasso, sì... Gli sembrava di ricordare dai tempi della scuola che un certo signore avesse parlato di qualcosa del genere.
“Bene, se non sbaglio tu sei sempre alle mie rappresentazioni...” Continuò il cantante biondo con un tono strascicato, dissimile in tutto e per tutto dalla voce del baritono che conosceva. “Sì non sbagli” rispose semplicemente Sasori, con un'alzata di spalle. “Come mai...” Continuò Deidara, fintamente impegnato a sbottonarsi la giacca “...ti vedo sempre in prima fila, e non mi sembri neanche uno di quei fossili da bacheca? I ragazzi come te non dovrebbero frequentare i pub, o le discoteche?” Sasori stavolta ascoltò incredulo quelle parole, cominciando a sentire un certo moto di antipatia per quell'uomo, un odioso senso che andava a demolire di un filo quella trama perfetta con cui l'aveva sempre disegnato. “E questo cosa c'entra scusa...” “Vuoi fare sesso con me?”
Sputò queste parole a bruciapelo, sparandole una dietro l'altra.
Sasori non disse niente, semplicemente ascoltò, ricevendo ogni sillaba nel suo cervello.
E il cervello gli rimandava indietro questo chiaro messaggio: mi sta prendendo per il culo.
“Come scusa?” Deidara uscì dal camerino, lasciando la sua giacca sul portabiti. “Seguimi”, disse, e Sasori assurdamente obbedì. Una richiesta del genere era l'input che gli serviva per dargli coscienza di poter fare qualsiasi cosa. Il primo passo, il più difficile, l'aveva già portato avanti lui, con il suo leggendario menefreghismo. Ora non c'era niente che gli passasse per la testa che non fosse lecito. “Sì Deidara...” Lo afferrò per un braccio, interrompendo la sua salita lungo le scale di marmo, immerse nel buio. Lo spinse contro la parete elegante, rivestita di un raffinato tessuto porpora, e lo baciò senza nessuna esitazione che gli fosse d'intralcio. Sentiva la familiare libidine percorrergli tutta la lunghezza della spina dorsale, donandogli un piacevole tremito. L'erezione gli rendeva i pantaloni ancora più stretti di quello che erano, e sentiva attraverso quei pochi strati di tessuto che li separavano che anche Deidara era eccitato.
Cosa sto facendo?
Mosso da quel puro istinto che ormai dettava legge, spinse il proprio bacino contro i fianchi del ragazzo biondo, simulando un rapporto sessuale, perdendo ancora di più il controllo. Deidara gli toccò la fronte, piegandogli senza troppa grazia il collo all'indietro.
“Non qui...” Sussurrò in un attimo, accarezzando la guancia bollente dell'altro con la propria voce fredda. Il cantante lo prese per mano, continuando a baciarlo, non volendosi privare di quel calore appena conquistato. Gli prendeva le dita, con una mano, e l'altra gliela premeva con forza dietro la schiena, saggiando la consistenza dei muscoli sotto la giacca e la camicia.
Quale parte del non si fa sesso con i propri fan non gli era più chiara?
Aprì alla cieca la porta avorio di un palchetto, spingendoci dentro il suo occasionale amante.
Lo adagiò senza troppi riguardi su una nobile panca ricamata, per poi porsi sopra di lui.
Sasori si alzò un poco sui gomiti, raggiungendo la sua lingua, nel mentre che le mani dell'altro gli sbottonavano la camicia e slacciavano la cerniera dei propri pantaloni.
Deidara ghignava, osservando il ragazzo bloccato sotto di sé, e notando piacevolmente di quanto lui riuscisse a sottomettere con tanta facilità uomini e donne di ogni sorta.
“Tu non sei Figaro. Ti si addice di più il ruolo del...”


*




“Tu non sei Figaro”.
Era l'unica frase che si ricordava di quella sera, in cui si era ritrovato a fare del sesso su un palco, all'una di notte, con un perfetto sconosciuto. Come se non bastasse quella mattina si era svegliato con una delle peggiori emicranie che avesse mai incontrato. Era adagiato comodamente sulla poltrona del suo ricco salotto, con una tazza di tè in una mano e il copione nell'altra.
Il Don Giovanni.
Lo fissava senza impararlo, anche se quella probabilmente era la decima volta che lo leggeva.
I pezzi non erano banali, i passaggi di voce e le parti di recitazione anche.
Diavolo, quella non poteva essere la terza volta di fila che sbagliava una battuta!
Leggeva, imparava, scorreva parole su parole, cantate su cantate, e tutto gli entrava nel cervello per poi disperdersi al momento di ripeterlo con la voce.
E così arrivava a fine giornata senza aver concluso niente, senza aver fatto niente, ma con la mente affaticata.
Intorno alle dieci, dopo aver consumato una frugale cena che si era fatto consegnare a domicilio, spense la televisione liberando i suoi occhi affaticati dal peso luminoso dello schermo. Aveva bisogno di dormire, di mettersi sotto le sue eleganti coperte e pensare.
La notte porta consiglio.
Lui era Figaro, lo spettacolo di due giorni prima era stato perfetto. Lui era stato perfetto
Eppure c'era un problema. Qualcosa di presente, ma che non riusciva ad afferrare e a toccare con mano.
Appoggiò un palmo sulla propria fronte, per sentirla gelida e leggermente bagnata.
Forse aveva la febbre.
Lui era stato Figaro, il più perfetto di tutti. Esattamente l'idealizzazione che il compositore aveva creato nella sua testa.
Lui era il suo personaggio.
I rintocchi dell'orologio scansionavano il tempo notturno. I movimenti del felino e dei rettili nel terrario animavano l'atmosfera di un selvaggio brulicare.
I suoi pensieri cominciavano a divagare, entravano nella prima fase del sonno.
No.
Lo era stato, fino all'ultimo applauso dell'ultima rappresentazione.
E ora? Cos'era successo?
Riusciva a ricordare solo un confuso groviglio di carne, di bocche gambe e dita aggrovigliate, di sudore, di sangue e sperma, di un corpo anonimo. Di lui che cessava di essere la voce del factotum.
Portò una mano a stimolare l'erezione, immergendo le immagini del cervello in un sogno.
Riusciva a ricordare l'immenso piacere di possedere quel corpo, minuto e puerile. Ricordava la sensazione erotica e proibita di trovarsi in un posto come quello, in un balconcino affacciato sulla sua vita. Si toccò più decisamente, curvando le labbra in un magro sorriso, in una smorfia.
“Ah...” le sensazioni traspiravano attraverso la sua pelle bagnata.
Non era mai caduto così in basso, non aveva mai elemosinato questi attimi di libidine né dal suo corpo né dal corpo degli altri. Ora ne era dipendente.
Si girò su un fianco, abbassandosi i boxer per sentire la pelle bollente a contatto con la stoffa fresca del lenzuolo. Ancora più inebriante.
Saranno stati i capelli rosso scuro, il viso da donna, il fatto che era un maschio. 
Pochi tocchi ancora, per sentire il brivido familiare percorrergli tutto il corpo, estendendosi dal basso ventre.
L'oro e la porpora che rivestivano le pareti del teatro si mischiavano nel campo visivo dei suoi pensieri, i capitelli e gli angeli che li sormontavano, la pesante tenda rossa del palcoscenico, e le scenografie settecentesche. Tenne gli occhi chiusi, ritirò la mano, ascoltò per qualche attimo il respiro affaticato e il movimento frenetico del sangue. Tutto era stato così estraniante.

Tu non sei Figaro.

Ora era umano, era cibo per la carne e carne per il sesso.
Non poteva diventare il Don Giovanni.
Il sonno lo coglieva, sollevando finalmente la sua sensazione di affaticamento, nel mentre che il suo personaggio si smarriva.


*




Era seduto su una sedia traballante nell'anticamera del palcoscenico, con le gambe tremanti, la testa afferrata convulsamente dalle mani torturatrici, circondato dagli attori, dagli altri cantanti, dai produttori e dallo scenografo. Ognuno faceva la sua parte nell'ucciderlo, poco alla volta, con pugnalate sottocutanee e punte di frecce.
“Ti consiglio di chiudere...” volavano parolacce, imprecazioni, insulti.
“Don Giovanni è un conquistatore, un libertino, un rubacuori d'altre epoche. Non è un...”
“Metà degli incassi sono stati ottenuti perché la gente voleva sentire te cantare!”
“E non voleva vederti muovere come uno stupratore, soprattutto”
“Basta, basta, basta!” Gli occhi rossi e gonfi gli alteravano il bel viso. I capelli prima perfetti erano in disordine, mossi dalle sue mani che continuamente li tormentavano. Le lacrime tramutavano in singulti la sua voce chiara, scendevano incontrollabili di fianco al naso e bagnavano i fogli del copione appoggiati sul tavolino.

Poteva dire addio alla Scala.

L'accidentale sostituto si vestiva in fretta e furia, stressato dal registra che sbuffava peggio di una caffettiera e lanciava bestemmie. Nel frattempo una maschera si scusava con il pubblico per l'interruzione, avanzando dei problemi tecnici come giustificazione improvvisata. E Deidara piangeva peggio di un infante di quattro anni, riverso su quell'instabile tavolino di alluminio.
Vedeva la sua carriera andare in fumo, il suo mondo lirico sgretolarsi, il pavimento legnoso e rimbombante del parco aprirglisi sotto i piedi.

Aveva sbagliato tutto.

Intonazione di voce, movimenti, gesti, entrate in scena, persino alcune battute. E il suggeritore esasperato lo guardava come volesse squartarlo, battendo arrabbiato con la penna il foglio che non riusciva a leggere.

Perché, perché, perché?

Perché non era riuscito ad essere il suo personaggio? Perché stavolta non aveva compiuto la sua strabiliante metamorfosi?
Si era alzato, aveva urlato e sbraitato contro tutti. I toni si erano alzati vertiginosamente, era arrivato a lanciare offese pesanti a chiunque gli capitasse a tiro. In risposta aveva ricevuto affronti ancor più disonorevoli. Aveva perso il controllo, era arrivato ad alzare le mani sul più irruente. Solo la freddezza di una maschera che era intervenuta aveva fatto calmare il giovane baritono.
“Ora basta ragazzino, se non vuoi beccarti una denuncia”.
Deidara aveva mandato tutti a quel paese, aveva preso la sua borsa e se n'era uscito, dimenticando di asciugarsi il viso.
Si era seduto sulla prima panchina del parco che aveva incontrato. Era pomeriggio tardi, quel luogo a quell'ora era affollatissimo di persone di ogni sorta. Lavoratori, studenti, bambini, anziani. Individui con vite e storie differenti alle spalle, con un lavoro differente che praticavano, che avevano praticato o che sognavano praticare.

Si era preso un gelato.
Ingoiava quella schiuma ghiacciata assieme alle lacrime calde e salate. 
Faceva pensieri. Dai più improbabili e catastrofici ai più reali e immediati.
Se non ritrovava più quella sintonia con il personaggio che interpretava avrebbe necessariamente dovuto lasciare il teatro. Qualcosa dentro di sé gli assicurava che non l'avrebbe più trovata.
E inspiegabilmente, quando ne ricercava la causa, dentro la sua testa si allargava l'immagine di quel ragazzo dai capelli rossi.

Quel dissacratore di teatri.

Aveva toccato con mano la sua pelle un poco ruvida, lo aveva spogliato di Figaro, di quella sua identità fittizia con cui compariva in scena. A una delle tante coppie di occhi, che lo guardavano come un omino parlante imprigionato in un monitor, aveva esplicitato che esisteva.
Che era schifosamente comune alla razza del mondo.

“Deidara” Non si era nemmeno accorto del ragazzo che aveva preso posto al suo fianco.
L'aveva visto in platea, ma non credeva l'avesse seguito fin lì.
“Che vuoi da me? Vattene via” gli rispose sgarbatamente il cantante, non degnandolo nemmeno di uno sguardo. Sasori reagì con un sorrisetto divertito.
“Che ci trovi da ridere?” Esalò rassegnato Deidara, rivolgendogli due occhi ancora arrossati, ma già più sereni di prima. L'aria primaverile gli scuoteva i capelli ambrati, il profumo dei nettari gli riempiva il naso solleticandogli uno starnuto. Fu sorpreso di scoprire che non gli dispiaceva più di tanto. Starnutì silenziosamente, rifugiandosi in un leggero triangolo di seta.
“Dì la verità, ho fatto schifo” domandò poi al suo pseudo-stalker, che si era accomodato su quella rigida sedia di plastica come se si trovasse in spiaggia. Lo guardava bene solo in quel momento, sebbene avesse passato una notte insieme a lui. Aveva dei bei lineamenti, e degli occhi grandi. Forse un po' troppo femminili, ma non gli dispiacevano. Deidara non era uno che si faceva più di tanti scrupoli sul sesso delle persone che frequentava intimamente. Era stato con molte donne, così com'era stato con molti uomini.

Un perfetto Don Giovanni.

No, non voleva neanche più sentire parlare di quello.
Roteò un poco il busto, avvicinandosi alle labbra calde del ragazzo e baciandole con tocchi leggeri delle proprie. Assieme al sapore dell'aria primaverile, assieme al retrogusto della polvere del teatro, della vernice delle scenografie e dei fiori che riceveva in camerino, poteva convincersi di… ma sì.
Salire su un altro treno.
Sasori rise cristallino, mettendo in mostra la sua bianca fila di denti regolari.
“Sì, hai fatto proprio schifo”.
Una ventata gli mosse i capelli setosi, e il salice piangente sfoggiò un ultimo inchino all'artista.








Se il corpo prova esilio è nella pelle.
(
Enrico deLuca)


















Note dell’autrice:
Chiarimenti, credits e definizioni (da Wikipedia):
Il Barbiere di Siviglia è un’opera lirica di Gioachino Rossini su libretto di Cesare Sterbini tratto dalla commedia di Beaumarchais.
Il Don Giovanni è un’opera lirica di Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte.
Figaro
: è il barbiere di Siviglia.
Rosina: è uno dei personaggi principali del Barbiere di Siviglia.
Baritono: in musica, il termine baritono designa sia la voce maschile intermedia tra quelle di basso e tenore, sia il cantante che la possiede.
Cavatina: è l’aria con cui ciascun personaggio si presenta in scena.
"Poteva dire addio alla Scala": s'intende l'ambizione di Deidara di poter cantare al Teatro della Scala di Milano. Evidentemente, la prima del Don Giovanni in cui il ragazzo avrebbe dovuto recitare, era fondamentale per decidere la sorte della sua carriera.

Per avere un’idea: Largo al Factotum questa è la cavatina di Figaro, ovvero la prima parte in cui Deidara entra in scena, accennata all’inizio della storia.








7° classificata e vincitrice del Premio Originalità al contest Wicked and...lovely, incantevole e pericoloso (Seconda edizione) indetto da The forgotten dreamer

Correttezza grammaticale e sintattica, ortografia: 15/15 punti 
Stile, forma e lettura scorrevole: 14,5/15 punti 
Originalità: 9/10 punti 
Caratterizzazione dei personaggi: 8/10 punti 
Utilizzo della frase: ? 
Giudizio personale: 9,5/10 punti 
Totale: 56/70 

Inizio col dire che mi dispiace moltissimo per questa posizione ma purtroppo non ho potuto dare valutazione al parametro “utilizzo della frase” perché non l’hai usata affatto, non è stata inserita nel testo. Ho riletto diverse volte, ho usato la modalità “cerca” di Word pensando in un mio errore ma nulla, quindi praticamente non hai avuto 10 punti perché non hai rispettato quella parte del bando. Sono dispiaciuta ma purtroppo sono le regole. Peccato, perché hai trovato un’appassionata di musica classica, lirica e balletto che conosce molto bene Rossini e l’opera in generale. Ho apprezzato tutto della storia: dall’ambientazione al modo in cui hai sviluppato quel rapporto a pelle fra i due personaggi. Meraviglioso l’ingresso in scena di Deidara. Hai impostato una trama molto originale, totalmente inaspettata. La grammatica era eccellente, lo stile e le descrizioni mi hanno colpita, soprattutto ho amato l’IC di Deidara: il cantante che si spersonalizza, che esce “dall’esilio della propria pelle” per calarsi nei panni del personaggio.
L’interpretazione della frase c’era ma avrai dimenticato di inserirla perché non c’è proprio. Il finale è stato inaspettato da un certo punto di vista e mi sono un po’ ricreduta sull’IC di Sasori perché non mi aveva convinta in pieno all’inizio, oscurato dal bel cantante biondo. La tua è una ff fantastica che (e se fai i conti te ne rendi conto da sola) se avesse rispettato tutte le regole del bando sarebbe arrivata sul podio di sicuro. Mi dispiace, ma tolto questo resta comunque un ottimo lavoro che non mancherò di commentare con una recensione se, e quando, deciderai di pubblicarla. 


   
 
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