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Autore: Beat in trip    22/04/2011    0 recensioni
Un misto di drammacità e fantastico, in cui un personaggio inventato assume le connotazioni di un normale essere umano alla prese con il suo dramma esistenziale.
Genere: Dark, Fantasy, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se al primo impatto pensereste che amo il buio, vi sbagliate. Odio la notte e odio la luce della luna. Nessuna tortura potrebbe provocarmi più dolore di quello che l’oscurità riserva per me. Ma il problema più grave è che non posso evitare di immergermi ogni volta in quel pozzo buio di inferno, e credo che mai riuscirò a venirne fuori.

Anche stanotte non sono mancato all’appuntamento con la luna. Alla solita radura, che riporta ancora i danni che avevo recato il mese scorso: buchi scavati, alberi feriti da profondi graffi, rami troncati ed erba secca disseminata ovunque. Non ricordo precisamente cos’era successo, ma questi segni dimostrano tutta la furia di cui ero vittima. Questa notte non sarebbe stato diverso. Spero ancora di non ricordare anche stavolta, di dimenticare tutti questi momenti assai dolorosi per me.
E tra questi aspri pensieri ho alzato gli occhi per avere solo una visione fugace della luna, ma, quando l’ho vista grande e luminosa, gli occhi hanno cominciato a bruciarmi. Stava per accadere di nuovo. Avevo quasi il desiderio di correre via, tra le lacrime, come se una potente corsa potesse alleviare il pensiero di ciò che poteva ancora accadere. Ma il mio corpo non effettuava alcun movimento eccetto il pulsare delle muscolature. Un dolore lancinante alle gengive e alla mascella. Strappi a i muscoli. Un formicolio ai pori della pelle.
E poi tutto si fece così diverso da non riconoscere nemmeno il mondo. E così, in un giorno dimentico la notte precedente, ma in una notte dimentico tutta la vita, in uno scambio continuo di memorie perdute.
Buio confuso, bianchi riflessi spettrali e qualche chiazza rossa sfumata sono gli unici frammenti di una notte che non verrà mai ricordata, e che sarà quindi una pezza di vita sprecata, usata, strappata e gettata all’aria senza pietà. Mi sentivo calpestato, fatto a brandelli, ma volevo cambiare.

Mi sono svegliato alle prime luci dell’alba. A dire la verità, non sapevo se mi ero davvero addormentato ma tre cose in particolare erano certe: ero a terra rovinosamente, avevo un dolore terribile alla spalla sinistra ed ero felice di rivedere la luce del sole.
Mi rifiutavo di pensare alla nottata e mi impegnavo solamente ad alzarmi, a guardarmi intorno e a cercare di capire dov’ero. Per mia grande fortuna, sono sempre stato dotato di un orientamento efficace che mi permetteva di identificare la via giusta per tornare a casa.
Con la pelle graffiata, come gli abiti che indossavo, mi sono incamminato a passo incerto attraversando lo spiazzo in cui mi trovavo. Assaporavo il calore mattutino, le carezze dei lievi raggi di sole e la luce che affiorava lentamente abbracciandomi e tenendomi al sicuro, mentre giungevo al paese.
La gente cominciava a brulicare sui marciapiedi e sulle strade, ignari di una creatura come me, invisibile anche a me stesso. Come formiche erano tutti intenti a svolgere le loro attività quotidiane e a coricarsi la sera senza la compagnia di pensieri bizzarri e a dir poco complicati. Nonostante il mio continuo sforzo, non riuscivo mai ad integrarmi in quella massa, per la quale la vita era un dono così banale. Io invece neanche la vivevo la vita. Ero diverso. Ero maledettamente diverso. Non avevo il coraggio di guardare negli occhi le persone per paura di contaminarle di quella mia natura malvagia.
Destinato a esistere solo, come una lacrima sul viso di una persona, che presto cadrà, si infrangerà al suolo e si prosciugherà. Ma se non esistesse un suolo? Avrei dovuto continuare a cadere con il timore che ad ogni centimetro in più di caduta era un infrangersi al suolo più doloroso? Forse era meglio avere un fondo sicuro, e subito. Se non me lo offriva la vita, allora ero pronto a costruirmelo da solo.

Coricato con pensieri astratti e svegliato con pensieri allucinanti. Questa era la natura dei miei sogni e da questo dipendevano i miei sogni. Nemmeno nel sonno trovavo conforto: i fantasmi della notte mi rubavano il respiro, mi cucivano gli occhi e mi riempivano le orecchie di tremendi suoni gelidi. Vedevo forme senza senso, coriandoli bianchi, onde instabili e macchie rosse. Ma anche se impedivano il buon sonno amavo questi lineamenti imperfetti e insensati: in loro non trovavo nessuna spiegazione reale per la quale potevo soffrire e non potevo far altro che rimanere in una tranquilla indifferenza. Poi mi svegliavo e scoprivo che non potevo rimanere indifferente nemmeno all’inesistenza. Tutto pesava su di me, perfino il più insignificante e leggero filo di vento.

Oggi mi sono recato ai campi di girasoli. È speciale per me vedere come quei fiori riuscivano a catturare così facilmente il sole. E resto lì, per l’ennesima volta, a contemplare e invidiare tutto ciò che meritava i raggi di luce.

Fissare eternamente immensi petali bianchi su un dipinto celeste: questo significa guardare il cielo sereno. Delicati petali ciechi che ondeggiano in aria, si spostano, formano figure indistinte. Mossi dal vento, non hanno un’autorità propria, ma sono trasportati in ogni angolo di vernice azzurra.
Non rincorrono niente, non rincorrono la vita. Mi chiedevo..era una sensazione così lieta non rincorrere qualcosa? Aspiravo ad essere un petalo, ma invece ero solo una spatola per raccogliere la vernice in eccesso.
E la vernice azzurra..a cosa serviva? Non si poteva dipingere lo sfondo di bianco? No, non avrebbe donato quella gioia, quel calore, al cuore degli uomini. E allora era forse questo il problema: non vedevo l’azzurro della vita, ma solo il bianco. L’accecante e infinito bianco.
Oggi ho chiesto scusa ai petali. Loro dall’alto avvertono sempre i pensieri e le azioni freddi degli uomini; si appiccicano a quella superficie delicata e formano uno strato di brina. Essa si scioglie e si riversa sulla terra sottoforma di lacrime. Così i pensieri tornano a noi, ma sciolti, che ci scivolano tra le dita, che ci bagnano e per non affogare ci ripariamo da essi con insignificanti ombrelli. La gente si ripara dai propri misfatti, non riuscirà mai a capire di essere responsabile.
Oggi ho chiesto scusa ai petali, per averli fatto piangere più spesso.

Un altro incubo, uguale ai precedenti.
Altro dolore, altra sensazione di corpo strappato, di vita troncata, di pugnalata al cuore. La solita furia cieca, la solita incoscienza. La stessa debolezza d’animo, la stessa irrazionalità. Bruciore alla pelle, muscoli contratti, buio nero. Sempre così, sempre questo continuo circolo. Finirà? No, stavolta la speranza non serviva. E un altro risveglio, uguale ai precedenti.
La persistenza del dubbio, della sconfitta, della rassegnazione. Un vuoto impossibile da riempire, un vuoto senza fine. Non riuscivo a fermarmi, cadevo e continuavo a cadere, non riuscivo a fermarmi. Ero disperato, non volevo sfracellarmi al suolo. E per me la disperazione portava sempre ad un nuovo orrore: al risveglio stavolta ho notato macchie rosse sul mio corpo e sui miei vestiti. Macchie di sangue. Ho guardato con terrore quegli spruzzi di liquido scarlatto cercando un spiegazione, una risposta a quel fenomeno. Mi sono tolto la maglia, già strappata, e ho subito notato delle ferite sul petto. Graffi non molto profondi, alcuni ancora aperti, altri, i più lievi, già cicatrizzati e indolori. Il vento fresco mattutino mi rivelava il leggero bruciore di quei solchi, causati dalle mie stesse unghie in una notte di pura pazzia.
La mia anima lacerata credeva ormai di contare almeno su un corpo intatto, ma anche questo privilegio le veniva tolto. Ero una nota stonata sul pentagramma della vita, della mia stessa vita. Mi sentivo calpestato, fatto a brandelli, ma dovevo cambiare.

Mi serviva un’occasione per ricominciare. Ho deciso di andare alla fiera del paese, per osservare elementi comuni e per cercare di dimenticare.
La piazza era affollata, le bancarelle di dolci e di giochi traboccavano tra le persone. Un po’ mi sentivo a disagio, ma era un buon inizio per cercare di integrarmi.
Era pomeriggio inoltrato, faceva freddo, ma qualche raggio di sole autunnale penetrava tra le bancarelle, tra le giostre, tra la gente, tra me, creando un allegro gioco di luci.
Stavo quasi per sorridere a quella vista, finché non ho visto una scena che mi ha fatto gelare il sangue, che mi ha fatto fermare il battito cardiaco.
Una donna graziosa, dalla pelle chiara e dai capelli neri, stava vicino ad una bancarella insieme a una bambina con lo zucchero filato in mano. Ridevano, mangiucchiavano lo zucchero e giocavano insieme; poi la madre ha preso in braccio la bambina e ha fatto un giro su se stessa, facendo divertire la figlia.
Quella visione mi ha profondamente ricordato un episodio del passato, in una tremenda e limpida notte di Luglio.

Ricordo bene che presi in braccio quella stessa bambina, presi in braccio mia figlia, la baciai sulla guancia e le donai un falso sorriso. Poi la feci scendere a terra, dicendole bugiardamente di aspettarmi e scesi le scale che portavano al piano terra.
Vicino all’entrata vidi di spalle mia moglie intenta a spolverare la mensola degli oggetti in cristallo e la contemplai per qualche secondo. Dopo quel giorno non ebbi mai più modo di guardarla.
“Grace” chiamai piano. La donna si girò, facendo fluttuare i suoi lunghi capelli neri, mi fissò con i suoi bellissimi occhi scuri e mi sorrise. Non trovai più le parole che volevo spingere dalla gola, ma uscirono liquide dagli occhi, bagnandomi il viso. Mi vergognai di quella debolezza e spensi intenzionalmente la gioia sul viso di Grace. La sua faccia venne contaminata dal mio dolore.
“Grace..ti prego..cerca di capire..” cominciai con fatica, sfiorando con mano tremante i suoi morbidi ricci. “Io..io devo andare.”
“Bene, ti aspetto per cena…” rispose Grace, con insicurezza e con una strana inclinazione nella voce. Non l’avevo mai sentita parlare così, trasformando la sua voce calda in una caverna di ghiaccio. Sospettava le mie brutte notizie e cercava di raggirarle, sperando intensamente che fossero la marionette della più pura falsità.
“No, no..non penso di tornare per cena..non penso di tornare..” continuai fissando gli occhi sgranati dell’amata. “..sono sicuro di non tornare.”
Il peso di quelle parole era insopportabilmente enorme, ma abbastanza leggero da aleggiare nell’aria, da diffondere quell’indelebile verità destinata a rimanere per sempre.
Tutto il resto furono pianti, cristalli infranti a terra, domande pronunciate esasperatamente e risposte mai date.
Lei non poteva capire, non potrà mai capire il vero motivo di quella mia decisione. Affondavo indifferentemente nei suoi umidi perché, incapace di tornare a galla.
Ebbi dunque il tempo di salutarla con uno sguardo di perdono e aprii la porta. Fuori nevicava e la strada era buia, camminai alla cieca, inconsapevole della vita che mi aspettava oltre il recinto della sicurezza. Ero riuscito a farlo, forse non come avrei dovuto, ma ci ero riuscito. Avevo rovinato tutto, ma non me ne pentii mai una volta.

E la vista della mia famiglia, dopo molti anni di angosciante separazione, mi ha riempito di complicati sentimenti. Era piacevole vedere quelle parti della mia vita passata gioire insieme, e speravo che il mio sacrificio avesse permesso a loro una vita degna di essere vissuta, al contrario della mia. Avevo privato loro di una marito e di un padre, senza che sapessero un perché, ma li avevo salvate. Salvate da me stesso.
Ed ora sorridevano. Era questo quello che contava. Per ora credo che andasse tutto bene. Non mi ero mai sentito più soddisfatto di aver preso una giusta decisione.
Voglio solo porti una domanda Grace: hai fatto di me un odioso crimine? Credimi, non avrei voluto farlo, ma dovevo.
Sai Grace, vorrei soltanto che ti sdraiassi in un campo di girasoli, guardassi il cielo sereno e pensassi per un secondo a me. Vorrei avvertire i tuoi pensieri, capire se sono affogati in un amaro veleno o in dolci lacrime di nostalgia. Ma in ogni caso saprò di averti fatto soffrire.
Allora io ti manderò i miei pensieri, sapendo che possono comunicare un pazzo amore soffiato nel vento oppure un odioso rimorso. Ma in ogni caso saprai che mi manchi infinitamente, Grace.
Intanto io continuerò a soffiare nel vento i fiori di denti di leone, nella speranza che quei fragili residui possano arrivarti e ti possano abbracciare restituendoti la felicità che avrei dovuto darti di persona.

Sopravvivo un altro mese, per un’altra fatidica notte. Anche questa volta ho cercato di essere forte, di combattere, di oppormi alla mia stessa indole. Ma la natura vinceva sempre.
Ed ogni mia azione è stata immersa in un oceano di violenza. Ricordi più vivi, più disperati e sempre più reali fluttuavano nella mia memoria.

La luna piena, quel pallido petalo rimasto incollato sulla bluastra vernice ancora fresca, osservava impassibile ogni mio gesto di incoscienza. Con il volto illuminato di divertimento assisteva allo spettacolo di un uomo che aveva perso se stesso e che aveva abbandonato la sua anima a marcire in quella coscienza che non gli apparteneva.

E non facevo altro che dare sempre più soddisfazione alla luna, e a privare di una dignità a me stesso.
Attraversando la solita pianura, mi sono accorto che ormai non avevo più scampo.
La gola si bloccava, la pelle rosea diventava di un colore grigiastro e coperta di fitti peli neri, gli occhi diventavano gialli e le pupille di dilatavano, le mani si modificavano formando dita disumane e curvi artigli affilati, la faccia si allungava in avanti mentre il corpo assumeva posizioni animalesche. La mia identità alla luna piena.
E subito si è accesa la voglia di sciogliere i muscoli, di sfogare la propria forza e di correre follemente. Sono scattato in avanti con le zampe anteriori, correndo in una maniera inconsueta, attraversando boschi e distruggendo rami, raspando il terreno con le mie unghie e cacciando animali.
Non ero più io, ero solo un indegno animale. Ed è incredibile come sembra enorme la differenza tra uomini e animali, ma ancora più sconcertante quella tra animali e licantropi.
Ogni tanto mi fermavo a ululare alla luna, ad annusare l’aria e a fissare tutto intorno a me, scoprendo un mondo che non conoscevo, poi ripartivo a viaggiare per tutta la notte , e ancora consumavo la mia identità.
Ricordo altri boschi, alberi, terra e un grosso animale che ho ucciso, attaccandolo e dilaniandolo con furia. Ossa che si spezzavano, sapore del sangue e consistenza della carne.
La realtà confusa infine si è sciolta e sono diventato me stesso, umano e cosciente, allo spuntare del sole. I ricordi più limpidi si sono affacciati alla mente con insistenza, disseminando polvere di verità e rendendomi confuso e incredulo. Avevo ancora del sangue sparso su quei pochi brandelli di vestiti, ma stavolta non ho notato nessuna ferita su di me. E allora ho pensato che era il sangue di quelle innocenti creature rimaste vittime della mia violenza e catapultate in un reale palcoscenico di crudeltà.
Ero esausto, non riuscivo fortunatamente a pensare e camminavo stancamente, senza una meta. Come può avere una meta un uomo che ha distrutto la sua strada?
Ed ad un certo punto mi sono fermato e ho visto una scena che non avrei mai voluto vedere. Un uomo dall’identità a me sconosciuta era a terra scomposto in mezzo al fogliame, interamente coperto di sangue e con la pelle lacerata. Mi sono inchinato e ho esaminato i tagli: morsi di animale e solchi provocati da potenti unghie. E i ricordi diluviavano intensamente, con fulmini e tuoni, e si mescolavano con la grandine.
Quel grosso animale che ho ammazzato quella notte era un essere umano. Una creatura che poteva vivere, che voleva vivere, che aveva anche una famiglia magari e che non si era mai aspettato di essere uccisa da un mostro.
Ho ancora avuto la forza di alzarmi. Avrebbe dovuto essere stato il contrario: lui alzarsi in piedi e io a terra soffocato dalla morte. Se ne avessi avuto la possibilità avrei fatto quello scambio di destini, era l’unica fine che aspettavo da tempo.
Alla vista della vittima le forze hanno smesso di farmi compagnia, e sapevo che ormai ogni dolore mi aveva svuotato succhiandomi tutta l’anima. E cose se ne faceva il mondo di un uomo vuoto? Lo avrebbe buttato nell’angolo degli scarti, per considerarlo solo un incarto chiuso per tutte le piogge fredde che potevano rovesciarsi dal cielo. Oppure sarei continuato a cadere, senza sperare una mano dall’altro che poteva afferrarmi, avrei forse trascinato altre creature con me, vivendo il terrore dell’impatto, e infine mi sarei schiantato al suolo con brutalità.
Mi sarei infranto, spezzato in tanti minuscoli frammenti, come i cristalli che aveva rotto Grace quella sera di lacrime. E tutte le piccole parti di me sarebbero volate nell’aria, disperse e inesperte. Non si sarebbero mai unite, sarei rimasto per sempre un giocattolo rotto accantonato in un armadio buio.
Mi sentivo calpestato, fatto a brandelli, ma non potevo cambiare. E Grace, se dovessi passare di qua abbi la cura di afferrare tutti i miei pezzi e riuniscili insieme: solo così sarò per te l’uomo che non ho mai avuto l’occasione di essere. Sì, sarò sempre un giocattolo guasto, ma almeno mi sentirei tutto intero.
Nel frattempo continuo ad aspettare, consapevole di essere quello che sono e sempre sarò: un uomo a metà.
   
 
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