Salve
a tutte, Buona Pasqua!
Spero
stiate tutte bene.
So che è davvero molto che non aggiorno e di ciò
vi chiedo scusa.
Pensavo proprio che andare all’università mi
avrebbe lasciato tanto tempo
libero da dedicare ai miei “piaceri” ma
sfortunatamente non è stato così!
Ogni minimo momento libero lo passo a studiare, studiare, leggere libri
noiosissimi su argomenti assurdi e non molto appassionanti (lo sapevate
che la
rampa che collegava la casa di augusto sul palatino al tempio di Apollo
era
decorata con stucchi e la porta era adornata da
“piastrelle” di terracotta
decorate etc etc zzzzzzzzzz)… insomma, non ce la faccio
più.
Se a questo aggiungiamo il fatto che internet in sta diavolo di casa ha
deciso
di funzionare solo alla mattina (e, di solito, la mattina sono in
università,
come tutte le persone normali!) non sono proprio riuscita a rimettermi
in pari
con i miei vari lavori.
Per questo vi chiedo infinitivamente scusa.
Oggi, domenica di pasqua, ho deciso di prendermi un po’ di
tempo per me (e per
voi) e mandando a quel paese mia madre che sta sistemando casa in vista
dei
parenti per il pranzo pasquale (e vi assicuro, non è
semplice… se sono al pc,
viene a controllare che sia roba di scuola. Il resto è
offlimits. Frase tipo:
“non ti pago l’università
perché tu stia tutto il tempo a caXXeggiare. Quindi o
studi o mi aiuti a pulire casa!”)
Ora che gli esami si avvicinano (e tremo… da Maggio a Luglio
ne ho almeno 4 da
9 crediti e forse, se riesco a reggere, un 5 esame sempre da 9 crediti.
Non ce
la farò mai!!!!) dovrò mettermi ancora
più sotto a studiare ma spero davvero di
riuscire a impormi di smettere per un po’ e dedicarmi alla
scrittura. Scusatemi
tanto per i ritardi! Per chi di voi è
all’università non stupirà sapere che
sto
annegando nei libri!!!
How can I expect you to forgive?
Come
posso aspettarmi che tu mi perdoni?
Come mi aveva preannunciato Carlisle, sussurrava frasi che mi
inquietavano.
“Basta” “fermati” “mi
fai male”… speravo fossero dirette a Jason ma poi
fece il
nome di Phil.
Contrassi i pugni. Chiamò anche il mio nome…
molte volte. Poi di nuovo pregava
Phil di non farle del male.
Reneé mi aveva detto che lui non c’era e, nella
sua mente avevo scoperto che
era via con la sua squadra.
Non sapevo se fosse un bene o un male. Avrei voluto tanto avercelo
davanti.
Gli avrei fatto confessare tutto. Con me avrebbe parlato. Non mi sarei
fatto
problemi. Estorcere informazioni non era un problema se non ti
preoccupavi che
l’interrogato rimanesse incolume.
Non sarei stato buono come Carlisle. Non ero in grado di provare
pietà verso un
individuo tanto abominevole da picchiare una donna, una ragazza.
La
ragazza che amavo.
Sì, forse era un bene che lui non ci fosse. Non avrei saputo
trattenermi e
avrei solo rischiato di apparire io steso come un mostro assassino
davanti a
Bella e sua madre…
Certo, avrei potuto attenderlo nel vicolo di notte… nessuno
mi avrebbe visto.
Era già successo altre volte…
No! Non dovevo concentrarmi su quello. Dovevo fidarmi di mio padre.
Secondo lui
non c’erano rischi che si potessero ripetere episodi come
quelli di cui Alice
era stata testimone. Che Phil le facesse del male. Quando lo avessi
visto, mi
sarei fatto spiegare con precisione.
Tesi l’orecchio.
La casa era addormentato nel silenzio dell’alba.
Afferrai il telefonino e composi il numero di Carlsile. A rispondermi
fu Esme.
Volevano sapere di me, di come stessi, di come trascorresse la mia vita.
Cercai di frenare le loro parole.
< No, per favore… non me la sento di
parlarne… perché invece non mi
raccontate un po’ voi come vanno le cose. State tutti bene?
>
E da quel momento di avvicendarono le loro voci. Ogni particolare era
così
tranquillizzante che sarei rimasto ad ascoltarli per ore.
Quando fu il momento di salutarsi sentii un blocco alla gola.
< Spero di risentirvi presto. Vi chiamerò questa
notte… >
< Va bene, Edward. Mi raccomando, si gentile con Bella ma non
darle false
speranze. Non sarebbe giusto verso di lei. >
< Certo… allora, a dopo. >
< A dopo. > mi risposero le voce dei miei familiari in un
coro
scoordinato.
Dal
piano di sopra sentii
il piccolo piangere e svegliare la famiglia. Mi rimisi sotto alle
coperte e
finsi di dormire. Volevo ascoltare.
Reneé allattò il piccolo poi andò a
chiamare Bella. Erano appena le sette e
mezza.
La aspettò fuori dal bagno mentre Bella si lavava i denti e
si sistemava.
Voleva parlarle. Scesero insieme le scale e la madre le disse: <
Marie,
cerca di essere carina con lui...
so che ci sei rimasta molto male ma ieri, quando è
arrivato… mi è sembrato così
felice. E mentre parlava di te… avresti dovuto vedere il suo
sguardo… >
< Sì. Mamma… ma non ti intromettere, ok.
< Non essere crudele. Ha fatto tanto per te. >
esitò un attimo e poi
scelse con cura le parole.
Pensava al mio sacrificio, alla rinuncia al matrimonio.
Non poteva dirglielo. < Ti è sempre stato vicino dopo
l’incidente. E ora, va
a svegliarlo. Intanto preparo la colazione. >
Bella sbuffò e poi venne in salotto. Sentii il suo sguardo
su di me. Indugiò a
lungo.
Afferrò qualcosa e sentii un suono simile allo scorrere di
un piccolo rivolo
d’acqua. Percepii qualcosa di bagnato sui capelli e la
camicia.
Aprii
di scatto gli occhi,
ritraendomi. Una perfetta interpretazione di uno svegliato di
soprassalto con
dell’acqua gelida.
< Oh… scusami! Edward, non volevo… mi
è scivolata la mano e si è rovesciata
l’acqua... > mi disse senza alcuna traccia di
rimpianto e di scuse. Il suo
volto impassibile era splendido.
Ora che si era tolta il trucco potevo vedere la ragazza che amavo. La
preferivo
così, nonostante avessi sobbalzato vedendola truccata e
vestita in quel modo
così provocante. L’avrei apprezzato se
l’avesse fatto per me ma, sapendo la
realtà, mi sentivo roso dall’invidia e dalla
gelosia…
in ogni caso, preferivo sentire il profumo della sua pelle non coperta
da
cosmetici, preferivo vedere il colore della sua carnagione, vederla
imporporarsi…
il mio sguardo scivolò lungo il suo collo, il suo petto, il
suo seno…
Era china verso di me ed intravedevo il pizzo del reggiseno…
Alzai lo sguardo verso il suo viso e mi soffermai ad osservare le sue
labbra
piene, i suoi occhi velati di tristezza.
Mi protesi a respirare il suo profumo, il suo respiro…
No, basta, non dovevo guardarla in quel modo. Dovevo darmi un contegno
e
riprendere il filo dei miei pensieri… ero già
assuefatto alla sua
persona.
Ne avevo bisogno. Ne avevo sempre avuto.
Era la mia aria, il mio ossigeno.
< Ti si è rovesciata l’acqua del vaso di
fiori? > domandai fingendo
stupore e irritazione.
Tossì mascherando l’arrochimento della mia voce
causato dalla sua presenza.
< Sì. Volevo andare a cambiarla. Pazienza. >
mi diede le spalle e si
diresse in cucina.
< Guarda che è pronto! Io non ti aspetto. >
urlò sedendosi.
Lei guardava ostinatamente dal lato opposto.
Reneé aveva già preparato e io sopportai la
tortura del cibo grazie alla
presenza inebetente di Bella.
La colazione si protrasse nel silenzio delle occhiate schive che Bella
mi
rivolgeva. Fingeva irritazione. Perché io sapevo che
fingeva. Io la fissavo
senza pudore.
Reneé cercò di intavolare una conversazione ma
sua figlia si limitava a
rispondere a monosillabi. Io invece fui molto più affabile.
Riferendo di come
fosse la mia vita a Syracuse, sottolineando le restrizioni noi imposte
come
coprifuoco, orari rigidissimi e divieto di utilizzo dei cellulari,
raccontai
molti aneddoti. Dovevo rendere tutto credibile.
Bella, che fingeva di essere interessata solo ai suoi cereali, in
realtà non si
perdeva una sola parola di ciò che dicevo. Ogni volta che
parlavo di una
ragazza (dalla fantomatica compagna di banco a quella che mi avrebbe
chiesto
informazioni per il settore D) la vedevo tendersi e ingoiare a fatica.
Finita
la colazione, Reneé
propose: < Perché non andate a fare un giro? Oggi non
hai niente da fare.
Potresti mostrare a Edward la città… che ne dici?
>
< Piove, fa freddo e non ne ho voglia. >
< Non si preoccupi. > intervenni io. Reneè mi
sorrise amichevole e mi
fece segno di non preoccuparmi. si rivolse alla figlia.
< Marie, non essere scortese. Dai, vai a prepararti. Oggi ho
voglia di
prendermi del tempo per me e starmene a casa da sola quindi va, su!
>
Nella sua mente era cristallina la sua voglia che Bella si distraesse,
che
uscisse, anche se con me.
< Se proprio devo… ma lo faccio solo per te, mamma.
> sospirò Bella
alzandosi e sparecchiando.
Sparì in camera sua mentre Reneé si apprestava a
cambiare il piccolo che le
aveva appena vomitato sulla spalla. Spettacolo nauseante…
Dalla camera di Bella arrivò la sua voce:
< Sbrigati e cambiati in fretta! Non ho voglia di aspettarti!
>
Andai in bagno e mi lavai e cambiai in fretta. Non volevo farla
adirare. Fui
però io a doverla attendere, e a lungo.
Reneé mi passò affianco e, sebbene pensasse che
Bella tardasse tanto solo per
farmi innervosire, sussurrò:
< Perdonala, è una ragazza… scegliere come
vestirsi è un’impresa. >
Io attesi paziente, seduto sugli ultimi gradini della scala.
Quando la sentii scendere mi voltai e il respiro mi morì in
gola.
Vederla così… mi faceva desiderare di prenderla e
portarla via. Volevo solo
restare con lei, fuggire lontano…
Tenerla con me…
Era bella di una bellezza rinata, incantevole e avvenente come non lo
era stata
mai.
Come aveva potuto alzare le mani su una creatura così
indifesa come lei?
Repressi il dolore che tali pensieri facevano sorgere in me.
L’ombra vaga di un taglio era appena visibile sul suo labbro
inferiore. Mi
chiesi se portasse altri segni della violenza del patrigno sul suo
corpo.
Il mio unico desiderio era toccarla,accarezzarla, là dove
lui le aveva fatto
del male per guarire le sue ferite.
Non potevo chiederle cosa le avesse fatto. Dovevo aspettare che fosse
lei a
volermene parlare.
Altrimenti rischiavo solo di peggiorare la situazione. Dovevo essere
paziente e
riguadagnarmi la sua fiducia per poterla aiutare. Dovevo anche fidarmi
di
Carlisle. A suo dire, aveva dissuaso Phil dal torcere ancora a Bella un
solo
capello… era certo che quell’uomo non si sarebbe
più avvicinato a lei.
E Carlisle sapeva essere molto persuasivo…
< Se non hai la macchina, possiamo prendere quella di
Reneé. >
< Non preoccuparti. Ne ho noleggiata una, quella di ieri sera. A
proposito,
sei incantevole. Quel blu dona molto alla tua carnagione. >
< Non che a te debba importare. > mi sibilò
pungente ma la vidi arrossire
e distogliere lo sguardo da me. Si arricciò i capelli e
sospirò.
Arrivati all’auto, le aprii la portiera del passeggero e lei,
senza dire
niente, salì.
Per tutto il giorno parlò pochissimo limitandosi a dirmi
dove andare. Destra,
sinistra, destra, tieni la sinistra, sottopassaggio, parcheggio.
Museo, museo, parco, spiaggia, yogurteria, altro museo…
Lei guardava le opere d’arte.
Io ne fissavo la più bella.
Stivali blu scamosciati, gonna blu, camicetta azzurra e maglioncino
blu. Tante
varie tonalità. Capelli sciolti lungo la schiena e le
spalle.
A ora di cena le proposi di andare in un ristorante. Aveva preso solo
un
frullato per pranzo. Non ne ero contento.
< No. Grazie. >
< Insisto. >
Mi guardò con un’intensità che mi fece
provare calore all’altezza dello sterno.
Mi fissava negli occhi come se vi stesse cercando qualcosa, qualcosa di
celato.
< Ovunque tu voglia. > trattenne un sorriso e poi fece il
nome di un paio
di ristoranti che sua madre le aveva consigliato appena arrivata a
Jacksonville.
La portai in quello dove eravamo stati quando eravamo venuti a trovare
sua
madre in quella che sembrava una vita precedente… non
riconobbe il locale.
Per
tutta la cena non mi
rivolse la parola.
Il suo sguardo truce incenerì la cameriera che, elencando il
menù, si era
lanciata in sgradevoli allusioni e ammiccatine nei miei confronti.
Mentre mangiava, teneva lo sguardo basso. Ogni volta che pensava non
stessi
osservando mi fissava.
Riconobbi un vortice di emozioni fluire sul suo viso dai tratti
delicati.
Ira, rabbia, dolore, tristezza, gelosia, desiderio… amore,
di nuovo rabbia,
rassegnazione…
Quando terminò di mangiare, mentre tornavamo
all’auto, le chiesi se avesse
voglia di andare in qualche locale.
Non volevo essere da meno rispetto a Jason anche se non le avrei
permesso di
ubriacarsi.
A quella domanda Bella rabbrividì. Il suo corpo si
irrigidì e lei, cercando di
non farsi notare, cominciò a spostare lo sguardo sui tetti,
come se cercasse
qualcosa. Il suo tremore era innaturale.
< Hai freddo? > le domandai sfilandomi la giacca e
poggiandola sulle sue
spalle.
Pensavo l’avrebbe respinta e invece ci si strinse dentro.
< No, non è niente. Scusami… comunque,
preferisco andare a casa. Sono molto
stanca. >
Le aprii la portiera e lei si lasciò sfuggire un sorriso
ampio e genuino a cui
io risposi con un mezzo sorriso volutamente seducente. Fu
divertente
vederla arrossire e trattenere il respiro. Mi ricordava quei primi
giorni a
Forks, quando l’avevo appena conosciuta… provai un
immenso moto di nostalgia a
rievocando quei pensieri… per scacciarli, collegai
l’MP3 alle casse e lo
accesi.
Debussy si diffuse nell’abitacolo.
Bella, abbandonandosi allo schienale, cercò di non farsi
notare mentre
inspirava l’odore del mio giaccone. Sospirò,
serena.
< Adoro questa canzone. > sussurrò chiudendo
gli occhi.
< Anche io. > poi, rimanendo in silenzio, la osservai
mentre cedeva al
sonno.
Mi raccomandava di non dar retta a Bella, o meglio, Marie.
Già, Marie… non voleva farsi più
chiamare Bella…
Non avevo avuto il coraggio di chiederle il perché. Anzi,
nel corso della
giornata avevo evitato di chiamarla per nome proprio per schivare
questa
domanda insidiosa che si insinuava continuamente nella mia mente.
Bella si svegliò verso le due di notte.
Reneé si era già svegliata e riaddormentata dopo
aver allattato il piccolo
Owen. Era così esausta che non sentì Bella
passare davanti alla sua
stanza.
Stava scendendo in cucina?
Mi resi conto che i suoi passi si erano arrestati davanti alla mia
porta.
La aprì lentamente e poi… il silenzio. Potevo
percepire un filo di luce
filtrare dalla porta socchiusa.
Per alcuni minuti ascoltai il suo respiro tranquillo. mi lasciai
fissare e
pensai a tutte le volte che l’avevo osservata
dormire…
<
Ehi, Edward… se vuoi
puoi dormire sulla poltrona, in camera mia. >
sussurrò pianissimo.
Non si aspettava certo che la sentissi.
Socchiusi gli occhi non appena la sua voce si fu dispersa in vibrazioni
sempre
più attenuate.
Trattenne il fiato, arrossendo.
Era accovacciata per terra. Le braccia incrociate sulle ginocchia. Si
reggeva
il mento e mi fissava. I capelli le ricadevano morbidi sulle spalle.
< Posso davvero? >
Era totalmente sconvolta, colta di sorpresa. Tanto stupita che, rossa
in volto,
mi rispose balbettando:
< Se ti sbrighi. Altrimenti cambio idea. >
Si ricompose. < Io comincio ad andare. La mia è
l’ultima stanza. E poi, vai
sempre a dormire in camicia e jeans? > mi domandò
ironica,celando
l’imbarazzo.
Poi se ne andò, quasi di corsa.
La senti sussurrare a sé stessa: < Ma che cavolo sto
facendo!? >
Raccolsi le mie cose e bussai alla sua porta.
Rumori inquietanti provenivano dalla stanza.
< Arrivo, arrivo. Ahia! >
Ci fu un gran fracasso e, allarmato, entrai.
La
trovai a terra intenta
a massaggiarsi la gamba. La poltrona-letto era stata mezza montata.
Probabilmente si era fatta male nel cercare di aprirla.
Con un gesto veloce e fluido finii di montarla e poi mi inginocchiai al
suo
fianco.
Sorrisi vedendola arrossire.
< Potevi lasciar fare a me. >
< Volevo essere gentile, scusarmi per ieri,oggi... insomma, sono
stata
sgarbata con te. >
< Come se fossi tu quella che deve scusarsi. >
< Hai ragione. Non avrei dovuto neanche farti entrare in casa.
>
Cercava
di sembrare
adirata ma non ci riusciva molto bene. Continuava a sospirare, a
fissarmi
cercando di non farsi notare, ad arrossire…
Le sollevai i pantaloni del pigiama fino al punto in cui si stava
massaggiando.
Una porzione di pelle era arrossata. Si era procurata un futuro livido,
poco ma
sicuro.
Mi sostituii a lei nel massaggiare la zona lesa. Le carezzavo la pelle
con
movimenti lenti e circolari.
Un mugolio sfuggì alle sue labbra ed ella arrossì
ulteriormente.
Le sistemai una ciocca di capelli e le sfiorai la guancia.
La
vedevo combattuta. Poi,
all’improvviso, prese la mia mano e la guidò al
suo viso. Ci si appoggiò ed
inspirò profondamente.
<
Sei uno stronzo. >
< Sì, hai ragione. >
< Perché sei venuto? >
< Ma perché solo adesso? Sono passati mesi!
L’ultima volta che mi hai
telefonato… è stato più di un mese fa.
Non ti fai mai vivo, non mi rispondi…
non sei venuto, quando avevo bisogno di te. Quando avevo bisogno di
aiuto. >
Lacrime sottili scesero lungo le sue guance e io avrei voluto
assaggiarle.
< Lo so, ti chiedo perdono… mi credi se ti dico che
il mio pensiero non è
stato rivolto ad altri che a te e che, se avessi potuto ti avrei
chiamato,
sarei venuto da te molto prima. >
Non mi rispose. Cincischiava con il laccetto del suo pigiama.
< Chi era quella? >
< Come scusa? >
< Chi era quella! >
La osservai. Rossa in volto, sentivo il suo sangue che pulsava furioso.
Era in
imbarazzo ed adirata in un sol tempo. Dal suo sguardo ingelosito trassi
appagamento ma faticai a capire a chi si stesse riferendo. Nessuna mai
per me
era stata anche solo vagamente interessante e poi, lei come avrebbe
potuto
saperlo? Fu a quel punto che compresi a chi si riferisse: A quella
insulsa
segretaria. Anita… non potei fare a meno di celare un
sorriso. Era gelosa di me…
< Stai parlando di Anita? > quasi scoppiai a ridere.
< Oh, così si chiama Anita. > si
scostò da me e si alzò in piedi. Andò
a
sedersi a braccia e gambe conserte sul suo letto. Io rimasi seduto a
terra.
Avrei voluto ridere di felicità, dirle quanto fossi felice
di vederla,
rassicurarla di quanto fossero inutili i suoi timori, raccontarle la
verità…
avrei voluto baciarle le labbra.
< E tu? Ti ho visto ieri, come guardavi Jason. >
< Io non sono geloso. > falso. Ero un bravo bugiardo. Lei
parve crederci
e me ne sembrò ferita.
< Neanche io. > falso, ma, a differenza mia, lei era una
pessima
bugiarda. Sorrisi affabile.
< Comunque, lei è la ragazza del mio compagno di
camera. Una ragazza non
particolarmente gradevole… >
< Sei sincero? >
< Marie… >
< Oh, andiamo, non chiamarmi in quel modo! >
< Ma ieri quel ragazzo… >
< Lui dimenticatelo. Io non sono Marie… quella storia
del nome, è solo una
sciocchezza. Non è servito a nulla.
Non è facendomi chiamare in modo diverso che posso cambiare
me stessa… > Si
stava torturando le mani, tenendo lo sguardo basso.
Gocce salate scivolarono fin sul suo mento e da lì caddero
nel vuoto fino a
sfiorare la trapunta e da essa venire assorbite.
Non mi riuscii a trattenere e mi avvicinai a lei a passi misurati. Le
asciugai
le lacrime con le dita.
< Ehi, non ho fatto tutta questa strada per vederti piangere.
Non voglio che
tu sia triste… >
Con l’indice la costrinsi ad alzare il viso.
Lei si sforzò di sorridere poi, come se non riuscisse
più a porre un argine a
ciò che provava, si lasciò andare ad un pianto
accorato.
Mi gettò le braccia al collo e si strinse a me, sporgendosi
verso il mio viso.
Con movimenti naturali la presi fra le braccia e mi sedetti sul suo
letto,
tenendola sopra le mie gambe.
Era così fragile.
La sua pelle era un velo sottile e semitrasparente.
Vedevo i vasi sanguinei diramarsi in milioni di cunicoli. Li sentivo
pulsare al
ritmo del battito del suo cuore.
E l’umido odore del suo sangue mi inebriava.
Tra le lacrime mi continuava a ripetere quanto mi odiasse, quanto fossi
stupido, cretino menefreghista, idiota… quanto fossi stato
crudele a lasciarla
sola quando aveva bisogno di me.
Annuivo, le carezzavo la schiena,assentivo lasciandola parlare,
sfogarsi.
Non potevo rammaricarmi per le parole che mi rivolgeva.
Aveva sofferto così tanto per la mia assenza.
Lentamente i suoi singhiozzi si quietarono. Mi limitavo a cullarla
lentamente,
accarezzandola senza turbarla.
< Va meglio? >
< Sì… scusami… non volevo dirti
tutte quelle parole. >
< Me le sono meritate. > con quelle parole riuscii a
strapparle un
sorriso.
< Lo puoi ben dire. >
La feci sdraiare e lei mi prese per mano, invitandomi a stendermi al
suo fianco.
< Grazie > le sussurrai all’orecchio.
< Non ti ho perdonato. > La sua voce era armoniosa,
nonostante cercasse
di renderla dura, mostrandomi quanto fosse irata verso di me.
< Lo so. >
< E non posso perdonarti. >
< So anche questo. >
< Però una cosa posso farla… >
< Ah sì? >
< Sì. > e senza aggiungere altro, con uno
slancio, poggiò le sue labbra
alle mie, le dischiuse e io, colto alla sprovvista, feci altrettanto.
Era sbagliato, andava contro tutto ciò per cui mi ero
sacrificato e per cui
avevo sacrificato la nostra relazione.
Non avrei dovuto rispondere a quel suo bacio così carico di
disperazione ma non
potei impormi di fermarmi. Non avevo tutta quella forza di
volontà.
La strinsi a me con tutta delicatezza di cui ero capace, le avvolsi le
braccia
intorno al busto.
I pensieri di Jason mentre ricordava di toccarla mi bruciavano
l’anima ma,
confrontando i ricordi di quel ragazzo con quello che avevo vissuto con
Bella,
con quello che stavo vivendo, capii che non era cambiato nulla.
Lei non lo aveva mai amato, non lo aveva mai baciato come stava
baciando me in
quell’attimo.
Non aveva mai inarcato la schiena come stava facendo in quel momento,
rispondendo al tocco delle mie mani…
non lo aveva mai toccato come stava toccando me in quegli istanti.
Con lui non aveva mai ansimato come se il respiro le morisse in gola,
come
stava accadendo adesso…
Le teneva spalancate come due soli da cui si irradiavano raggi caldi. E
io non
potevo che fremere a quel contatto che mi rendeva così vivo.
Non aveva smesso di piangere nonostante i singhiozzi si fossero mutati
in
mugolii di piacere.
Godevo del sapore delle sue lacrime salate e me ne libavo.
La baciavo con ardore nella speranza di farle dimenticare i baci di
quell’insulso ragazzino.
Fu molto egoista da parte mia ma volevo essere io a lambirle le labbra
e non
potevo sopportare l’idea che un altro ne avesse assaggiato il
sapore.
A quel pensiero mi accanii ancora di più sulla sua bocca
socchiusa.
Parve gradire l’impeto appassionato del mio amore ardente dal
momento che le
sue dita si contrassero sulla mia pelle. La sua gamba strusciava contro
la mia
mentre lei tentava di avvicinarsi a me più di quanto non
avesse già fatto. Come
se volesse oltrepassare la barriera creata dalla nostra pelle.
Quel bacio, il primo dopo tanto, troppo tempo, fu così
perfetto che non mi
parve reale.
Mi accarezzò i capelli ed io feci altrettanto, lasciai la
mia mano scivolare
sul suo collo, lungo la sua schiena. Incrociò le gambe alle
mie e si strinse
spasmodicamente a me
Pian piano i suoi respiri affannosi si placarono e il suo cuore riprese
a
battere a un ritmo normale.
I suoi movimenti si fecero via via più lenti fino a cessare
del tutto.
Si addormentò stringendo le sue dita intorno alle mie.
La avvolsi nelle coperte, attento a non disturbarla.
Il tempo che era trascorso non le aveva mutato i tratti del viso. Le si
erano
solo leggermente affinati i lineamenti. Il suo seno si era fatto
più
pronunciato, era dimagrita, le erano cresciuti i capelli.
Tutto ciò sanciva decisamente il suo passaggio
all’età adulta.
Quella che io non avrei mai raggiunto…
Avevo fatto la scelta giusta quando avevo deciso di salvaguardare la
sua vita.
Lei, che non ricordava i pericoli che comportava la mia vicinanza,
meritava la
possibilità di vivere felice, crescere, avere dei bambini.
Non potevo sottrarle tutto ciò. Non ne avevo alcun diritto.
Era il destino che mi aveva dato la possibilità di liberarla
dal nostro vincolo
che l’avrebbe relegata alla solitudine
dell’oscurità.
Non importava quanto l’amassi, quanto la volessi.
Non avevo nessun diritto di sperare.
Eppure, nella tasca dei miei pantaloni, avevo sempre conservato
l’anello di mia
madre. Lo stesso anello con cui, mesi prima, le avevo chiesto la mano.
Me lo aveva riconsegnato Charlie, con gli occhi lucidi, il giorno in
cui gli
dissi che avrei rinunciato a sposare sua figlia, che non ricordava
nulla della
mia proposta, del nostro amore…
Charlie
mi aveva
ringraziato per il gesto di generosa rinuncia e mi aveva detto che con
quell’atto gli avevo dimostrato quanto realmente amassi sua
figlia. Lui non
poteva sapere quanto profondo fosse il nostro amore.
Da quel momento quell’anello lo avevo sempre tenuto con me,
nella vana e
malsana speranza di poterlo rendere alla donna che ne era la
proprietaria.
Era un comportamento sbagliato, perverso, scellerato ma lo portavo
sempre con
me per averla sempre vicina, perché era suo, proprio come il
mio cuore.
Ora lei era lì, davanti a me, e non potevo fare a meno di
desiderare le sue
labbra, il suo calore.
Lei, addormentata, sorrideva.
Non
vedo l’ora che sia già luglio… almeno,
con un voto o con l'altro, questo
delirio sarà già finito!
sarà un po' più
caliente ma si sa, l'amore gioca brutti
scherzi e travalica la razionalità
A
presto, Erika