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Autore: SweetTaiga    26/04/2011    4 recensioni
Capita spesso di non riuscire a piangere. A volte le lacrime non trovano il modo di uscire, e restano intrappolate lì, accanto al cuore. Ma quando ogni petalo di un fiore rappresenta una lacrima, è davvero così importante l’acqua salata che scende dai nostri occhi? Esistono molti modi di piangere, ma solo uno di essere felici: amare. E la protagonista di questa storia lo scoprirà lentamente, viaggiando nei ricordi e nel tempo, attraverso emozioni tali da spezzare il fiato e baci rubati alle porte di un sogno.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia ha partecipato al Muse’s Songs Contest indetto da Soul’sLullaby (Ivola qui su Efp) con la canzone “Unintended”.
Gli altri partecipanti si sono ritirati, ma voglio ringraziare ugualmente la giudicia per aver indetto un concorso così interessante.
Questa storia quindi va a lei, Ivola, perché mi ha dato la possibilità di scrivere una storia che da tempo mi ronzava in mente.




A weep without tears


Avevo dieci anni, la prima volta che vidi la sua lapide.
A quel tempo non comprendevo appieno l’importanza dei cimiteri, e mentre mia madre lucidava la foto del nonno che non ho mai conosciuto, io portavo i fiori ai bambini.
L’unica cosa di cui ero certa, era l’ingiusta presenza di quei volti paffuti e sorridenti tra una marea di anziani.
I loro occhi pieni di aspettative stonavano con quelli opachi di chi aveva già vissuto la sua vita; non v’erano rughe a testimoniare la loro presenza nel mondo, ma solo una pelle liscia che non aveva potuto utilizzare tutte le espressioni di cui era capace.
Provavo una profonda tristezza nel pensare che quei bambini non avrebbero potuto più ridere,  giocare, vivere.
E quando vedevo una madre piangere silenziosamente davanti alla foto del figlio, non potevo fare a meno di stringere i denti e mordermi il labbro inferiore fino a sanguinare.
Non avevo il diritto di piangere, ma condividevo quel dolore, quel senso d’impotenza.
Fu in quel periodo che smisi di piangere, probabilmente.
Molti mi reputavano una bambina forte, capace di prendersi le proprie personalità.
Nessuno capiva che io non riuscivo più a piangere.
Non dopo aver visto il dolore delle madri, non dopo aver visto le foto di quei bambini della mia stessa età, non dopo aver promesso a me stessa che avrei vissuto la vita che a loro era stata tolta senza lamentarmi.
Le lacrime non sapevano più quale fosse la strada giusta, e restavano chiuse lì, da qualche parte accanto al cuore.

Avevo un vestito rosso, la prima volta che vidi la sua lapide.
Un vestito sgargiante, che contrastava immensamente con il candore delle rose che portavo in grembo.
Una rosa per il bambino nato morto, per i genitori che l’avevano amato prima ancora che nascesse e continuavano a farlo nonostante la sua scomparsa.
Una rosa per il giovane militare morto in guerra tanti anni fa, per la famiglia che aspettò invano il suo ritorno.
Una rosa per la bambina col fiocco candido tra i capelli, per la nonna che di tanto in tanto, sorreggendosi a stento su di un vecchio bastone, le porta piccoli pupazzi fatti a mano.
Una rosa per la ragazza sorridente, per il giovane uomo che ogni giorno viene a piangere sulla foto della sua amata.
Ero solo una bambina, ma in qualche modo capivo che quelle rose erano importanti.
Capivo che nonostante la prematura scomparsa, quelle persone, quelle giovani vite spezzate, continuavano a sorridere nel cuore di chi, passando, regalava loro una lacrima, un pensiero.
Le mie lacrime non scesero mai, ma le mie rose bianche erano il pianto che dedicavo loro.
Un pianto candido e silenzioso, un pianto setoso e profumato.
Un pianto senza acqua e sale, ma a cuore aperto.

Avevo finito le rose, la prima volta che vidi la sua lapide.
Era nascosta. Nascosta tra due pareti, in quello che ad una bambina sarebbe potuto sembrare un piccolo vicolo.
Solo crescendo mi accorsi che non era altro che lo spazio tra due muri, una cavità di circa quaranta centimetri.
Era impolverata. Impolverata e sgretolata. La foto era ingiallita dal tempo, la scritta ricoperta da ragnatele.
La pulii col mio vestitino rosso, allontanai i ragni e lucidai il vetro.
Era spoglia. Non c’era nemmeno un fiore.
Era solo. Nessuno piangeva la morte di quel ragazzino.
Mi sentii stranamente triste, e pensai di piangere. Lo pensai, ma dopo anni trascorsi tra le lapidi di quel cimitero avevo perso ogni capacità di farlo.
Eppure in qualche modo sentivo il diritto di piangere per lui.
Non era come il bambino pianto dai genitori, o la nipotina verso la quale una nonnetta gentile rivolgeva i suoi pensieri.
Era solo. Nessuno piangeva per lui.
Continuai a pulire la lapide fino a che non potei leggere distintamente le parole in nero.
Nicola D’Amato
18 Maggio 1985
20 Dicembre 1996
Con le mani contai gli anni, scoprendo che quel ragazzino era morto ad undici.
Un anno in più di me, aveva solo un anno in più di me.
Con la tristezza nel cuore vagai per il cimitero alla ricerca di un fiore: non potevo lasciarlo da solo. In qualche modo mi sentivo in dovere di fare qualcosa – ne avevo il diritto.
Più vagavo tra le lapidi, più il cielo si oscurava, più non trovavo fiori e più la voglia di regalargli un pensiero diventava insistente.
Corsi così tanto che caddi a terra, senza forze, strappando il vestito rosso sporco di ragnatele.
Mi sentivo inutile, ed un vuoto nel petto mi impediva di respirare in maniera regolare.
Quando alzai lo sguardo, la prima cosa che vidi fu un Nontiscordardime. Un piccolo fiore azzurro, quasi invisibile tra l’erba folta.
Un sorriso mi si dipinse istantaneamente sul volto, e con cura presi il fiore e la terra che lo circondava.
Mi ci volle del tempo per ritrovare la lapide di quel ragazzino, ma quando finalmente vidi la sua foto mi sembrò di aver ritrovato un amico.
Ricordo che mi infilai in quel buco stretto, per guardarlo dritto in faccia.
Scavai una buca e vi misi il Nontiscordardime, chiedendomi se attorno a quella tomba abbandonata sarebbero mai cresciuti dei fiori.
Mia madre mi chiamò più volte, con voce preoccupata.
Prima di risponderle ed andare via abbracciai la lapide, abbracciai lui.
Riguardai la foto del ragazzo – capelli arruffati, un sorriso impertinente e un neo sul labbro inferiore – e sorridendogli andai via.

Avevo dieci anni, un vestito rosso e nessun fiore, la prima volta che vidi la sua lapide.
Andai a trovarlo ogni due settimane. Imparai a prendere l’autobus da sola pur di rivedere quella foto, pur di donargli un fiore.
Un fiore diverso ogni giorno, un fiore per ogni sentimento che non aveva potuto provare, un fiore per ogni volta che avrei voluto piangere per lui.
Quando tornai in quel cimitero, dodici mesi dopo, la lapide non c’era più, ed al suo posto cinque Nontiscordardime si godevano il sole, incuranti della scomparsa di quello che ormai consideravo un mio amico – il mio unico amico.
Avevo undici anni, il vuoto nel cuore ed una margherita tra le mani, l’ultima volta che vidi quella lapide.

Con il passare degli anni continuai a piantare fiori in quel luogo, nella speranza che un giorno mi avrebbero restituito il sorriso sghembo di quel ragazzino.
Il tempo passava, ma i suoi occhi vivaci erano impressi a fuoco nella mia mente.
Cercavo il suo sguardo nei passanti, e ben presto iniziai a smettere di osservare i ragazzi della mia età, perché in loro non riuscivo a scorgere la dolcezza che mi aveva trasmesso una semplice foto ingiallita.
Provai a piangere più volte, per sfogare la frustrazione e per alleviare il senso di vuoto che aveva ormai preso pieno possesso del mio animo.
La mia vita trascorreva tranquilla. La vita, la scuola, gli amici; eppure sentivo la mancanza di qualcosa, di qualcosa che non avevo mai avuto, e che probabilmente non avrei avuto mai.

You could be my unintended choice to live my life extended.

Crescendo capii quanto la vita fosse ingiusta.
Internet era una finestra sul mondo, un costante mezzo di comunicazione con l’altro lato della terra.
Vidi molte foto, lessi tutto ciò che catturava il mio interesse.
Bambini magri e malnutriti, donne maltrattate, uomini uccisi ingiustamente.
Un mondo abbandonato a se stesso, nelle mani di uomini che non sapevano che farne.
Famiglie in lacrime, madri che contro ogni legge della natura piangevano sui corpi inermi dei loro figli, dolore e disperazione, mentre attorno a me il problema più grave era il non trovare quelle scarpe che, diamine, erano così carine!
Tutto appariva nuovo ai miei occhi.
Tutto era inutile, tutto era di troppo, tutto era eccessivo. Il nostro tutto era l’opposto di quel niente che avevo visto solo attraverso uno schermo.
Provai a discuterne, ci provai davvero, ma mi dissero che stavo parlando dell’altro lato del mondo.
Che andava tutto bene, che non c’era nulla di cui preoccuparsi.
Che tanto se loro moriranno ci sarà più ossigeno per noi.
Fu allora che le vidi.
Vidi le ombre della mia città, in una notte fredda e buia.
Vidi quella vita che prima d’allora avevo scorto solo nei film.
Vidi barboni, vidi gente povera addossata ai margini delle strade, vidi donne con minigonne vertiginose che vendevano il loro corpo per qualche soldo, vidi bambini sporchi e malati chiedere l’elemosina.
Vidi uomini ricchi e facoltosi voltare le spalle alla povertà.
Vidi donne chiamare la polizia perché un barbone dormiva sulle scale della loro costosissima villa con piscina.
Vidi anziane col naso rifatto urlare perché poveri disgraziati cercavano cibo nella loro spazzatura.
Io, giovane donna della zona bene della città, accudita ed amata dai miei genitori, vidi per la prima volta la vita vera, quella fragile, quella che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.
E vidi anche lui, quella notte.
Un giovane dai capelli arruffati e gli occhi grandi, che con un sorriso sul volto distribuiva pezzi di pane tra quei poveri disgraziati.
Quando si voltò verso di me, il suo sguardo apparve confuso, e mi si avvicinò lentamente, come per paura di spaventarmi.
«Cosa ci fa una ragazza come te in un posto del genere?», mi domandò con voce bassa.
Non sapevo neanche io come fossi arrivata lì. Non sapevo cosa mi avesse spinto a prendere il vicolo sbagliato, né perché non fossi ancora andata via.
«Stai bene? Vuoi aiuto per tornare a casa?», domandò ancora lui.
Il tempo si fermò, e le immagini scorsero come a rallentatore.
Il giovane mi si avvicinò, e passo dopo passò, secondo dopo secondo, riuscii a scorgere il suo viso.
Esibiva nuovamente un sorriso sincero, e notai che aveva le mani ed il volto sporchi di tempere e carboncino.
«Dipingi?», chiesi, ignorando completamente le sue domande.
Si fermò di colpo, gonfiò il petto con orgoglio e con aria seria annuì.
«Si, sono un pittore.»
Un pittore! Mi venne quasi da ridere. I pittori sono roba vecchia. Nel Rinascimento si poteva parlare di pittori, ma non nel ventunesimo secolo.
O almeno questo era ciò che pensavo.
Vedevo l’arte come qualcosa di così distante dalla frettolosa vita piena zeppa di tecnologie, mi era così estraneo l’odore pungente delle tempere, ed era così irreale pronunciare la parola “pittore” in un ambito che non fosse quello scolastico.
Mi ritrovai a sorridere come inebetita, e solo più tardi mi accorsi di quanto quel sorriso fosse vero ed autentico rispetto alle maschere che ero solita portare.
In mezzo a quel dolore, in mezzo a quella disperazione, quel giovane pittore era come un barlume di luce, una piccola oasi vitale in un deserto di desolazione.
Mi si avvicinò ancora, sempre di più, ancora di più.
Il sorriso sul suo volto era appena accennato, ma potevo vedere i suoi occhi ridere.
Quando, involontariamente, abbassai gli occhi sulle sue labbra, la pace interiore che avevo provato fu rimpiazzata da paura, rimpianto, dolore.
Aveva un neo sul labbro inferiore.
«Nicola..», sussurrai senza neanche accorgermene.
«Nicola? Mi dispiace, penso tu abbia sbagliato persona. Sono Michele, Michele Vitale.»

You could be the one I'll always love.

I giorni passavano veloci.
L’immagine di Nicola si sovrapponeva spesso a quella di Michele, e non sapevo più verso chi dei due il mio cuore fosse rivolto.
Un tradimento, ecco cos’era.
La foto sbiadita perdeva nitidezza, i colori diventavano sempre più chiari, ed il volto di quel ragazzino di undici anni veniva rimpiazzato da quello di un giovane uomo.
Tornai spesso nel luogo di quella notte, ed ogni volta trovavo Nicola lì, sorridente, pronto a tendermi la mano per portarmi a vedere il tramonto.
Sembrava un uomo d’altro tempi, uno di quei romantici viaggiatori che sussurravano parole d’amore.
«Perché sei così? Il Romanticismo non è più di moda, al giorno d’oggi.», gli chiesi una sera, dopo che m’ebbe baciato la mano.
«Perché sono un pittore. E i pittori non hanno età.»
You could be the one who listens to my deepest inquisitions.

Ciò che pensavo fosse ammirazione mutò poco alla volta.
La mia diffidenza, la mia lontananza, sembravano diminuire ad ogni suo sorriso.
Ogni mio dolore spariva al semplice contatto con la sua mano.
Ma più il mio cuore si apriva, più il senso di colpa faceva strada in me.
Era tradimento, quello?
Il bambino al quale avevo sempre rivolto i miei pensieri era lontano.
Erano mesi che non facevo visita al luogo in cui un tempo c’era la sua lapide, erano mesi che non cercavo di piangere per lui.
Il pianto, che un tempo era una specie di ossessione, un traguardo irraggiungibile, divenne un’entità ancora più lontana.
L’incapacità di piangere era stata completamente rimpiazzata dalla voglia di non farlo, dalla necessità di ridere.
Ridere come un’idiota, ridere fino alle lacrime. Ridere come non avevo fatto mai.
Pensai più volte di essere impazzita. Come poteva quello stupido pittore scuotermi l’anima in quel modo?
Che diritto aveva lui, perché gli permettevo di influenzare il mio umore?
Era qualcosa che non avevo mai provato.
Ero sempre stata lontana dagli altri, avevo innalzato un muro tra me ed il resto del mondo.
Avevo creato una realtà parallela in cui l’unico posto libero era per Nicola, per lui e nessun altro.
Per quel ragazzino dal sorriso furbo che avevo imparato ad amare nei miei sogni, per il bambino che aveva rappresentato un’ancora di salvezza nei momenti di sconforto.
Non potevo dimenticare i giorni in cui, in lacrime, prendevo l’autobus e correvo da lui, a piantare quei fiori che non avrebbe visto mai.
Era una sorta di ossessione, il suo volto. Eppure sentivo che i nostri destini erano legati.
E volevo piangere, volevo farlo davvero, perché il solo pensiero di lasciarlo solo mi faceva stare male.
Era un ragazzino quando morì, nessun fiore era posato sulla sua tomba.
Eppure in quella foto sorrideva.
Com’era stato in vita? Rideva molto? Aveva mai pianto?
Mille domande s’affollavano nella mia testa, ma col tempo vennero sostituite da questioni diverse. Più inutili, forse, eppure che mi toccavano ugualmente il cuore.
Perché Michele era diventato un pittore? Cosa gli piaceva fare? Era sincero quando, vedendomi arrivare, sorrideva come se fossi la cosa più bella del mondo?
Il muro robusto che avevo faticosamente creato era appena un sassolino sulla strada per Michele.
L’aveva superato con tanta facilità che nemmeno mi ero accorta di quanto si fosse avvicinato.
Ed era un tradimento, quello.
Un tradimento verso qualcuno che non avrei potuto mai abbracciare, verso un amore platonico che m’aveva fatto sentire meno sola, che aveva fatto di me la donna risoluta ed indipendente che ero.
Eppure, per una volta, volevo affidarmi a qualcun altro.
Volevo affidarmi a quel pittore squattrinato e un po’ imbranato, che però aveva un sorriso gentile e mani tanto grandi da sostenere il peso del mondo.
I'll be there as soon as I can 
but I’m busy mending broken pieces of the life I had before…

Avevo ventuno'anni, un vestito rosso e nessun fiore quando lo sognai.
Era una notte d’inverno. Era passato un anno dal mio incontro con Michele, eppure quello era il nostro primo appuntamento.
La neve scendeva, candida e pigra, e la città sembrava protetta ed ovattata.
Persino i rumori sembravano melodie; le famiglie erano sorridenti, i bambini correvano per le strade, e i ricchi per una volta concedevano un sorriso ed un soldino ai più bisognosi.
Arrivò correndo, in ritardo.
Avvolto nel suo cappotto nero, con un basco dello stesso colore sul capo, sembrava appena uscito da un film in bianco e nero.
Mi baciò la guancia e, prima che potessi accorgermene, correvamo mano nella mano.
Non pensai a Nicola, non pensai a niente.
Quel calore improvviso, la neve che danzava intorno a noi ed il tenue bagliore delle luci colorate mi rendevano felice.
Le ore trascorsero in fretta, tra un bicchiere di birra ed un pezzo di pizza, tra risate e chiacchiere.
Tutto ciò che di banale avevo disprezzato, acquistava ora un volto nuovo, s’illuminava d’improvviso.
Non pensai agli altri, quella notte.
Non pensai ai bisognosi, non pensai alla fame del mondo, non pensavo a quanto fossi egoiste nel correre per le strade senza regalare un sorriso ai poveri.
Tutta la mia attenzione era concentrata sul sorriso di Michele, sulla mia mano stretta nella sua.
«Fa freddo, andiamo a casa mia.», mi sussurrò.
Annuii e per inerzia lo seguii, guidata da qualcosa che non saprei descrivere.
Avanti al suo campanello mi fermai, impietrita.
Scappai via, senza dargli il tempo di chiedermi spiegazioni.
La neve non sembrava più così bella, i bagliori che avevo intravisto erano solo stupide luci elettroniche.
Solo in quel momento mi accorsi del vento, delle mani arrossate e delle orecchie congelate.
Sentii il freddo nel cuore.
Corsi a perdifiato, e sentii la stanchezza impossessarsi delle mie gambe.
Corsi fino a casa, ed entrando frettolosamente mi gettai sul letto, con il ricordo di quella scritta impresso nella mente.
Uno scherzo del destino, probabilmente.
Giuseppe Vitale e Anna D’Amato
Questo è ciò che lessi sul campanello di casa di Michele.
Uno scherzo del destino.
Uno scherzo di cattivo gusto che mi ricordava che non avevo il diritto di essere felice.

Before you..

Una luce improvvisa.
Alzai lo sguardo al cielo, ma del sole non c’era traccia.
La notte era scura, nessuna stella, nemmeno la luna. La neve era scomparsa, ed al suo posto solo una nebbia fitta.
Volevo correre, volevo farlo, ma non ci riuscivo.
Immobile al mio posto osservavo il paesaggio circostante.
Tesi la mano verso la luce, nella speranza di afferrarla.
E la afferrai.
Come se fosse una corda, mi aggrappai a lei e pian piano la nebbia si diradò.
Accanto a me, campi immensi di piccoli fiori blu.
«Sei arrivata.»
Mi voltai lentamente, con la vaga sensazione di conoscere la voce che avevo appena udito.
Un ragazzino dai capelli disordinati e gli occhi vivaci mi sorrideva, mettendo in mostra un piccolo neo sul labbro inferiore.
«Nicola?»
Tesi la mano verso di lui, ma c’era qualcosa di sbagliato in ciò che vidi.
La mia mano, la mano tesa dinnanzi a me, era la mano di una bambina.
Il vestito rosso mi cascava, le scarpe erano troppo larghe.
Terrorizzata mi coprii il viso, riscoprendo un piccolo naso, piccole labbra, piccole orecchie.
Tornai a guardare il bambino, che nel frattempo si era avvicinato a me.
«I miei genitori morirono durante un incendio. Mi coprirono con il loro corpo, e grazie a loro io riuscii a sopravvivere.», disse, continuando a camminare.
«Avevo una sorella, ma andò via prima che nascessi, e probabilmente non seppe mai della mia esistenza.», continuò.
«Ora so che mia sorella si è sposata. Ha avuto un figlio, un solo figlio.»
Lo guardai senza capire.
«Suo figlio mi ha trovato. Mi ha trovato tempo fa, quando la mia lapide scomparse. Ora ho un nuovo posto in cui riposare. Una lapide bianca, pulita e sempre piena di fiori. Me li porta lui, il figlio, mio nipote. Ho un nipote più grande di me, che strana sensazione.», sospirò, osservando il suo riflesso di bambino in una pozza d’acqua.
«Nessuno mi ha mai pianto. Nemmeno mio nipote. Non mi conosceva, non poteva piangere per me.», disse, rabbuiandosi. «Invece tu, tu mi sei stata accanto per tutti questi anni. Col cuore hai pianto le lacrime che non arrivavano ai tuoi occhi, gli abbracci che hai dedicato alla fredda pietra sono arrivati dritti a me.
Ti ringrazio per non avermi lasciato solo, amica mia.»
Sentii quasi di piangere. Sentii che avrei pianto, per la prima volta nella mia vita.
Sbagliavo.
«Ora però è arrivato il momento di dirci addio, mia dolce amica. Continuerò a vegliare su di te, come hai fatto tu per tutto questo tempo. L’unica mia richiesta è questa: ridi. Ridi con lui, perché se tu sorridi sarò felice anche io. Se fossi nato dopo, se tu fossi nata prima.. tutto sarebbe stato diverso. Ma la realtà è questa, e nonostante io t’ami – perché ti amo, come tu hai amato me – non ho il diritto di chiederti di restare sola.»
In pochi passi fu accanto a me. Mi prese la mano e la strinse forte, come se non volesse lasciarmi andare.
Scorsi la mia immagine nei suoi occhi. L’immagine di una bambina dalle guance rosee e la pelle candida, l’immagine di una bambina che, in qualche modo, aveva finalmente trovato la sua felicità.
Una strana frescura mi sfiorò le labbra, come il bacio di un fiocco di neve.
«T’amerò sempre, amica mia.»

Aprii gli occhi di scatto, ritrovandomi distesa sul letto.
Il vestito rosso mi calzava perfettamente, le mie mani erano grandi come le ricordavo. Le labbra, il naso, le orecchie erano tornate normali.
E’ stato solo un sogno, pensai.
Eppure, quando mi guardai allo specchio, un Nontiscordardime era posato dietro il mio orecchio.

You could be my unintended choice to live my life extended.

Avevo trentadue anni ed un abito nero, la prima volta che vidi la sua nuova lapide.
Il marmo bianco non aveva nulla a che vedere con la grigia pietra che ricordavo, e la foto era stata sistemata e schiarita. Ora il bambino d’un tempo sorrideva di un nuovo sorriso.
«Mamma, mamma, perché mi avete chiamato Nicole?», m’aveva domandato per l’ennesima volta mia figlia, quella mattina.
Era bastato uno scambio di sguardi tra me e Michele per decidere.
L’avevamo portata lì, a conoscere colui che, in un modo o nell’altro, continuava a vegliare su di noi.
«Lui è il tuo angelo custode, Nicole.», le disse Michele, prendendola tra le braccia.
Mia figlia – nostra figlia – sorrise, tendendo la manina verso la sua foto.
«Papà, papà! Ha il tuo stesso neo!», strillò, piena di gioia per aver notato un particolare così importante.
Ma, si sa, l’attenzione dei bambini dura davvero poco.
«Mamma, mamma, io vado a vedere se ci sono altri bambini.», esclamò improvvisamente, scalciando per essere posata a terra dal padre.
Mia figlia aveva un vestitino rosso, il sorriso sulle labbra ed un mazzo di rose bianche in grembo, quando per la prima volta conobbe il bambino che tanto avevo amato.

You should be the one I'll always love.

Ora che gli anni non contano più, sono finalmente accanto a lui, a vegliare su quelli che, per uno strano scherzo del destino, sono i nostri nipoti.
Il bambino che ho amato mi stringe la mano, l’uomo che amo mi sorride.
Entrambi hanno un neo sul labbro.
Entrambi, un tempo, mi hanno rubato un bacio.
Se fossi stata ancora un essere umano, sono sicura che in quel momento avrei finalmente pianto.



   
 
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