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Autore: Cassandra Morgana    29/04/2011    0 recensioni
Un tiranno ed una città a un soffio dalla guerra civile.
Un gruppo di ragazzi improvvisati ribelli, persi nelle sfuggenti sfaccettature del loro essere e del loro ruolo, fra le trame di un complesso interagire nel mondo.
Una minaccia soffusa che aleggia nell'aria...
Un luogo immaginario e un momento storico immaginario, "riconducibile" al XVIII secolo europeo.
Benvenuti a Noir Trésor!
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Noir Trésor ~'
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Capitolo 28

Il prezzo da pagare

 

 

Seduto in un angolo in penombra, nell’ozio mattutino della locanda, Dorian lasciava scorrere lo sguardo su ogni avventore al suo passaggio. Nessun elemento dell’intera stanza catturava la sua attenzione per un lasso di tempo accettabile: beveva ogni dettaglio dell’ambiente, ma senza vederlo davvero.

Il solo interrogativo che gli rimbalzava nella mente, perché lì e non nella sua casa, tra le sue quattro mura familiari. E quale volo assurdo, quella notte, l’aveva proiettato da casa di Auguste – dal suo intento masochistico di seguire attimo dopo attimo la complessa opera di seduzione di Fernand ai danni del padrone di casa – alla strada cosparsa di polvere sotto il baluginio malevolo dei lampioni; e poi, da lì, per qualche assurdo sbalzo temporale, qualche bicchiere di troppo – o chissà quale altra astruseria gli avesse suggerito il morso di un’irrazionale gelosia –, direttamente alla locanda dei Lambert immersa nel mattino inoltrato. Un salto repentino che la mente faticava a ricomporre in una trafila logica.

Dorian posò il bicchiere sul tavolo e si prese il viso tra le mani. Impossibile tentare di ricucire la successione logica degli eventi: troppi punti oscuri.

Chissà se davvero, a un certo punto, gli fosse saltato in mente di mettere a tacere l’odioso ribollire dell’animo con una dose d’alcool; se la sua coscienza si fosse attenuata, annegata insieme alla piccola moltitudine infelice che come lui, quella sera, aveva portato i propri passi fino alla bettola dietro l’angolo. Se davvero, a un certo punto, un’anima pietosa l’avesse raccattato privo di sensi e infilato sotto le lenzuola di una stanza qualsiasi.

Sospirò. Qualcosa l’aveva dispensato da una notte all’addiaccio, perché difficilmente i Lambert avrebbero tollerato avventori ubriachi a bottega chiusa.

Chiuse gli occhi. No, non poteva, in quelle condizioni, essere stato in grado di trascinarsi fino al piano di sopra, con la mente tanto annebbiata da non trattenere nessun frammento di ricordo. Buio completo, da quando aveva abbandonato la dimora di Auguste fino al mattino, quando aveva strizzato gli occhi sotto il chiarore pungente dell’alba, tra pareti sconosciute e l’odore dolciastro e nauseabondo di mobili vecchi e qualche strano intruglio che ribolliva nelle cucine. Per un istante, prima che i sensi mettessero bene a fuoco la stanza, con orrore l’aveva sfiorato dal dubbio che una ronda di passaggio l’avesse pescato ubriaco in un vicolo e sbattuto in cella. Per una volta, ringraziò la signora Bertrand e le sue abitudini mattiniere.

Il motivo per cui quella mattina, per quanto si sforzasse, non sarebbe riuscito a cavar fuori un resoconto attendibile della sua notte brava, stava in quei frammenti che, per uno strano gioco della sua memoria, sembravano essere stati cancellati dalla sua mente.

Sospirò. Non era un sintomo che deponeva a suo favore, e qualcosa, nelle occhiate ostili dei Lambert, sembrava rammentarglielo con enfasi ossessiva.

Dorian distolse lo sguardo e si sentì avvampare. Se davvero aveva bevuto tanto da non ricordare più nulla, l’ebbrezza poteva essersi rivelata causa di azioni avventate, così come sembravano suggerirgli quelle occhiatacce. Come aprire bocca più del dovuto, o al limite invitare qualche compiacente sconosciuto a fare l’amore con lui lì su un tavolo sgombro, incurante di tutto e con l’unica speranza di affogare al più presto il proprio fiele in un abbraccio rovente. Magari, ingannarsi e fingere di essere Fernand tra le braccia di Auguste – perché Dorian lo stupido ce lo aveva spinto a viva forza, nell’onda di quella passione latente, e questa era la giusta conclusione. O Auguste che bacia Fernand, ignaro di un paio d’occhi fatalmente abili che si muovono nell’ombra; e poi di nuovo Dorian che si ripete di aver agito per il bene del suo miglior amico, nel momento in cui vorrebbe solo strapparsi i capelli e distruggere tutto. Tornare indietro e scegliere di non essere lui, la mano invisibile che fa precipitare gli eventi.

Non c’era stata altra scelta, gli diceva una voce sottile nella sua testa. Non c’era stata mai una scelta; e se anche ci fosse stata, decidere non sarebbe spettato a te.

Era andata così: una grigia, nauseante via di mezzo senza sentieri all’orizzonte; solo il rischio calcolato di proseguire per quella strada obbligata senza sapere cosa cercare.

Il suo intervento non era stato determinante nell’accelerare qualcosa già in atto.

La sua parte meno razionale a tratti gli suggeriva di tornare là e scaraventare Auguste contro il muro; ma solo per un attimo, un serpeggiante, puerile desiderio di ripicca senza soluzioni concrete.

Sarebbe tornato sui propri passi con il cuore pesante, continuando a domandarsi cosa ci facesse in quella dannata locanda senza un percorso tangibile che ce l’avesse condotto.

Soprappensiero, si massaggiò le tempie doloranti e attese un’illuminazione. Silenzio. Per quanto sforzasse la propria memoria, nulla gli rammentava di essere uscito da casa di Auguste con l’intenzione di bere o scopare o escogitare qualche altro modo ancora più raffinato per farsi del male.

Non c’erano i postumi di un’ubriacatura coi fiocchi, rifletté, il polso che tremava appena nel sorreggere il bicchiere colmo. Solo un senso di sfinimento, niente di più; niente che si potesse ricondurre al vino più che alla stanchezza.

Se davvero quella sera aveva bevuto tanto da annullare ogni ricordo, allora non era possibile che, in capo a un paio d’ore, si fosse diretto sulle sue gambe giù per le scale, a chiedere una ciotola di sciacquatura dei piatti.

Unica traccia visibile dell’illustre sconosciuto che l’aveva traghettato fino al piano di sopra, le quattro monete di bronzo che si era ritrovato addosso. Ricordava bene: non aveva dei soldi con sé, quella sera. Non era neppure uscito di casa intenzionato, alla prima occasione, di lasciarsi andare a qualche bicchiere di troppo. Non era stato previsto.

Si strinse nelle spalle. Forse erano solo vecchie crisi di amnesia che riprendevano le briglie della sua esistenza, l’abisso come destinazione, perché tutto ciò che circondava la notte appena trascorsa, era nebbia e ignoto.

Il crescente brusio che invase la stanza, lo riscosse dai suoi pensieri. Dorian sollevò lo sguardo, inquadrando di colpo davanti a sé la faccia incipriata del commissario Lambert. Un paio di occhi porcini che luccicavano nella sua direzione.

Fu un attimo, e lo stomaco gli si contrasse in un conato di vomito, quando dinnanzi ai suoi occhi balenò il dubbio di aver tanto perso il controllo, quella notte, da lasciarsi sedurre da un uomo simile. Che magari ammirava compiaciuto la carcassa sanguinante, residuo dell’ultimo banchetto, da qualche cantuccio in penombra.

Rabbrividì, ma l’istinto gli suggeriva di escludere l’ennesima, catastrofica ipotesi, ogni sforzo teso a dissipare l’oscurità che velava la sua mente, un orribile presentimento a serrargli la gola.

Il commissario gli rivolse un cenno con la mano e passò oltre. Dorian si impose di accantonare la questione. Con la coda dell’occhio, intravide un codazzo festante radunarsi intorno al vecchio, prostitute comprese.

Dorian chinò lo sguardo sulla superficie irregolare del tavolo. Pregò di passare inosservato. Il sangue aveva iniziato a rimbombargli dolorosamente nelle tempie, e non aveva nessuna intenzione di lanciarsi in bizzarri convenevoli.

Fu quasi un accordo siglato con lo sguardo. Louise e Ginette sfilarono davanti ai suoi occhi senza degnarlo di uno sguardo, caracollando vicino al commissario in una duplice, affettata sinfonia di ossequi.

- Signore mie, cosa ci fate qui a quest’ora? – proruppe Lambert – Non si era detto al tramonto…?

L’allusione beffarda suscitò nelle due ragazze una risata argentina.

Dorian arricciò il naso, mentre cercava di aguzzare l’udito. Tutto quel che sarebbe riuscito a captare si risolse in un sottile chiacchiericcio. Intuì solo che, dopo le idiozie di circostanza berciate a gran voce, il commissario doveva aver scucito una notizia tanto appetitosa da doversi riferire a bassa voce e da tacitare immediatamente il piccolo uditorio. L’atmosfera di triviale convivialità si era ripiegata in un acuto, nervoso bisbiglio.

E poi, senza preavviso, il commissario fissò lo sguardo nel suo con un sorrisetto storto e procedette verso di lui. Dorian chinò lo sguardo, rassegnato, giacché il suo progetto di svignarsela ed evitare così sgraditi convenevoli, era naufragato sul nascere. Con uno sforzo non indifferente, riuscì a modellare i propri muscoli facciali in un sorriso smaccato, camuffando la delusione. C’erano urgenze ben più martellanti su cui sputare il sangue.

- Ecco, Dorian, diteglielo anche voi! – la voce acuta di Ginette lo perforò da una tempia all’altra.

La prostituta lo raggiunse agitando i riccioli rossi e allargando le braccia verso il cielo con fare declamatorio. Prese posto al suo fianco, abbarbicandosi al suo braccio e sporgendo in avanti le labbra in un falso broncetto.

- Diteglielo anche voi che non è modo di trattare con una signora!

Dorian cercò di sottrarsi alla sua stretta e sollevò lo sguardo sull’altra ragazza, Louise: dall’espressione delusa, speculare alla sua, dedusse che almeno loro ce le avevano provate tutte, fino a quel momento, per distogliere le attenzioni del commissario da lui ed evitargli qualche seccatura. O forse stava bollendo qualcosa di più grosso.

Il volto del commissario si contrasse in un ghigno.

- Voi lo sapete, Dorian? No che non lo sapete, figurarsi, così giovane e bello… – cinguettò con voce querula – E questo piace alle signore, del resto. Tuttavia, si può dire la stessa cosa della… “qualità” delle prestazioni, se la vostra testa bionda ha colto ciò che intendo?

Per un attimo Dorian si sentì comprimere tra la nausea che gli contraeva lo stomaco, e l’esigenza di replicare qualcosa di abbastanza volgare da ammutolirlo almeno per un po’.

Non seppe dire se fosse già accaduto, di trovare tanto fastidiosa la presenza del commissario, ma quella vocetta insinuante lo stava mettendo a dura prova peggio del previsto.

- Certo che lo capite, non siete un bambino. Il latte dalla bocca ve l’hanno già leccato via. Quello che voglio dire, che mademoiselle Ginette continua a negare, è che spesso i giovani di bell’aspetto come voi si rivelano… freddi. Belli da vedere, ma al dunque, una collezione di borse dell’acqua calda. Come dire, non badano alla… “sostanza”, pensano basti un faccino grazioso. Una donna vuole un amante capace, non solo un bel damerino da salotto. Ma non tutti sapete mettere a frutto gli insegnamenti dei più anziani – sussurrò, per poi scoccargli un’occhiata impertinente in mezzo alle gambe, a bruciapelo – Sì, non si può dire a voi manchi la “sostanza” là sotto, però… Può essere che la giovinezza, il fatto che quei capelli là siano ancora i vostri, vi facciano trascurare le doti del buon amante.

Dorian meditò se insultarlo fosse una decisione saggia. Forse il fatto che non indossasse la divisa e figurasse di fronte a lui come un compagno di bevute qualunque, gli avrebbe concesso piccole licenze senza il rischio di incappare in qualche grana.

- Non mi riferisco al caso vostro, Dorian – Lambert rincarò la dose – Vogliate scusarmi se vi ho tirato in mezzo, ma la piccola sfrontata pretende la ragione… – soggiunse, un cenno divertito verso Ginette.

- Il signor Dorian non è un cliente, commissario – chiosò la ragazza con voce sottile – Non ha bisogno di pagare per una bella donna nel suo letto.

Dorian intrecciò le braccia sul petto, le labbra serrate in un sorrisetto spazientito.

- Se sono tutte quale notizie del giorno, commissario, con permesso, io leverei il disturbo. Abbiamo scoperto che chi è stato premiato da Madre Natura non si impegna abbastanza a scopare, buono.

- Beh, una vera novità ci sarebbe – il commissario sollevò gli occhi al cielo; una pausa, come a soppesare la tensione – Ma prima è meglio salutare le signorine Ginette e Louise. Non vorrei che qualche mio sottoposto le sorprendesse in qualche ronda di controllo, finissimo tutti nei guai. Niente puttane, a quest’ora. Il duca ha raddoppiato i controlli in città. È la legge – sussurrò, senza trattenere una nota sarcastica – …che va rispettata. Alla lettera.

Rimasti soli di fronte a un tavolo traballante e due bicchieri mezzi pieni, il commissario Lambert si guardò intorno e prese posto di fronte a Dorian. Aveva cambiato faccia.

- Tenete gli occhi aperti, ragazzo – masticò – E parlate piano, ché i tavoli hanno occhi e orecchie.

 

O forse Louise e Ginette hanno avuto il loro daffare per riferirmi le novità prima che voi ci metteste le zampe.

 

- Preferite aspettare che sia quella cornacchia della Bertie a darvi l’annuncio… o qualche serpe tra i vostri amici? – ridacchiò a bassa voce.

Dorian sollevò un sopracciglio. Accettò con uno strattone il sigaro che il suo insolito compare gli aveva appena allungato.

- Prendete, amico. Ne avrete bisogno – incalzò il commissario.

Dorian sentì gli occhi bruciare per la profonda boccata. Poi un piacevole raschiare in fondo alla gola, e l’aroma del tabacco che aleggiava intorno a lui.

- Posso sapere cos’è successo, commissario, o avete già cambiato idea? – lo pungolò.

- Due cadaveri, ragazzo.

Dorian annuì, distratto, scuotendo le palpebre.

- Ce ne sono già tanti, in città. Là fuori, ad esempio. Vedete quanti morti che camminano…?

Alcuni siedono pure dietro i tavoli delle questure…

- Lasciatemi parlare, maledizione! Stamattina, all’alba. Li hanno trovati dei pescatori, a ovest dietro il molo. La corrente li ha spinti verso le rocce, e stamattina galleggiavano a riva. Non erano in buono stato, ma sembrano un vecchio e un ragazzo. C’erano fori di proiettile.

Dorian soffiò via una piccola nube di fumo, meditabondo.

- Non sarebbe la prima volta che qualcuno da quelle parti cerchi di fare il furbo e si dia al bracconaggio. Un banale incidente, e il responsabile avrà ben pensato di far sparire il risultato della sua “distrazione”…

- È ciò che contavo di fare all’inizio: archiviare tutto come incidente di caccia, fare un po’ di domande in giro e dissipare presto il panico. È solo che… tre cadaveri nel giro di due settimane, non è normale. Non passeranno inosservati. Prima il figlio di Emmanuel Mirand… Adesso questi due disgraziati che non hanno nemmeno un nome.

Dorian deglutì a vuoto. Posò il sigaro e intrecciò le braccia sul petto per mascherare il tremore delle mani.

- E cosa pensate di fare?

- Se fosse per me, assolutamente nulla. Non voglio guai. Ma di là… – il commissario puntò lo sguardo verso la finestra aperta, e poi da lì verso l’alto, la cittadella – Dubito che si lasceranno convincere da una spiegazione banale… e sospetta. Respingerebbero i fascicoli e non archivierebbero proprio un accidente. Mi ci farebbero tornare su all’infinito, e non sarebbero contenti fino a sbattere qualcuno sul patibolo. Comunque andranno le cose, passerà molto tempo. Potrei aspettare che se ne dimentichino, parlare con qualche amico dei piani alti, ché dichiari chiusa la questione a tempo e luogo. Ma la macchia si sta allargando troppo per passare inosservata. Prima il vostro amico Mirand… Ora questi due. Dovrò almeno fingere che le indagini procedano e pizzicare qualche testa calda – una pausa studiata, durante la quale Dorian non si accorse che il volto del commissario aveva mutato espressione – Il vostro amico Auguste de la Garde. Si decidesse a collaborare, una volta tanto! Invece lui fa il furbo: sa tutto, ma al dunque, come per magia non ha mai visto niente.

Dorian mise giù il bicchiere di scatto. Per un istante fu quasi certo che il suo autocontrollo non avrebbe retto a ciò che si andava delineando nella sua mente, e tutto quel che vedeva lasciava solo emergere dinnanzi a lui un ritratto a sangue vivo. Un bicchiere lasciato infrangere inavvertitamente al suolo o un tremore da servetta impressionabile avrebbero offerto uno spunto in più ai sospetti della serpe.

Con orrore, vide un sorrisetto viscido allargarsi sul volto del commissario. Lo vide all’improvviso, quando due dita ruvide calarono sul suo volto e gli artigliarono rudemente le guance.

- Dopotutto… – biascicò a mezza bocca il commissario, e sul suo volto pareva scomparso ogni accenno di tensione e ragionevolezza: solo una brama ferina – Potrebbe essere necessario un piccolo… “incoraggiamento”, affinché il sottoscritto sia ancora più solerte nel lavorarsi qualche vecchio, aristocratico somaro là sopra, e potrei pure cambiare idea su quelli come voi, Dorian, e convincermi che dopotutto anche i giovani e belli chiavano bene… Stasera alle nove. Puntuale.

 

* * *

 

La porta richiusa alle sue spalle, Dorian mosse qualche passo nel suo appartamento e si sentì svenire. Barcollò incerto per la stanza, fino a lasciarsi andare inerte contro la parete, il capo stretto fra le mani.

Non era il momento adatto perché il panico si impadronisse di ogni stilla di lucidità. Poco tempo per riflettere, e l’unica cosa che lui desiderava era barricarsi dentro casa e scomparire almeno per una decina di giorni. Come se Lambert fosse uno stupido.

Ansimando, si sfregò la faccia, cercando di dominare la tensione, le lacrime che gli pungevano in fondo agli occhi e il tremito feroce.

Se Lambert commissario aveva detto “alle nove”, significava un’ora a disposizione per patteggiare, da lì al coprifuoco. Forse c’era persino la possibilità che il bastardo avesse buttato giù quella specie di ricatto per gonfiare i muscoli e dimostrare di saper adoperare, all’occorrenza, tutto il potere di coercizione che il suo status gli conferiva. E pure abusarne.

Oppure, rifletté con orrore, si sarebbe trascorso la sua seconda notte in quel posto orribile. Dopo il coprifuoco non ci sarebbe più stato scampo.

Dorian strinse le palpebre, respirando profondamente. Poi, un lampo.

Auguste. Rammentava bene il suo stato, la sera in cui era penetrato in casa sua con Raphäel. L’istantaneo, profondo sollievo nel saperlo tutto intero, al sicuro nelle sue stanze. Sollievo e qualche punto interrogativo di troppo

Adesso, come un incubo, le tessere del mosaico tornavano dolorosamente a posto. E l’immagine balenò davanti ai suoi occhi nella sua logica inappuntabile. Come un vortice che lo trascinava giù.

Auguste fuori di sé, una bottiglia di vino tracannata a metà e la faccia stravolta di chi ha appena visto il diavolo.

Auguste con l’aria affannata di chi è rientrato di corsa, inseguito dai lupi. Riverso sul divano, a recuperare il respiro e la ragione in tutta calma.

Auguste reduce dalla sua notte di calcolata follia. La reticenza a parlare. La refurtiva svanita nel nulla, le monete restituite a Raphäel…

Poi la febbre era giunta a togliergli la lucidità, insieme alle frecce avvelenate che neppure quella volta Auguste aveva mancato di scagliargli addosso.

E lui non era un ingenuo: immaginava quali fossero i delitti di chiunque avesse preso parte a una guerra civile, ma ora che ogni frammento occupava il suo posto in quel dannato quadro, tutto gridava al peggio.

Tutto gli parlava di Auguste, l’uomo che l’aveva salvato e gli aveva insegnato a ricominciare a respirare. Un uomo che non aveva esitato ad uccidere a sangue freddo e portare avanti la sua recita infame, mentendo e ingannando tutti.

Forse lui stesso aveva messo in pericolo Lucien e ne aveva pagato le conseguenze. E di nuovo, come se niente fosse, decideva di farsi da parte, di concludere l’opera e tirarsene fuori da vigliacco. Lavarsi la coscienza e scaricare tutto sulle loro spalle. Il terribile meccanismo a catena che lui aveva innescato, in cui lui li aveva tirati dentro. La sottile guerra sotterranea alla quale lui stesso aveva dato inizio, circondato da altri disperati e da ragazzini sprovveduti.

Auguste era in preda alla follia, o forse così terribilmente lucido che il vero suicidio sarebbe stato fidarsi ancora di lui.

Dorian avvertì la collera scorrergli addosso come uno spasmo doloroso. Per un attimo fu tentato di rinunciare a raggiungere il commissario alla locanda, a patteggiare la salvezza di Auguste e la sopravvivenza della congrega. Lasciarlo cadere nelle mani del nemico senza battere ciglio.

Se davvero le cose erano andate così. Se davvero Auguste li aveva ingannati.

Se per caso la sua mente non avesse in serbo qualcosa di così raffinato da ritenere inopportuno coinvolgere persino loro, piccoli stupidi che si fidavano di lui.

Se davvero, nel giro di quattro anni, quello stesso Auguste, assassino e così pieno di scheletri da non venirne mai a capo, avesse fatto qualcos’altro che non fosse raccoglierlo dalla strada e allontanare da lui ogni concreta velleità di attentare alla vita del duca. Era stato lui a distoglierlo dall’idea di assassinare l’uomo che gli aveva tolto il padre e tutta la sua vita.

 

Bravo, Auguste. Hai giocato a meraviglia. Ti sei procacciato la nostra stima e hai agito alle nostre spalle.

 

Dorian si raggomitolò sul pavimento e strinse i pugni, le lacrime che premevano sulle ciglia.

La prima volta che Auguste l’aveva condotto con sé… L’aveva chiamato con il suo nome e gli aveva ficcato nel petto quelle sei parole.

Tuo padre? L’ha ucciso il duca.

Dopo, solo il filarsi impercettibile di vetri rotti, qualcosa che scricchiola, e un grido che per qualche strana combinazione sembrava proprio provenire dalla sua gola, come un raschiare sulla carne viva, come una singolare esplosione.

Ricordava un insolito brusio e Auguste che lo stringeva a sé, che gli premeva il viso contro il suo petto; cullandolo tra le sue braccia, gli aveva sussurrato tra i capelli e trasmesso tutto ciò che conosceva.

Un assassino come educatore. Che aveva domato la sua collera inconsapevole e gli aveva regalato un’effimera ragione di vita.

Adesso era polvere davanti ai suoi occhi; non serviva cercare i puntelli per scongiurare il crollo, sforzarsi di mantenere in piedi la menzogna.

L’ineffabile Auguste l’aveva ingannato. Gli aveva mentito perché non impazzisse. E poi era inciampato sui suoi stessi passi.

Non era abbastanza ciò che si ostinava a tenergli nascosto, e che bruciava come fuoco. Ciò che si ostinava a tenere nascosto in un angolo, distante da ogni sguardo, a sedimentarsi giorno dopo giorno.

Era giusto che lui gli dovesse qualcosa?

Perché se avesse mancato alla sua resa dei conti, se avesse lasciato che qualcun altro si ingegnasse a stabilire comodi collegamento tra la morte di Lucien e i cadaveri in riva al fiume, le conclusioni sarebbero precipitate dinnanzi a lui senza speranza di arginare l’imprevedibile. Lambert avrebbe fatto il vigliacco come sempre.

Trasalì. L’occasione che il duca e il suo entourage attendevano da anni, fiere acquattate tra i cespugli.

Dorian si sforzò di fare mente locale. Auguste l’aveva detto mille volte: il duca non si sarebbe mai abbassato a intervenire in occasione di reati comuni e zuffe tra disgraziati. Non se la questione non si fosse fatta politicamente interessante. Se mai Auguste fosse finito sotto processo, allora sarebbe stato uno schiocco di dita; un nobile fedele al duca avrebbe corrotto i testimoni, e senza colpo ferire si sarebbero sbarazzarsi di una vecchia conoscenza. Sarebbe bastato lasciar agire uno dei suoi fedelissimi, signorotti ambiziosi, piccole spie disseminate in città e gendarmi corrotti.

Dorian si prese il capo fra le mani, il cuore in tumulto. Qualcuno, a suo tempo, aveva compreso che per prendere Auguste nella rete sarebbe stato più facile annullare la condanna in contumacia e permettergli di fare ritorno in città. Meglio che lasciare le serpi fuori città, libere di fare danni e organizzare sacche di resistenza.

Quattro anni di clandestinità, e Auguste non era ancora diventato abbastanza astuto da non perdersi in trucchetti da prestigiatore e smanie da rivoluzionario fallito. Come un ragnetto troppo ambizioso che alla fine si ritrova invischiato nella propria tela.

Le conseguenze sarebbero giunte come un fiume in piena. A meno che non fosse stato lui a giocarsi la sua possibilità e sperare in un buon patteggiamento. Troncare le gambe alla faccenda sul nascere. Non c’era più molto tempo per spremersi le meningi alla ricerca di una strategia. Avrebbe dovuto parlare con… con Ambrosie, con Raphäel. Con Auguste. E mollargli un pugno di tutto cuore.

Oppure cedere a Lambert – arginare l’inondazione quando è ancora pioggia sottile, corrompendo un uomo da nulla.

Sarebbe stato umiliante e patetico, rivelare il prezzo da pagare per quel salvataggio sull’orlo del burrone. Il commissario non avrebbe collaborato a insabbiare il caso, finché lui non avesse dato il via.

Non si accorse di essere precipitato in una nube di sogni agitati.

 

* * *

 

C’era il pallore di vetro del volto di Lucien dietro un velo di fumo, le dita di marmo intrecciate sul petto; l’aveva sfiorato e gli era parso di sentire il fremito del respiro perduto. Auguste stava in piedi di fronte a lui, il viso simile a gesso, tanto da fargli dubitare quale fosse tra i due il morto: quello disteso o quello in piedi. Non vi era aria di funerale. C’era un’indifferenza diffusa. C’era l’ossessione serpeggiante sul volto di Fernand, e Ambrosie e Raphäel seduti su un divanetto in fondo alla stanza, lei sulle ginocchia di lui in un gesto da considerarsi azzardato. Discutevano fitto.

Poi la stanza evaporò, e vide di nuovo Auguste, intento a minacciare il commissario Lambert con una pistola e intimargli di sparire; solo che poi nello scontro partiva un colpo che rischiarava a giorno la stanza, uno sprazzo lampeggiante che gli lasciava distinguere a malapena i contorni.

All’improvviso era per strada, con una pioggia insistente che picchiava sul selciato, e nastri di nebbia striscianti che si sollevavano dal suolo, impicciando i suoi passi. Poi Lucien lo trascinava fino ad una specie di taverna per ripararsi dalla pioggia. Là dentro, qualcuno cianciava alle sue spalle: una voce sottile come uno stiletto gli dava del miserabile e lo chiamava bastardo, puttana ufficiale di una masnada di traditori.

 

* * *

 

Si ridestò di soprassalto, la faccia premuta contro il pavimento e un braccio insensibile, la mente annebbiata dall’accozzaglia di sequenze illogiche che gli aveva recato il suo sonno sul letto di spine. Non era passato il senso di vertigine che l’aveva ridestato il mattino.

Nei suoi sogni, Lucien era un’immagine tangibile e nessuno faceva menzione della sua morte. E Auguste era inquietante come sempre.

Dorian si strofinò la faccia, infastidito. Era pomeriggio inoltrato, uno squallido chiarore giallastro che inondava i muri delle case al di là della finestra, monito beffardo del giorno che declinava. Una nuvola di pulviscolo dorato danzava davanti ai suoi occhi, colpito da un cono di luce viva – lo stesso che aveva gentilmente provveduto a strapparlo via dal suo sonno.

Mancava poco, e un nodo d’angoscia gli costringeva la gola alla sola prospettiva di mettere piede fuori casa. Non quella sera, non dopo quei discorsi.

Ricordò che una volta aveva davvero vagabondato nelle stradine periferiche sotto la pioggia fino a perdersi, riparandosi di tanto in tanto nelle rientranze dei portoni. Case troppo alte che si richiudevano su di lui in una morsa di tenebra. Poi era successo qualcosa, e si era ritrovato di fronte al volto familiare di Lucien Mirand, uno degli esiliati che avevano da poco fatto rientro in città senza professioni d’innocenza.

Ricordava la terra battuta e le mura fradice, il selciato gelido sotto le scarpe troppo leggere, le braccia avvolte intorno al corpo per proteggersi dal freddo, i vestiti fradici incollati addosso. La taverna dei Lambert, l’olio che bruciava nelle lucerne e l’odore di chiuso di stanze non arieggiate.

A ridestarlo completamente fu il contatto dell’acqua fredda sulla faccia, che lo fece trasalire.

Tre giorni prima, Auguste aveva fatto irruzione in casa sua buttando giù la porta. Dorian si guardò intorno alla ricerca di uno specchio, un’imprecazione soffocata fra i denti. Lo specchio rotto che per poco non gli aveva distrutto la mano…

Sospirò: non avrebbe potuto adoperare la forza di entrambe le mani, in caso di impellente bisogno di stringere il collo al commissario Lambert. O ad Auguste, e non immeritatamente.

E poi, il cuore in subbuglio, la mente impacciata al pensiero di dover mettere le parole una di seguito all’altra per stornare il peggio, sbatté l’uscio alle proprie spalle e scese in strada.

 

* * *

 

Mezz’ora all’apocalisse. Dorian raccattò il bicchiere colmo dalle mani dello sguattero e scosse il capo in un blando ringraziamento. Il ragazzo si profuse in un breve inchino e filò via di gran volata.

Dorian socchiuse gli occhi nel baluginio tremolante delle lucerne. L’odore d’olio bruciato gli fece girare la testa, un principio di nausea come una calamita irresistibile che lo trascinava in basso. Aguzzò l’udito, tentando disperatamente di ritagliarsi fuori dall’odioso brusio che gli pungeva le orecchie.

La risata dell’oste per un attimo gli rammentò quella, simile e altrettanto perforante, del commissario Lambert.

Ventotto minuti all’alba. Lambert minore che strillava qualcosa all’indirizzo del giovane sguattero, prima di rispedirlo tra gli avventori. Dorian avvertì un accesso di collera rimordergli lo stomaco. Strinse i denti: se avesse osato maltrattare il ragazzino, e qualcosa lì in fondo al retrobottega gli avesse confermato il peggio, non avrebbe più risposto di sé, e tutto sarebbe andato a puttane: l’accordo di cinque minuti con Lambert maggiore, l’insabbiamento del caso, il gioco da consumarsi sul filo di lana. Tutto.

Lentamente, soppesò il bicchiere tra le dita. Seguì le ombre che danzavano sulla superficie oscillante del liquido.

Dorian si sentì quasi soffocare, nell’attimo in cui ingollò d’un fiato il liquore. Un pugno dritto allo sterno. Trattenne il respiro, gli occhi che bruciavano, lasciandosi andare con la schiena contro il muro, la panca malandata che cigolava sotto il suo peso. Sollevò lo sguardo al soffitto, mentre una specie di artificiosa tranquillità – non dissimile dalla follia – gli distendeva i muscoli, e si sentì meglio.

Il commissario Lambert approfittò di quell’istante ritagliato nell’ovatta per palesare la propria presenza, inquadrato nella porta ad arco tra bottega e sottoscala.

Dorian deglutì a fatica. I suoi nervi si tesero per qualche attimo, ma subito cedettero al curioso calore che gli montò fin nel cervello. Socchiuse gli occhi, le labbra distese in un sorriso.

Lambert gli scoccò un’occhiata sardonica e accennò verso un angolo appartato.

Dorian annuì di sottecchi. Si risollevò in piedi con le gambe molli e accettò il secondo sigaro della giornata.

Si lasciò ricadere seduto di fronte al commissario. Non riuscì a domandarsi dove i suoi stessi gesti volessero portarlo. Improvvisava. Lo sguardo perso sulle mosche che volavano, accostò il sigaro alle labbra in un gesto fluido, studiato. Ammiccante.

Ridacchiò. Forse stava diventando un po’ isterico. Forse, stordendosi abbastanza, avrebbe retto tranquillo fino all’indomani mattina. Comunque fosse andata. E poi il sonno si sarebbe trascinato via il ricordo.

- Vuoi qualcosa da bere? – il commissario schioccò le dita in direzione dello sguattero.

Allungandosi verso il tavolo, cercava di allentare le distanze.

Dorian annuì, muscoli della faccia costretti in un sorriso smaccato. Un conato di vomito, presto messo a tacere da un’abbondante sorsata dritta in gola, e poi tutto andò liscio. Perfettamente al suo posto.

Il volto del commissario era tutto un ghigno compiaciuto, ogni gesto calmo, misurato. Una piega sarcastica nell’angolo della bocca, mentre gli sfilava il bicchiere di mano contro la sua volontà. Un brusio impercettibile dentro la testa.

Continuò ad annuire senza ascoltare una sola parola, come un tic, come un sogno in cui il tempo scorre veloce.

Annuì persino quando Lambert lo afferrò per una manica e lo costrinse ad alzarsi. Vacillò per un attimo, la stanza un bagliore confuso che gli vibrava nella testa. L’alcool che faceva il suo corso, le gote in fiamme e una gran voglia di scoppiare a ridere, dire qualcosa di irriverente e mandare tutto a monte.

Aggrappato al corrimano, il passo malfermo, un’inedita scintilla di lucidità gli fece buttare lo sguardo sulla schiena del commissario che procedeva davanti a lui. Il sorriso di creta gli morì sulle labbra, e per la terza volta fu tentato di tornare indietro, di fingere che fosse stato tutto un orrendo malinteso, di non reprimere ancora la sensazione di disgusto – ma fu solo un istante.

In silenzio, osservò Lambert. Più basso di lui, robusto ma con un nonsoché di rilasciato. Il passo trascinato di un paio di gambe sottili che si tiravano dietro con una certa agilità un corpo da bevitore consumato. Sorrise: più che del vecchio puttaniere in pensione, gli dava l’idea piuttosto di un grosso tacchino. Strinse i pugni: avrebbe potuto sopraffarlo con facilità e tagliare la corda in tempo. In un’altra occasione e senza la testa di Auguste da portare in salvo.

Con un gesto nervoso, scostò via alcune ciocche di capelli che erano andate a solleticargli il viso. Tirò su col naso e poi rimase lì, a metà strada tra piano terra e primo piano, accasciato contro la ringhiera.

Il commissario fece tintinnare un mazzo di chiavi, si volse di scatto e lo soppesò da capo a piedi. Una piega interrogativa sulla fronte e le guance paonazze, e quel sorriso odioso, come una maschera grottesca.

Dorian distolse lo sguardo, uno strano senso di déjà-vu che non voleva saperne di andarsene. Abbozzò un passo, e un brivido giù per la schiena gli fece quasi perdere l’equilibrio. L’ennesima vampata di calore al viso giunse a sciogliergli i nervi. Altri quattro passi verso il baratro. Un sospiro.

Le pareti danzarono intorno a lui come fantasmi, quando varcò la soglia della camera. La stanza lo accolse con il suo abbraccio polveroso e il rumore di porte sbattute.

Dorian si osservò intorno; osservò il commissario che si era lasciato andare su una seggiola e lo scrutava come l’attrazione principale di una fiera ben riuscita. Scorse il mazzo di chiavi che gli pendeva dalla cintura, e comprese di essere in gabbia. Immobile al centro della stanza, come un albero spazzato dal vento.

Lambert sollevò gli occhi al cielo. Si grattò la nuca, soprappensiero – qualche capello scuro che sfuggiva dalla parrucca. Tese le mani davanti a sé, il viso composto in un’espressione accondiscendente, come a dover trattare con un bambino o con un matto.

- Non ho pagato per osservare il tuo bel faccino, Desgrais – masticò.

Aveva tolto quel “voi”, così fuori luogo tra cliente e puttana.

- Non voglio i vostri soldi – Dorian si morse il labbro.

Lo morse a sangue.

- Già… – il commissario si passò una mano sulla faccia rasata, meditabondo – Tu vuoi qualcosa di più. Vuoi che copra il culo a quel tuo amico… anche se in cambio mi prenderò il tuo, e non mi pare t’importi granché. Curioso.

 

Il vostro non lo scollereste da quella dannata sedia neppure se vi rapissero vostra madre sotto gli occhi. È così che vi destreggiate con i ratti più grossi: spaventando quelli piccoli.

 

Dorian intrecciò le braccia sul petto, spostando il peso da un piede all’altro, il soffitto scuro che pendeva su di lui come un ammasso di ragnatele; il disegno monotono della tappezzeria come un intreccio di serpenti.

Lambert spalancò gli occhi come alla ricerca di qualcosa, di una nota stonata nell’aria.

- …che ti spogli io, ragazzo, non mi pare sia compreso nel prezzo – cinguettò.

Dorian si sforzò di deglutire e reprimere la rabbia, ma si rese conto in quel momento di avere la bocca terribilmente asciutta. La gola riarsa e le labbra come corteccia, e il sapore dell’alcool incollato alla lingua.

Il commissario si sfilò la giacca e la gettò sul tavolo. Un aroma di cipria e di qualche profumo dozzinale si sparse nella stanza, schiaffeggiandolo in pieno volto. Dorian indietreggiò.

Vide Lambert socchiudere le palpebre, indulgente. E fissarlo in volto con due iridi come spilli.

- Ho capito – riprese a lisciarsi la pettorina, meditabondo – Non ti ricordi come si fa. È passato anche del tempo, da quando eri nel giro. Eppure l’arte di prenderlo in bocca non si dimentica da oggi a domani – e gli scoccò l’ennesimo sorrisetto storto.

Dorian si sentì stringere da una morsa d’angoscia e per un attimo fu sul punto di rotolare al suolo. Dovette stringere le palpebre e concentrarsi per restare in piedi, la fronte corrugata e un senso di vuoto in fondo al petto.

C’era il solito, fottuto tassello che non tornava mai a posto. E il commissario lo prendeva in giro: per lui era tutto uno scherzaccio tra compagnoni di bevuta. Si era tanto immedesimato nel ruolo, da rendersi straordinariamente credibile a trattarlo da puttana.

- Spogliati, dai – Lambert si esaminò distrattamente i polsini della camicia, annoiato.

Forse stava perdendo interesse.

- Hai un bel pacco e un bel fondoschiena, d’accordo? – rincarò la dose – L’unico peccato è che continui a startene impalato.

Dorian si morse il labbro, sforzandosi di mantenere la calma e lo stato allucinatorio necessario a staccarsi al più presto da inevitabili contingenze.

Non era neppure la prima volta.

Un lampo di consapevolezza lo fece trasalire; a malincuore, obbedì al comando e si contorse per liberarsi della giacca. Quindi, con dita incerte, esitò tra le pieghe della cravatta, sciogliendo lentamente il nodo.

Lambert sollevò un sopracciglio, scettico.

- Sì, così mi fai addormentare… – sussurrò.

Dorian chinò lo sguardo. Il pavimento a scacchiera gli ondeggiava sotto gli occhi, nel chiarore tremolante delle candele. A breve sarebbe calata la notte, chiudendolo dentro il suo incubo di cristallo. Ma i suoi occhi si sarebbero abituati alla tenebra, e lui avrebbe serrato le palpebre lasciandosi cullare dolcemente, in attesa della deriva.

Quando la sua mente cominciò a vacillare, la luce delle candele bruciava sulla sua pelle nuda. Tutto ridicolmente distante, confuso sotto uno spesso strato di vapore.

Lambert si lasciò sfuggire un fischio d’approvazione e si coprì il volto con le mani. Una risatina maligna si spanse nell’aria, penetrando nella nebbia.

- Santo Iddio… – borbottò – Sei biondo dappertutto.

Dorian chiuse gli occhi, il viso verso il cielo, ogni brano di pelle esposto alla luce e all’ombra. E a uno sguardo che scivolava addosso come inchiostro viscido, come qualcosa che lascia impronte di fango che non vengono via. Lo sentì colare lentamente lungo le spalle, addensarsi intorno ai fianchi, giù lungo il ventre. Sulle gambe diritte che lo inchiodavano al suolo.

Dorian chiuse gli occhi, il silenzio era piombo fuso incollato alle pareti. Sentì la testa girare e barcollò fino alla piccola toeletta all’angolo. Puntò i gomiti, le palpebre serrate per non scorgere il proprio riflesso nello specchio, e mille altre immagini – solo nella sua testa –, annunciate da una cantilena sottile.

 

Rilassati e finirà presto.

Non pensare a nulla.

Soffia sulla candela, spegni la mente e stai sereno. Distaccato, gelido. Non sei tu, quello piegato in una posizione equivoca sul mobile da toeletta.

Non pensare alle mani che violano il corpo. Che indugiano verso l’inguine e si muovono.

È tutto… meccanico. Solo un gesto freddo e meccanico. Le sue mani che tastano dove sanno di poterti estorcere qualche brivido. Di terrore.

Rilassati, e tutto andrà meglio.

 

- Cerca di fare in fretta! – ringhiò, quando sentì un paio di dita calde scorrergli lungo la colonna vertebrale.

- Ehi! – il commissario si scostò appena, prorompendo in una risata beffarda.

E poi, con orrore, Dorian avvertì quelle stesse dita ruvide avvitarsi dolcemente intorno al suo sesso. Strinse i denti, e un impulso improvviso di sfuggire il contatto. Chiuse gli occhi, pressato contro il mobile da toeletta, desiderando di diventare aria e cenere.

- È un peccato, sai? Certo, se proprio vuoi, posso accontentarti adesso – Lambert gli soffiò tra le scapole; scese più in basso – Ma qui ci avrei fatto miracoli…

Dorian socchiuse gli occhi, la vista annebbiata, tentando di smarrirsi nel luccichio tremolante della candela. A interrompere il suo estraniamento fu uno strattone improvviso alla nuca, e i capelli che gli ricaddero davanti al viso. Poi sentì Lambert sogghignare, mentre gli tormentava un ricciolo biondo.

Dorian si chiese se non fosse eccessivo vivere quel gesto come un’intima umiliazione, o se fosse piuttosto il liquore ingurgitato, quella sera, a non decidersi a fare il proprio dovere.

- …e anche tu avresti potuto fare miracoli, Dorian. Qualche annetto fa. Con un fondoschiena simile, a quest’ora ti saresti vestito d’oro.

Dorian inspirò profondamente e si morse le dita. Non poteva imprecare o divincolarsi; al massimo poteva mordersi il labbro.

- Muoviti… – biascicò tra i denti.

Muoviti, vecchio schifoso. Falla finita con questa tortura. Ora.

- D’accordo, quanta fretta…

Dorian represse un grido, quando Lambert entrò in lui. Boccheggiò, il respiro incastrato in gola.

Lambert rideva, ma lui non lo ascoltava.

- Visto, io ho provato ad avvertirti…

Il secondo affondo gli spezzò il fiato. Dorian premette il viso contro la superficie fredda del piano, la coscienza coagulata in qualche anfratto nascosto.

Obbedisci e poi vattene.

- No, non sei cretino. Lo sapevi che avrebbe fatto male. Ora sta’ calmo…

Dorian conficcò le unghie nel legno.

Solo un atto meccanico, senza nessuna implicazione.

Il commissario si piegò su di lui fino a schiacciarlo sotto di sé. Dorian si sentì soffocare.

Non sentirai un mezzo sussurro

Un attimo, e una mano impertinente corse a scostargli i capelli dalla faccia. Dorian scosse il capo per scansarsi. Poi sentì le dita di Lambert sfiorargli il collo.

- Ma che bel monile… – tubò.

Dorian trasalì. Le solite dita prepotenti soppesavano l’anellino d’oro che portava appeso all’orecchio.

- Strano, un prostituto di strada che se ne va in giro con questa roba addosso… – sghignazzò – Che damerino!

Dorian sentì un accesso di collera esplodergli nel petto. Il suo unico, incerto spiraglio visuale si colorò di vermiglio. Di scatto, schiaffò via quella mano appiccicosa e fece per liberarsi della sgradita presenza con un colpo di reni. Avrebbe ribaltato la situazione a suo favore – in un’altra occasione, forse –, perché non era un fuscello esposto al vento, dannazione, e il commissario era vecchio e flaccido.

Ma stavolta la ribellione fu presto domata da un paio di mani risolute che lo abbrancarono per i fianchi con un gesto rude, premendolo contro quel dannato mobile traballante.

- Lascialo! – soffiò Dorian, portandosi una mano all’orecchio – È di mia madre.

Il commissario si lasciò sfuggire un sibilo e allentò la presa.

- Diavolo… Tua madre!

Tutto ciò che mi resta di lei…

- Regalo di un cliente ricco – altre risa sguaiate – E tu sei tutto tua madre, vedo.

No, sua madre no. Non ne aveva diritto. Dorian strinse le palpebre. Tentò di afferrare qualcosa oltre il velo di lacrime che gli adombrava la vista. Non il suo volto riflesso, e quell’immagine orribile, con un bastardo che torreggiava su di lui, lo teneva stretto e lo tastava tra le gambe. Non gli importava: era tutta un’orribile farsa.

E poi, di colpo, tutto fu di nuovo sereno, un senso di freschezza che gli pervase piacevolmente i polmoni. Le gambe cedettero, e scivolò nell’oblio.

 

  

 

 

 

 

 

* * * 

 

Buonasera a tutti!^^ Dopo tempi biblici, finalmente torno ad aggiornare questa storia che è ormai diventata una storia infinita... Ringrazio i nuovi e i vecchi lettori, ringrazio chi ha recensito e chi ha aggiunto NT tra le storie preferite/seguite/da ricordare.

Poiché le note a piè di pagina non vengono mai per caso (specie dopo la *geniale* trovata delle risposte immediate ai commenti), approfitto per fare un po’ di pubblicità non-occulta. Se vi capita e, dopo 14 pagine di capitolo, siete ancora in vena di affaticarvi le retine tramite lettura al pc, consiglio

Portami a vedere le stelle, originale scritta a quattro mani con Lady Aika; e

Il bacio dell’aspide, altra mia originale, venuta alla luce dopo NT, ma a cui sono ugualmente affezionata.

Bene, ringrazio chiunque sia arrivato sin qui e do appuntamento al prossimo capitolo!^^ <3  

   
 
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