Capitolo
28
Il
prezzo da pagare
Seduto
in un angolo in penombra, nell’ozio mattutino della locanda, Dorian lasciava
scorrere lo sguardo su ogni avventore al suo passaggio. Nessun elemento
dell’intera stanza catturava la sua attenzione per un lasso di tempo
accettabile: beveva ogni dettaglio dell’ambiente, ma senza vederlo
davvero.
Il
solo interrogativo che gli rimbalzava nella mente, perché lì e non nella sua
casa, tra le sue quattro mura familiari. E quale volo assurdo, quella notte,
l’aveva proiettato da casa di Auguste – dal suo intento masochistico di seguire
attimo dopo attimo la complessa opera di seduzione di Fernand ai danni del
padrone di casa – alla strada cosparsa di polvere sotto il baluginio malevolo
dei lampioni; e poi, da lì, per qualche assurdo sbalzo temporale, qualche
bicchiere di troppo – o chissà quale altra astruseria gli avesse suggerito il
morso di un’irrazionale gelosia –, direttamente alla locanda dei Lambert immersa
nel mattino inoltrato. Un salto repentino che la mente faticava a ricomporre in
una trafila logica.
Dorian
posò il bicchiere sul tavolo e si prese il viso tra le mani. Impossibile tentare
di ricucire la successione logica degli eventi: troppi punti
oscuri.
Chissà
se davvero, a un certo punto, gli fosse saltato in mente di mettere a tacere
l’odioso ribollire dell’animo con una dose d’alcool; se la sua coscienza si
fosse attenuata, annegata insieme alla piccola moltitudine infelice che come
lui, quella sera, aveva portato i propri passi fino alla bettola dietro
l’angolo. Se davvero, a un certo punto, un’anima pietosa l’avesse raccattato
privo di sensi e infilato sotto le lenzuola di una stanza
qualsiasi.
Sospirò.
Qualcosa l’aveva dispensato da una
notte all’addiaccio, perché difficilmente i Lambert avrebbero tollerato
avventori ubriachi a bottega chiusa.
Chiuse
gli occhi. No, non poteva, in quelle condizioni, essere stato in grado di
trascinarsi fino al piano di sopra, con la mente tanto annebbiata da non
trattenere nessun frammento di ricordo. Buio completo, da quando aveva
abbandonato la dimora di Auguste fino al mattino, quando aveva strizzato gli
occhi sotto il chiarore pungente dell’alba, tra pareti sconosciute e l’odore
dolciastro e nauseabondo di mobili vecchi e qualche strano intruglio che
ribolliva nelle cucine. Per un istante, prima che i sensi mettessero bene a
fuoco la stanza, con orrore l’aveva sfiorato dal dubbio che una ronda di
passaggio l’avesse pescato ubriaco in un vicolo e sbattuto in cella. Per una
volta, ringraziò la signora Bertrand e le sue abitudini
mattiniere.
Il
motivo per cui quella mattina, per quanto si sforzasse, non sarebbe riuscito a
cavar fuori un resoconto attendibile della sua notte brava, stava in quei
frammenti che, per uno strano gioco della sua memoria, sembravano essere stati
cancellati dalla sua mente.
Sospirò.
Non era un sintomo che deponeva a suo favore, e qualcosa, nelle occhiate ostili
dei Lambert, sembrava rammentarglielo con enfasi
ossessiva.
Dorian
distolse lo sguardo e si sentì avvampare. Se davvero aveva bevuto tanto da non
ricordare più nulla, l’ebbrezza poteva essersi rivelata causa di azioni
avventate, così come sembravano suggerirgli quelle occhiatacce. Come aprire
bocca più del dovuto, o al limite invitare qualche compiacente sconosciuto a
fare l’amore con lui lì su un tavolo sgombro, incurante di tutto e con l’unica
speranza di affogare al più presto il proprio fiele in un abbraccio rovente.
Magari, ingannarsi e fingere di essere Fernand tra le braccia di Auguste –
perché Dorian lo stupido ce lo aveva spinto a viva forza, nell’onda di quella
passione latente, e questa era la giusta conclusione. O Auguste che bacia
Fernand, ignaro di un paio d’occhi fatalmente abili che si muovono nell’ombra; e
poi di nuovo Dorian che si ripete di aver agito per il bene del suo miglior
amico, nel momento in cui vorrebbe solo strapparsi i capelli e distruggere
tutto. Tornare indietro e scegliere di non essere lui, la mano invisibile che fa
precipitare gli eventi.
Non
c’era stata altra scelta,
gli diceva una voce sottile nella sua testa. Non c’era stata mai una scelta; e se anche
ci fosse stata, decidere non sarebbe spettato a te.
Era
andata così: una grigia, nauseante via di mezzo senza sentieri all’orizzonte;
solo il rischio calcolato di proseguire per quella strada obbligata senza sapere
cosa cercare.
Il
suo intervento non era stato determinante nell’accelerare qualcosa già in
atto.
La
sua parte meno razionale a tratti gli suggeriva di tornare là e scaraventare
Auguste contro il muro; ma solo per un attimo, un serpeggiante, puerile
desiderio di ripicca senza soluzioni concrete.
Sarebbe
tornato sui propri passi con il cuore pesante, continuando a domandarsi cosa ci
facesse in quella dannata locanda senza un percorso tangibile che ce l’avesse
condotto.
Soprappensiero,
si massaggiò le tempie doloranti e attese un’illuminazione. Silenzio. Per quanto
sforzasse la propria memoria, nulla gli rammentava di essere uscito da casa di
Auguste con l’intenzione di bere o scopare o escogitare qualche altro modo
ancora più raffinato per farsi del male.
Non
c’erano i postumi di un’ubriacatura coi fiocchi, rifletté, il polso che tremava
appena nel sorreggere il bicchiere colmo. Solo un senso di sfinimento, niente di
più; niente che si potesse ricondurre al vino più che alla
stanchezza.
Se
davvero quella sera aveva bevuto tanto da annullare ogni ricordo, allora non era
possibile che, in capo a un paio d’ore, si fosse diretto sulle sue gambe giù per
le scale, a chiedere una ciotola di sciacquatura dei
piatti.
Unica
traccia visibile dell’illustre sconosciuto che l’aveva traghettato fino al piano
di sopra, le quattro monete di bronzo che si era ritrovato addosso. Ricordava
bene: non aveva dei soldi con sé, quella sera. Non era neppure uscito di casa
intenzionato, alla prima occasione, di lasciarsi andare a qualche bicchiere di
troppo. Non era stato previsto.
Si
strinse nelle spalle. Forse erano solo vecchie crisi di amnesia che riprendevano
le briglie della sua esistenza, l’abisso come destinazione, perché tutto ciò che
circondava la notte appena trascorsa, era nebbia e ignoto.
Il
crescente brusio che invase la stanza, lo riscosse dai suoi pensieri. Dorian
sollevò lo sguardo, inquadrando di colpo davanti a sé la faccia incipriata del
commissario Lambert. Un paio di occhi porcini che luccicavano nella sua
direzione.
Fu
un attimo, e lo stomaco gli si contrasse in un conato di vomito, quando dinnanzi
ai suoi occhi balenò il dubbio di aver tanto perso il controllo, quella notte,
da lasciarsi sedurre da un uomo simile. Che magari ammirava compiaciuto la
carcassa sanguinante, residuo dell’ultimo banchetto, da qualche cantuccio in
penombra.
Rabbrividì,
ma l’istinto gli suggeriva di escludere l’ennesima, catastrofica ipotesi, ogni
sforzo teso a dissipare l’oscurità che velava la sua mente, un orribile
presentimento a serrargli la gola.
Il
commissario gli rivolse un cenno con la mano e passò oltre. Dorian si impose di
accantonare la questione. Con la coda dell’occhio, intravide un codazzo festante
radunarsi intorno al vecchio, prostitute comprese.
Dorian
chinò lo sguardo sulla superficie irregolare del tavolo. Pregò di passare
inosservato. Il sangue aveva iniziato a rimbombargli dolorosamente nelle tempie,
e non aveva nessuna intenzione di lanciarsi in bizzarri
convenevoli.
Fu
quasi un accordo siglato con lo sguardo. Louise e Ginette sfilarono davanti ai
suoi occhi senza degnarlo di uno sguardo, caracollando vicino al commissario in
una duplice, affettata sinfonia di ossequi.
-
Signore mie, cosa ci fate qui a quest’ora? – proruppe Lambert – Non si era detto
al tramonto…?
L’allusione
beffarda suscitò nelle due ragazze una risata argentina.
Dorian
arricciò il naso, mentre cercava di aguzzare l’udito. Tutto quel che sarebbe
riuscito a captare si risolse in un sottile chiacchiericcio. Intuì solo che,
dopo le idiozie di circostanza berciate a gran voce, il commissario doveva aver
scucito una notizia tanto appetitosa da doversi riferire a bassa voce e da
tacitare immediatamente il piccolo uditorio. L’atmosfera di triviale
convivialità si era ripiegata in un acuto, nervoso
bisbiglio.
E
poi, senza preavviso, il commissario fissò lo sguardo nel suo con un sorrisetto
storto e procedette verso di lui. Dorian chinò lo sguardo, rassegnato, giacché
il suo progetto di svignarsela ed evitare così sgraditi convenevoli, era
naufragato sul nascere. Con uno sforzo non indifferente, riuscì a modellare i
propri muscoli facciali in un sorriso smaccato, camuffando la delusione. C’erano
urgenze ben più martellanti su cui sputare il sangue.
-
Ecco, Dorian, diteglielo anche voi! – la voce acuta di Ginette lo perforò da una
tempia all’altra.
La
prostituta lo raggiunse agitando i riccioli rossi e allargando le braccia verso
il cielo con fare declamatorio. Prese posto al suo fianco, abbarbicandosi al suo
braccio e sporgendo in avanti le labbra in un falso
broncetto.
-
Diteglielo anche voi che non è modo di trattare con una
signora!
Dorian
cercò di sottrarsi alla sua stretta e sollevò lo sguardo sull’altra ragazza,
Louise: dall’espressione delusa, speculare alla sua, dedusse che almeno loro ce
le avevano provate tutte, fino a quel momento, per distogliere le attenzioni del
commissario da lui ed evitargli qualche seccatura. O forse stava bollendo
qualcosa di più grosso.
Il
volto del commissario si contrasse in un ghigno.
-
Voi lo sapete, Dorian? No che non lo sapete, figurarsi, così giovane e bello… –
cinguettò con voce querula – E questo piace alle signore, del resto. Tuttavia,
si può dire la stessa cosa della… “qualità” delle prestazioni, se la vostra
testa bionda ha colto ciò che intendo?
Per
un attimo Dorian si sentì comprimere tra la nausea che gli contraeva lo stomaco,
e l’esigenza di replicare qualcosa di abbastanza volgare da ammutolirlo almeno
per un po’.
Non
seppe dire se fosse già accaduto, di trovare tanto fastidiosa la presenza del
commissario, ma quella vocetta insinuante lo stava mettendo a dura prova peggio
del previsto.
-
Certo che lo capite, non siete un bambino. Il latte dalla bocca ve l’hanno già
leccato via. Quello che voglio dire, che mademoiselle Ginette continua a negare,
è che spesso i giovani di bell’aspetto come voi si rivelano… freddi. Belli da
vedere, ma al dunque, una collezione
di borse dell’acqua calda. Come dire, non badano alla… “sostanza”, pensano basti
un faccino grazioso. Una donna vuole un amante capace, non solo un bel damerino
da salotto. Ma non tutti sapete mettere a frutto gli insegnamenti dei più
anziani – sussurrò, per poi scoccargli un’occhiata impertinente in mezzo alle
gambe, a bruciapelo – Sì, non si può dire a voi manchi la “sostanza” là sotto,
però… Può essere che la giovinezza, il fatto che quei capelli là siano ancora i
vostri, vi facciano trascurare le doti del buon amante.
Dorian
meditò se insultarlo fosse una decisione saggia. Forse il fatto che non
indossasse la divisa e figurasse di fronte a lui come un compagno di bevute
qualunque, gli avrebbe concesso piccole licenze senza il rischio di incappare in
qualche grana.
-
Non mi riferisco al caso vostro, Dorian – Lambert rincarò la dose – Vogliate
scusarmi se vi ho tirato in mezzo, ma la piccola sfrontata pretende la ragione…
– soggiunse, un cenno divertito verso Ginette.
-
Il signor Dorian non è un cliente, commissario – chiosò la ragazza con voce
sottile – Non ha bisogno di pagare per una bella donna nel suo
letto.
Dorian
intrecciò le braccia sul petto, le labbra serrate in un sorrisetto
spazientito.
-
Se sono tutte quale notizie del giorno, commissario, con permesso, io leverei il
disturbo. Abbiamo scoperto che chi è stato premiato da Madre Natura non si
impegna abbastanza a scopare, buono.
-
Beh, una vera novità ci sarebbe – il
commissario sollevò gli occhi al cielo; una pausa, come a soppesare la tensione
– Ma prima è meglio salutare le signorine Ginette e Louise. Non vorrei che
qualche mio sottoposto le sorprendesse in qualche ronda di controllo, finissimo
tutti nei guai. Niente puttane, a quest’ora. Il duca ha raddoppiato i controlli
in città. È la legge – sussurrò, senza trattenere una nota sarcastica – …che va
rispettata. Alla lettera.
Rimasti
soli di fronte a un tavolo traballante e due bicchieri mezzi pieni, il
commissario Lambert si guardò intorno e prese posto di fronte a Dorian. Aveva
cambiato faccia.
-
Tenete gli occhi aperti, ragazzo – masticò – E parlate piano, ché i tavoli hanno
occhi e orecchie.
O
forse Louise e Ginette hanno avuto il loro daffare per riferirmi le novità prima
che voi ci metteste le zampe.
-
Preferite aspettare che sia quella cornacchia della Bertie a darvi l’annuncio… o
qualche serpe tra i vostri amici? – ridacchiò a bassa
voce.
Dorian
sollevò un sopracciglio. Accettò con uno strattone il sigaro che il suo insolito
compare gli aveva appena allungato.
-
Prendete, amico. Ne avrete bisogno – incalzò il
commissario.
Dorian
sentì gli occhi bruciare per la profonda boccata. Poi un piacevole raschiare in
fondo alla gola, e l’aroma del tabacco che aleggiava intorno a
lui.
-
Posso sapere cos’è successo, commissario, o avete già cambiato idea? – lo
pungolò.
-
Due cadaveri, ragazzo.
Dorian
annuì, distratto, scuotendo le palpebre.
-
Ce ne sono già tanti, in città. Là fuori, ad esempio. Vedete quanti morti che
camminano…?
Alcuni
siedono pure dietro i tavoli delle questure…
-
Lasciatemi parlare, maledizione! Stamattina, all’alba. Li hanno trovati dei
pescatori, a ovest dietro il molo. La corrente li ha spinti verso le rocce, e
stamattina galleggiavano a riva. Non erano in buono stato, ma sembrano un
vecchio e un ragazzo. C’erano fori di proiettile.
Dorian
soffiò via una piccola nube di fumo, meditabondo.
-
Non sarebbe la prima volta che qualcuno da quelle parti cerchi di fare il furbo
e si dia al bracconaggio. Un banale incidente, e il responsabile avrà ben
pensato di far sparire il risultato della sua
“distrazione”…
- È
ciò che contavo di fare all’inizio: archiviare tutto come incidente di caccia,
fare un po’ di domande in giro e dissipare presto il panico. È solo che… tre
cadaveri nel giro di due settimane, non è normale. Non passeranno inosservati.
Prima il figlio di Emmanuel Mirand… Adesso questi due disgraziati che non hanno
nemmeno un nome.
Dorian
deglutì a vuoto. Posò il sigaro e intrecciò le braccia sul petto per mascherare
il tremore delle mani.
- E
cosa pensate di fare?
-
Se fosse per me, assolutamente nulla. Non voglio guai. Ma di là… – il
commissario puntò lo sguardo verso la finestra aperta, e poi da lì verso l’alto,
la cittadella – Dubito che si lasceranno convincere da una spiegazione banale… e
sospetta. Respingerebbero i fascicoli e non archivierebbero proprio un
accidente. Mi ci farebbero tornare su all’infinito, e non sarebbero contenti
fino a sbattere qualcuno sul patibolo. Comunque andranno le cose, passerà molto
tempo. Potrei aspettare che se ne dimentichino, parlare con qualche amico dei
piani alti, ché dichiari chiusa la questione a tempo e luogo. Ma la macchia si
sta allargando troppo per passare inosservata. Prima il vostro amico Mirand… Ora
questi due. Dovrò almeno fingere che le indagini procedano e pizzicare qualche
testa calda – una pausa studiata, durante la quale Dorian non si accorse che il
volto del commissario aveva mutato espressione – Il vostro amico Auguste de
Dorian
mise giù il bicchiere di scatto. Per un istante fu quasi certo che il suo
autocontrollo non avrebbe retto a ciò che si andava delineando nella sua mente,
e tutto quel che vedeva lasciava solo emergere dinnanzi a lui un ritratto a
sangue vivo. Un bicchiere lasciato infrangere inavvertitamente al suolo o un
tremore da servetta impressionabile avrebbero offerto uno spunto in più ai
sospetti della serpe.
Con
orrore, vide un sorrisetto viscido allargarsi sul volto del commissario. Lo vide
all’improvviso, quando due dita ruvide calarono sul suo volto e gli artigliarono
rudemente le guance.
-
Dopotutto… – biascicò a mezza bocca il commissario, e sul suo volto pareva
scomparso ogni accenno di tensione e ragionevolezza: solo una brama ferina –
Potrebbe essere necessario un piccolo… “incoraggiamento”, affinché il
sottoscritto sia ancora più solerte nel lavorarsi qualche vecchio, aristocratico
somaro là sopra, e potrei pure cambiare idea su quelli come voi, Dorian, e
convincermi che dopotutto anche i giovani e belli chiavano bene… Stasera alle
nove. Puntuale.
* *
*
La
porta richiusa alle sue spalle, Dorian mosse qualche passo nel suo appartamento
e si sentì svenire. Barcollò incerto per la stanza, fino a lasciarsi andare
inerte contro la parete, il capo stretto fra le mani.
Non
era il momento adatto perché il panico si impadronisse di ogni stilla di
lucidità. Poco tempo per riflettere, e l’unica cosa che lui desiderava era
barricarsi dentro casa e scomparire almeno per una decina di giorni. Come se
Lambert fosse uno stupido.
Ansimando,
si sfregò la faccia, cercando di dominare la tensione, le lacrime che gli
pungevano in fondo agli occhi e il tremito feroce.
Se
Lambert commissario aveva detto “alle nove”, significava un’ora a disposizione
per patteggiare, da lì al coprifuoco. Forse c’era persino la possibilità che il
bastardo avesse buttato giù quella specie di ricatto per gonfiare i muscoli e
dimostrare di saper adoperare, all’occorrenza, tutto il potere di coercizione
che il suo status gli conferiva. E pure abusarne.
Oppure,
rifletté con orrore, si sarebbe trascorso la sua seconda notte in quel posto
orribile. Dopo il coprifuoco non ci sarebbe più stato
scampo.
Dorian
strinse le palpebre, respirando profondamente. Poi, un
lampo.
Auguste.
Rammentava bene il suo stato, la sera in cui era penetrato in casa sua con
Raphäel. L’istantaneo, profondo sollievo nel saperlo tutto intero, al sicuro
nelle sue stanze. Sollievo e qualche punto interrogativo di
troppo
Adesso,
come un incubo, le tessere del mosaico tornavano dolorosamente a posto. E
l’immagine balenò davanti ai suoi occhi nella sua logica inappuntabile. Come un
vortice che lo trascinava giù.
Auguste
fuori di sé, una bottiglia di vino tracannata a metà e la faccia stravolta di
chi ha appena visto il diavolo.
Auguste
con l’aria affannata di chi è rientrato di corsa, inseguito dai lupi. Riverso
sul divano, a recuperare il respiro e la ragione in tutta
calma.
Auguste
reduce dalla sua notte di calcolata follia. La reticenza a parlare. La refurtiva
svanita nel nulla, le monete restituite a Raphäel…
Poi
la febbre era giunta a togliergli la lucidità, insieme alle frecce avvelenate
che neppure quella volta Auguste aveva mancato di scagliargli
addosso.
E
lui non era un ingenuo: immaginava quali fossero i delitti di chiunque avesse
preso parte a una guerra civile, ma ora che ogni frammento occupava il suo posto
in quel dannato quadro, tutto gridava al peggio.
Tutto
gli parlava di Auguste, l’uomo che l’aveva salvato e gli aveva insegnato a
ricominciare a respirare. Un uomo che non aveva esitato ad uccidere a sangue
freddo e portare avanti la sua recita infame, mentendo e ingannando
tutti.
Forse
lui stesso aveva messo in pericolo Lucien e ne aveva pagato le conseguenze. E di
nuovo, come se niente fosse, decideva di farsi da parte, di concludere l’opera e
tirarsene fuori da vigliacco. Lavarsi la coscienza e scaricare tutto sulle loro
spalle. Il terribile meccanismo a catena che lui aveva innescato, in cui lui li
aveva tirati dentro. La sottile guerra sotterranea alla quale lui stesso aveva
dato inizio, circondato da altri disperati e da ragazzini
sprovveduti.
Auguste
era in preda alla follia, o forse così terribilmente lucido che il vero suicidio
sarebbe stato fidarsi ancora di lui.
Dorian
avvertì la collera scorrergli addosso come uno spasmo doloroso. Per un attimo fu
tentato di rinunciare a raggiungere il commissario alla locanda, a patteggiare
la salvezza di Auguste e la sopravvivenza della congrega. Lasciarlo cadere nelle
mani del nemico senza battere ciglio.
Se
davvero le cose erano andate così. Se davvero Auguste li aveva
ingannati.
Se
per caso la sua mente non avesse in serbo qualcosa di così raffinato da ritenere
inopportuno coinvolgere persino loro, piccoli stupidi che si fidavano di
lui.
Se
davvero, nel giro di quattro anni, quello stesso Auguste, assassino e così pieno
di scheletri da non venirne mai a capo, avesse fatto qualcos’altro che non fosse
raccoglierlo dalla strada e allontanare da lui ogni concreta velleità di
attentare alla vita del duca. Era stato lui a distoglierlo dall’idea di
assassinare l’uomo che gli aveva tolto il padre e tutta la sua
vita.
Bravo,
Auguste. Hai giocato a meraviglia. Ti sei procacciato la nostra stima e hai
agito alle nostre spalle.
Dorian
si raggomitolò sul pavimento e strinse i pugni, le lacrime che premevano sulle
ciglia.
La
prima volta che Auguste l’aveva condotto con sé… L’aveva chiamato con il suo
nome e gli aveva ficcato nel petto quelle sei parole.
Tuo
padre? L’ha ucciso il duca.
Dopo,
solo il filarsi impercettibile di vetri rotti, qualcosa che scricchiola, e un
grido che per qualche strana combinazione sembrava proprio provenire dalla sua
gola, come un raschiare sulla carne viva, come una singolare
esplosione.
Ricordava
un insolito brusio e Auguste che lo stringeva a sé, che gli premeva il viso
contro il suo petto; cullandolo tra le sue braccia, gli aveva sussurrato tra i
capelli e trasmesso tutto ciò che conosceva.
Un
assassino come educatore. Che aveva domato la sua collera inconsapevole e gli
aveva regalato un’effimera ragione di vita.
Adesso
era polvere davanti ai suoi occhi; non serviva cercare i puntelli per
scongiurare il crollo, sforzarsi di mantenere in piedi la
menzogna.
L’ineffabile
Auguste l’aveva ingannato. Gli aveva mentito perché non impazzisse. E poi era
inciampato sui suoi stessi passi.
Non
era abbastanza ciò che si ostinava a tenergli nascosto, e che bruciava come
fuoco. Ciò che si ostinava a tenere nascosto in un angolo, distante da ogni
sguardo, a sedimentarsi giorno dopo giorno.
Era
giusto che lui gli dovesse qualcosa?
Perché
se avesse mancato alla sua resa dei conti, se avesse lasciato che qualcun altro
si ingegnasse a stabilire comodi collegamento tra la morte di Lucien e i
cadaveri in riva al fiume, le conclusioni sarebbero precipitate dinnanzi a lui
senza speranza di arginare l’imprevedibile. Lambert avrebbe fatto il vigliacco
come sempre.
Trasalì.
L’occasione che il duca e il suo entourage attendevano da anni, fiere acquattate
tra i cespugli.
Dorian
si sforzò di fare mente locale. Auguste l’aveva detto mille volte: il duca non
si sarebbe mai abbassato a intervenire in occasione di reati comuni e zuffe tra
disgraziati. Non se la questione non si fosse fatta politicamente interessante.
Se
Dorian
si prese il capo fra le mani, il cuore in tumulto. Qualcuno, a suo tempo, aveva
compreso che per prendere Auguste nella rete sarebbe stato più facile annullare
la condanna in contumacia e permettergli di fare ritorno in città. Meglio che
lasciare le serpi fuori città, libere di fare danni e organizzare sacche di
resistenza.
Quattro
anni di clandestinità, e Auguste non era ancora diventato abbastanza astuto da
non perdersi in trucchetti da prestigiatore e smanie da rivoluzionario fallito.
Come un ragnetto troppo ambizioso che alla fine si ritrova invischiato nella
propria tela.
Le
conseguenze sarebbero giunte come un fiume in piena. A meno che non fosse stato
lui a giocarsi la sua possibilità e sperare in un buon patteggiamento. Troncare
le gambe alla faccenda sul nascere. Non c’era più molto tempo per spremersi le
meningi alla ricerca di una strategia. Avrebbe dovuto parlare con… con Ambrosie,
con Raphäel. Con Auguste. E mollargli un pugno di tutto
cuore.
Oppure
cedere a Lambert – arginare l’inondazione quando è ancora pioggia sottile,
corrompendo un uomo da nulla.
Sarebbe
stato umiliante e patetico, rivelare il prezzo da pagare per quel salvataggio
sull’orlo del burrone. Il commissario non avrebbe collaborato a insabbiare il
caso, finché lui non avesse dato il via.
Non
si accorse di essere precipitato in una nube di sogni
agitati.
* *
*
C’era
il pallore di vetro del volto di Lucien dietro un velo di fumo, le dita di marmo
intrecciate sul petto; l’aveva sfiorato e gli era parso di sentire il fremito
del respiro perduto. Auguste stava in piedi di fronte a lui, il viso simile a
gesso, tanto da fargli dubitare quale fosse tra i due il morto: quello disteso o
quello in piedi. Non vi era aria di funerale. C’era un’indifferenza diffusa.
C’era l’ossessione serpeggiante sul volto di Fernand, e Ambrosie e Raphäel
seduti su un divanetto in fondo alla stanza, lei sulle ginocchia di lui in un
gesto da considerarsi azzardato. Discutevano fitto.
Poi
la stanza evaporò, e vide di nuovo Auguste, intento a minacciare il commissario
Lambert con una pistola e intimargli di sparire; solo che poi nello scontro
partiva un colpo che rischiarava a giorno la stanza, uno sprazzo lampeggiante
che gli lasciava distinguere a malapena i contorni.
All’improvviso
era per strada, con una pioggia insistente che picchiava sul selciato, e nastri
di nebbia striscianti che si sollevavano dal suolo, impicciando i suoi passi.
Poi Lucien lo trascinava fino ad una specie di taverna per ripararsi dalla
pioggia. Là dentro, qualcuno cianciava alle sue spalle: una voce sottile come
uno stiletto gli dava del miserabile e lo chiamava bastardo, puttana ufficiale
di una masnada di traditori.
* *
*
Si
ridestò di soprassalto, la faccia premuta contro il pavimento e un braccio
insensibile, la mente annebbiata dall’accozzaglia di sequenze illogiche che gli
aveva recato il suo sonno sul letto di spine. Non era passato il senso di
vertigine che l’aveva ridestato il mattino.
Nei
suoi sogni, Lucien era un’immagine tangibile e nessuno faceva menzione della sua
morte. E Auguste era inquietante come sempre.
Dorian
si strofinò la faccia, infastidito. Era pomeriggio inoltrato, uno squallido
chiarore giallastro che inondava i muri delle case al di là della finestra,
monito beffardo del giorno che declinava. Una nuvola di pulviscolo dorato
danzava davanti ai suoi occhi, colpito da un cono di luce viva – lo stesso che
aveva gentilmente provveduto a strapparlo via dal suo
sonno.
Mancava
poco, e un nodo d’angoscia gli costringeva la gola alla sola prospettiva di
mettere piede fuori casa. Non quella sera, non dopo quei
discorsi.
Ricordò
che una volta aveva davvero vagabondato nelle stradine periferiche sotto la
pioggia fino a perdersi, riparandosi di tanto in tanto nelle rientranze dei
portoni. Case troppo alte che si richiudevano su di lui in una morsa di tenebra.
Poi era successo qualcosa, e si era ritrovato di fronte al volto familiare di
Lucien Mirand, uno degli esiliati che avevano da poco fatto rientro in città
senza professioni d’innocenza.
Ricordava
la terra battuta e le mura fradice, il selciato gelido sotto le scarpe troppo
leggere, le braccia avvolte intorno al corpo per proteggersi dal freddo, i
vestiti fradici incollati addosso. La taverna dei Lambert, l’olio che bruciava
nelle lucerne e l’odore di chiuso di stanze non
arieggiate.
A
ridestarlo completamente fu il contatto dell’acqua fredda sulla faccia, che lo
fece trasalire.
Tre
giorni prima, Auguste aveva fatto irruzione in casa sua buttando giù la porta.
Dorian si guardò intorno alla ricerca di uno specchio, un’imprecazione soffocata
fra i denti. Lo specchio rotto che per poco non gli aveva distrutto la
mano…
Sospirò:
non avrebbe potuto adoperare la forza di entrambe le mani, in caso di impellente
bisogno di stringere il collo al commissario Lambert. O ad Auguste, e non
immeritatamente.
E
poi, il cuore in subbuglio, la mente impacciata al pensiero di dover mettere le
parole una di seguito all’altra per stornare il peggio, sbatté l’uscio alle
proprie spalle e scese in strada.
* *
*
Mezz’ora
all’apocalisse. Dorian raccattò il bicchiere colmo dalle mani dello sguattero e
scosse il capo in un blando ringraziamento. Il ragazzo si profuse in un breve
inchino e filò via di gran volata.
Dorian
socchiuse gli occhi nel baluginio tremolante delle lucerne. L’odore d’olio
bruciato gli fece girare la testa, un principio di nausea come una calamita
irresistibile che lo trascinava in basso. Aguzzò l’udito, tentando
disperatamente di ritagliarsi fuori dall’odioso brusio che gli pungeva le
orecchie.
La
risata dell’oste per un attimo gli rammentò quella, simile e altrettanto
perforante, del commissario Lambert.
Ventotto
minuti all’alba. Lambert minore che strillava qualcosa all’indirizzo del giovane
sguattero, prima di rispedirlo tra gli avventori. Dorian avvertì un accesso di
collera rimordergli lo stomaco. Strinse i denti: se avesse osato maltrattare il
ragazzino, e qualcosa lì in fondo al retrobottega gli avesse confermato il
peggio, non avrebbe più risposto di sé, e tutto sarebbe andato a puttane:
l’accordo di cinque minuti con Lambert maggiore, l’insabbiamento del caso, il
gioco da consumarsi sul filo di lana. Tutto.
Lentamente,
soppesò il bicchiere tra le dita. Seguì le ombre che danzavano sulla superficie
oscillante del liquido.
Dorian
si sentì quasi soffocare, nell’attimo in cui ingollò d’un fiato il liquore. Un
pugno dritto allo sterno. Trattenne il respiro, gli occhi che bruciavano,
lasciandosi andare con la schiena contro il muro, la panca malandata che
cigolava sotto il suo peso. Sollevò lo sguardo al soffitto, mentre una specie di
artificiosa tranquillità – non dissimile dalla follia – gli distendeva i
muscoli, e si sentì meglio.
Il
commissario Lambert approfittò di quell’istante ritagliato nell’ovatta per
palesare la propria presenza, inquadrato nella porta ad arco tra bottega e
sottoscala.
Dorian
deglutì a fatica. I suoi nervi si tesero per qualche attimo, ma subito cedettero
al curioso calore che gli montò fin nel cervello. Socchiuse gli occhi, le labbra
distese in un sorriso.
Lambert
gli scoccò un’occhiata sardonica e accennò verso un angolo
appartato.
Dorian
annuì di sottecchi. Si risollevò in piedi con le gambe molli e accettò il
secondo sigaro della giornata.
Si
lasciò ricadere seduto di fronte al commissario. Non riuscì a domandarsi dove i
suoi stessi gesti volessero portarlo. Improvvisava. Lo sguardo perso sulle
mosche che volavano, accostò il sigaro alle labbra in un gesto fluido, studiato.
Ammiccante.
Ridacchiò.
Forse stava diventando un po’ isterico. Forse, stordendosi abbastanza, avrebbe
retto tranquillo fino all’indomani mattina. Comunque fosse andata. E poi il
sonno si sarebbe trascinato via il ricordo.
-
Vuoi qualcosa da bere? – il commissario schioccò le dita in direzione dello
sguattero.
Allungandosi
verso il tavolo, cercava di allentare le distanze.
Dorian
annuì, muscoli della faccia costretti in un sorriso smaccato. Un conato di
vomito, presto messo a tacere da un’abbondante sorsata dritta in gola, e poi
tutto andò liscio. Perfettamente al suo posto.
Il
volto del commissario era tutto un ghigno compiaciuto, ogni gesto calmo,
misurato. Una piega sarcastica nell’angolo della bocca, mentre gli sfilava il
bicchiere di mano contro la sua volontà. Un brusio impercettibile dentro la
testa.
Continuò
ad annuire senza ascoltare una sola parola, come un tic, come un sogno in cui il
tempo scorre veloce.
Annuì
persino quando Lambert lo afferrò per una manica e lo costrinse ad alzarsi.
Vacillò per un attimo, la stanza un bagliore confuso che gli vibrava nella
testa. L’alcool che faceva il suo corso, le gote in fiamme e una gran voglia di
scoppiare a ridere, dire qualcosa di irriverente e mandare tutto a
monte.
Aggrappato
al corrimano, il passo malfermo, un’inedita scintilla di lucidità gli fece
buttare lo sguardo sulla schiena del commissario che procedeva davanti a lui. Il
sorriso di creta gli morì sulle labbra, e per la terza volta fu tentato di
tornare indietro, di fingere che fosse stato tutto un orrendo malinteso, di non
reprimere ancora la sensazione di disgusto – ma fu solo un
istante.
In
silenzio, osservò Lambert. Più basso di lui, robusto ma con un nonsoché di
rilasciato. Il passo trascinato di un paio di gambe sottili che si tiravano
dietro con una certa agilità un corpo da bevitore consumato. Sorrise: più che
del vecchio puttaniere in pensione, gli dava l’idea piuttosto di un grosso
tacchino. Strinse i pugni: avrebbe potuto sopraffarlo con facilità e tagliare la
corda in tempo. In un’altra occasione e senza la testa di Auguste da portare in
salvo.
Con
un gesto nervoso, scostò via alcune ciocche di capelli che erano andate a
solleticargli il viso. Tirò su col naso e poi rimase lì, a metà strada tra piano
terra e primo piano, accasciato contro la ringhiera.
Il
commissario fece tintinnare un mazzo di chiavi, si volse di scatto e lo soppesò
da capo a piedi. Una piega interrogativa sulla fronte e le guance paonazze, e
quel sorriso odioso, come una maschera grottesca.
Dorian
distolse lo sguardo, uno strano senso di déjà-vu che non voleva saperne di
andarsene. Abbozzò un passo, e un brivido giù per la schiena gli fece quasi
perdere l’equilibrio. L’ennesima vampata di calore al viso giunse a sciogliergli
i nervi. Altri quattro passi verso il baratro. Un sospiro.
Le
pareti danzarono intorno a lui come fantasmi, quando varcò la soglia della
camera. La stanza lo accolse con il suo abbraccio polveroso e il rumore di porte
sbattute.
Dorian
si osservò intorno; osservò il commissario che si era lasciato andare su una
seggiola e lo scrutava come l’attrazione principale di una fiera ben riuscita.
Scorse il mazzo di chiavi che gli pendeva dalla cintura, e comprese di essere in
gabbia. Immobile al centro della stanza, come un albero spazzato dal
vento.
Lambert
sollevò gli occhi al cielo. Si grattò la nuca, soprappensiero – qualche capello
scuro che sfuggiva dalla parrucca. Tese le mani davanti a sé, il viso composto
in un’espressione accondiscendente, come a dover trattare con un bambino o con
un matto.
-
Non ho pagato per osservare il tuo bel faccino, Desgrais –
masticò.
Aveva
tolto quel “voi”, così fuori luogo tra cliente e puttana.
-
Non voglio i vostri soldi – Dorian si morse il labbro.
Lo
morse a sangue.
-
Già… – il commissario si passò una mano sulla faccia rasata, meditabondo – Tu
vuoi qualcosa di più. Vuoi che copra il culo a quel tuo amico… anche se in
cambio mi prenderò il tuo, e non mi pare t’importi granché.
Curioso.
Il
vostro non lo scollereste da quella dannata sedia neppure se vi rapissero vostra
madre sotto gli occhi. È così che vi destreggiate con i ratti più grossi:
spaventando quelli piccoli.
Dorian
intrecciò le braccia sul petto, spostando il peso da un piede all’altro, il
soffitto scuro che pendeva su di lui come un ammasso di ragnatele; il disegno
monotono della tappezzeria come un intreccio di serpenti.
Lambert
spalancò gli occhi come alla ricerca di qualcosa, di una nota stonata
nell’aria.
-
…che ti spogli io, ragazzo, non mi pare sia compreso nel prezzo –
cinguettò.
Dorian
si sforzò di deglutire e reprimere la rabbia, ma si rese conto in quel momento
di avere la bocca terribilmente asciutta. La gola riarsa e le labbra come
corteccia, e il sapore dell’alcool incollato alla lingua.
Il
commissario si sfilò la giacca e la gettò sul tavolo. Un aroma di cipria e di
qualche profumo dozzinale si sparse nella stanza, schiaffeggiandolo in pieno
volto. Dorian indietreggiò.
Vide
Lambert socchiudere le palpebre, indulgente. E fissarlo in volto con due iridi
come spilli.
-
Ho capito – riprese a lisciarsi la pettorina, meditabondo – Non ti ricordi come
si fa. È passato anche del tempo, da quando eri nel giro. Eppure l’arte di
prenderlo in bocca non si dimentica da oggi a domani – e gli scoccò l’ennesimo
sorrisetto storto.
Dorian
si sentì stringere da una morsa d’angoscia e per un attimo fu sul punto di
rotolare al suolo. Dovette stringere le palpebre e concentrarsi per restare in
piedi, la fronte corrugata e un senso di vuoto in fondo al
petto.
C’era
il solito, fottuto tassello che non tornava mai a posto. E il commissario lo
prendeva in giro: per lui era tutto uno scherzaccio tra compagnoni di bevuta. Si
era tanto immedesimato nel ruolo, da rendersi straordinariamente credibile a
trattarlo da puttana.
-
Spogliati, dai – Lambert si esaminò distrattamente i polsini della camicia,
annoiato.
Forse
stava perdendo interesse.
-
Hai un bel pacco e un bel fondoschiena, d’accordo? – rincarò la dose – L’unico
peccato è che continui a startene impalato.
Dorian
si morse il labbro, sforzandosi di mantenere la calma e lo stato allucinatorio
necessario a staccarsi al più presto da inevitabili
contingenze.
Non
era neppure la prima volta.
Un
lampo di consapevolezza lo fece trasalire; a malincuore, obbedì al comando e si
contorse per liberarsi della giacca. Quindi, con dita incerte, esitò tra le
pieghe della cravatta, sciogliendo lentamente il nodo.
Lambert
sollevò un sopracciglio, scettico.
-
Sì, così mi fai addormentare… – sussurrò.
Dorian
chinò lo sguardo. Il pavimento a scacchiera gli ondeggiava sotto gli occhi, nel
chiarore tremolante delle candele. A breve sarebbe calata la notte, chiudendolo
dentro il suo incubo di cristallo. Ma i suoi occhi si sarebbero abituati alla
tenebra, e lui avrebbe serrato le palpebre lasciandosi cullare dolcemente, in
attesa della deriva.
Quando
la sua mente cominciò a vacillare, la luce delle candele bruciava sulla sua
pelle nuda. Tutto ridicolmente distante, confuso sotto uno spesso strato di
vapore.
Lambert
si lasciò sfuggire un fischio d’approvazione e si coprì il volto con le mani.
Una risatina maligna si spanse nell’aria, penetrando nella
nebbia.
-
Santo Iddio… – borbottò – Sei biondo dappertutto.
Dorian
chiuse gli occhi, il viso verso il cielo, ogni brano di pelle esposto alla luce
e all’ombra. E a uno sguardo che scivolava addosso come inchiostro viscido, come
qualcosa che lascia impronte di fango che non vengono via. Lo sentì colare
lentamente lungo le spalle, addensarsi intorno ai fianchi, giù lungo il ventre.
Sulle gambe diritte che lo inchiodavano al suolo.
Dorian
chiuse gli occhi, il silenzio era piombo fuso incollato alle pareti. Sentì la
testa girare e barcollò fino alla piccola toeletta all’angolo. Puntò i gomiti,
le palpebre serrate per non scorgere il proprio riflesso nello specchio, e mille
altre immagini – solo nella sua testa –, annunciate da una cantilena
sottile.
Rilassati
e finirà presto.
Non
pensare a nulla.
Soffia
sulla candela, spegni la mente e stai sereno. Distaccato, gelido. Non sei tu,
quello piegato in una posizione equivoca sul mobile da
toeletta.
Non
pensare alle mani che violano il corpo. Che indugiano verso l’inguine e si
muovono.
È
tutto… meccanico. Solo un gesto freddo e meccanico. Le sue mani che tastano dove
sanno di poterti estorcere qualche brivido. Di
terrore.
Rilassati,
e tutto andrà meglio.
-
Cerca di fare in fretta! – ringhiò, quando sentì un paio di dita calde
scorrergli lungo la colonna vertebrale.
-
Ehi! – il commissario si scostò appena, prorompendo in una risata
beffarda.
E
poi, con orrore, Dorian avvertì quelle stesse dita ruvide avvitarsi dolcemente
intorno al suo sesso. Strinse i denti, e un impulso improvviso di sfuggire il
contatto. Chiuse gli occhi, pressato contro il mobile da toeletta, desiderando
di diventare aria e cenere.
- È
un peccato, sai? Certo, se proprio vuoi, posso accontentarti adesso – Lambert
gli soffiò tra le scapole; scese più in basso – Ma qui ci avrei fatto
miracoli…
Dorian
socchiuse gli occhi, la vista annebbiata, tentando di smarrirsi nel luccichio
tremolante della candela. A interrompere il suo estraniamento fu uno strattone
improvviso alla nuca, e i capelli che gli ricaddero davanti al viso. Poi sentì
Lambert sogghignare, mentre gli tormentava un ricciolo
biondo.
Dorian
si chiese se non fosse eccessivo vivere quel gesto come un’intima umiliazione, o
se fosse piuttosto il liquore ingurgitato, quella sera, a non decidersi a fare
il proprio dovere.
-
…e anche tu avresti potuto fare miracoli, Dorian. Qualche annetto fa. Con un
fondoschiena simile, a quest’ora ti saresti vestito d’oro.
Dorian
inspirò profondamente e si morse le dita. Non poteva imprecare o divincolarsi;
al massimo poteva mordersi il labbro.
-
Muoviti… – biascicò tra i denti.
Muoviti,
vecchio schifoso. Falla finita con questa tortura. Ora.
-
D’accordo, quanta fretta…
Dorian
represse un grido, quando Lambert entrò in lui. Boccheggiò, il respiro
incastrato in gola.
Lambert
rideva, ma lui non lo ascoltava.
-
Visto, io ho provato ad avvertirti…
Il
secondo affondo gli spezzò il fiato. Dorian premette il viso contro la
superficie fredda del piano, la coscienza coagulata in qualche anfratto
nascosto.
Obbedisci
e poi vattene.
-
No, non sei cretino. Lo sapevi che avrebbe fatto male. Ora sta’
calmo…
Dorian
conficcò le unghie nel legno.
Solo
un atto meccanico, senza nessuna implicazione.
Il
commissario si piegò su di lui fino a schiacciarlo sotto di sé. Dorian si sentì
soffocare.
Non
sentirai un mezzo sussurro…
Un
attimo, e una mano impertinente corse a scostargli i capelli dalla faccia.
Dorian scosse il capo per scansarsi. Poi sentì le dita di Lambert sfiorargli il
collo.
-
Ma che bel monile… – tubò.
Dorian
trasalì. Le solite dita prepotenti soppesavano l’anellino d’oro che portava
appeso all’orecchio.
-
Strano, un prostituto di strada che se ne va in giro con questa roba addosso… –
sghignazzò – Che damerino!
Dorian
sentì un accesso di collera esplodergli nel petto. Il suo unico, incerto
spiraglio visuale si colorò di vermiglio. Di scatto, schiaffò via quella mano
appiccicosa e fece per liberarsi della sgradita presenza con un colpo di reni.
Avrebbe ribaltato la situazione a suo favore – in un’altra occasione, forse –,
perché non era un fuscello esposto al vento, dannazione, e il commissario era
vecchio e flaccido.
Ma
stavolta la ribellione fu presto domata da un paio di mani risolute che lo
abbrancarono per i fianchi con un gesto rude, premendolo contro quel dannato
mobile traballante.
-
Lascialo! – soffiò Dorian, portandosi una mano all’orecchio – È di mia
madre.
Il
commissario si lasciò sfuggire un sibilo e allentò la
presa.
-
Diavolo… Tua madre!
Tutto
ciò che mi resta di lei…
-
Regalo di un cliente ricco – altre risa sguaiate – E tu sei tutto tua madre,
vedo.
No,
sua madre no. Non ne aveva diritto. Dorian strinse le palpebre. Tentò di
afferrare qualcosa oltre il velo di lacrime che gli adombrava la vista. Non il
suo volto riflesso, e quell’immagine orribile, con un bastardo che torreggiava
su di lui, lo teneva stretto e lo tastava tra le gambe. Non gli importava: era
tutta un’orribile farsa.
E
poi, di colpo, tutto fu di nuovo sereno, un senso di freschezza che gli pervase
piacevolmente i polmoni. Le gambe cedettero, e scivolò
nell’oblio.
* * *
Buonasera a tutti!^^ Dopo tempi biblici, finalmente torno ad aggiornare questa storia che è ormai diventata una storia infinita... Ringrazio i nuovi e i vecchi lettori, ringrazio chi ha recensito e chi ha aggiunto NT tra le storie preferite/seguite/da ricordare.
Poiché le note a piè di pagina non vengono mai per caso (specie dopo la *geniale* trovata delle risposte immediate ai commenti), approfitto per fare un po’ di pubblicità non-occulta. Se vi capita e, dopo 14 pagine di capitolo, siete ancora in vena di affaticarvi le retine tramite lettura al pc, consiglio
Portami a vedere le stelle, originale scritta a quattro mani con Lady Aika; e
Il bacio dell’aspide, altra mia originale, venuta alla luce dopo NT, ma a cui sono ugualmente affezionata.
Bene, ringrazio chiunque sia arrivato sin qui e do appuntamento al prossimo capitolo!^^ <3