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Autore: sarolein    30/04/2011    2 recensioni
Non è un nome che ti rende una persona. Non è il passato che da alla tua vita un senso.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Spalanco gli occhi. Nero. Bianco. Dolore. Non so niente. Non so cosa pensare. Vuoto.
Dove sono? Chi sono? Cosa è successo?
Il panico prende possesso della mia mente. Non respiro, non riesco a respirare. Non riesco a parlare. Cosa succede? Ho solo domande.
Mi alzo troppo velocemente, un dolore lancinante continua a colpirmi la testa ripetutamente. È come se il cervello premesse con forza contro il cranio. Senza che me ne accorga, qualcosa di bagnato scende lento sulle mie guance calde. Ho paura, tanta paura. Vorrei morire. Non so niente. Cerco nella mia mente qualcosa che non c’è. Le mie mani raggiungono i capelli, le stringo a pugno.
«Basta..», sussurrò. «Basta!», grido con tutta la voce che ho in corpo.
Vorrei che il vuoto si dilagasse. Voglio vedere; voglio chiudere gli occhi e vedere qualcosa. Ora li chiudo ed il buio è ciò che si presenta.
«Che mi succede?!» Cerco di alzare la voce più che posso. Tutti devono sentirmi. Qualcuno deve dirmi cosa mi sta capitando. Qualcuno deve dirmi chi sono.
Mi guardo le mani, se non fossi sicura di averle mosse io stessa, non le riconoscerei. Di che colore sono i miei capelli? Come sono i miei occhi? Che cosa sono? Continuo a ripetermelo, e più me lo domando più vuoto prende posto nella mia mente.
Inizio a piangere. Urlo impazzita. Tiro calci al vento, cerco di scendere ma qualcosa mi ferma. Blocca le mie mani che avevano iniziato a graffiare il vuoto. Mi dimeno e mi divincolo da una presa forte che mi ferisce.
«No! No!», grido. «Aiutatemi! Aiuto!», continuo ad urlare. È tutto ciò che posso fare.
Voglio correre via da quel posto. È l'inferno. Io non sono viva. Voglio morire.
«Chiamate un dottore!» Un'altra voce ha iniziato ad urlare, ma le lacrime mi impediscono di vedere. La voce continua: «Presto!»
Qualcosa mi tiene bloccato il corpo. «Uccidimi! Uccidimi!» Perché non mi uccidono? La mia vita non ha senso.
Continuo ad urlare in preda agli spasmi. Non capisco più nulla. Nessun altro potrebbe urlare più forte di me. Alzo i pugni verso ciò che mi tiene ferma, lo colpisco con violenza. Le mie unghie penetrano la superficie. I miei piedi si agitano ad un suo tentennamento. «Ucci..!» Mi fermo di colpo.
Una punta fredda e appuntita mi colpisce il fianco. Non vale più la pena di sprecare energie inutilmente. Non so che cosa sia, ma la punta abbandona in fretta il mio corpo esanime. Non riesco più a pensare. Mi abbandono ad una forza più potente a cui non occorre opporre resistenza..
La mia testa è finalmente sul morbido. E poi..
 
«Secondo lei è una cosa temporanea?» Una voce affievolita e maschile parla. «Insomma, se si sveglia questa volta.. c'è una speranza che le cose tornino come prima?», continua.
Sento un sospiro preoccupato. Ci sono più persone. E mi stanno guardando, lo sento.
«Difficile dirlo.. Non sappiamo cosa le sia preso; sfortunatamente quando sono arrivato l'unica cosa che ho potuto fare è stato sedarla. Era impazzita e avrebbe sul serio potuto farti male» Questa seconda voce è molto diversa da quella che ho sentito per prima. È molto più bassa e mascolina, un tono cupo e raggrinzito.
La prima voce ride lievemente, con la paura di fare troppo rumore. Teme forse di svegliarmi? «”Avrebbe potuto”?», rettificò con una leggera allegria. «Mi ha già conciato male parecchio!»
Ora una pausa riempita solo dai nostri respiri regolari.
«Non capisco proprio cosa le sia potuto succedere.. ma ora è meglio non svegliarla. Un'altra ripresa brusca potrebbe agitarla peggio di prima», prosegue la voce più anziana. Era un uomo.
Ho dei ricordi confusi riguardo ciò che mi è appena successo. La testa mi fa ancora male. Preferisco non pensare. Farlo potrebbe farmi impazzire ancora, e non so perché.
«Sono davvero preoccupato per lei.. mi sento così in colpa» Il primo ragazzo aveva parlato di nuovo. È davvero preoccupato per me? Perché? Cos'è lui per me? Io non lo so. Non so più niente, forse non ho mai saputo. Anche le altre persone provano le stesse cose che provo io? Non credo. Non sembrano avere tentennamenti sul loro essere. Ne sono certa. Loro conoscono il loro nome, hanno persone che li amano e che amano. Hanno dei genitori. Hanno una storia, un passato. Gli unici istanti che ho vissuto io sono quelli che mi hanno resa pazza non so quanto tempo fa, forse nemmeno un'ora. Nessuno dovrebbe sentirsi così.
Per quanto ne so io sono nata oggi. Non so cosa siano i ricordi, perché non ne ho mai avuti, perché se chiudo gli occhi, e mi concentro, non trovo niente nella mia mente? Non vedo immagini, tuttò ciò che è presente sono sequenze sfuocate e imprecise delle mie mani che colpiscono l’aria.
«Ora scusami, ma ho dei pazienti che mi stanno aspettando..» A parlare è l'uomo più anziano. «In caso di bisogno non esitare a chiamarmi, e avvisami se si sveglia»
«Certo», acconsente l'altro.
I due si congedano, e sento che il ragazzo si è seduto accanto a me.
Vorrei tanto vederlo, era lui quella cosa che aveva cercato di tenermi ferma precedentemente. Era ferito. Eppure era rimasto. Allora mi conosce, forse sa chi sono, magari potrà rispondere a tutte le mie domande. Però non voglio aprire i miei occhi, ho paura di rendermi conto di quante cose non so. Vorrei restare ad occhi chiusi per tutto il resto della mia vita. Vorrei non esistere.
Costringo le mie palpebre a sollevarsi, è l'unica soluzione che ho se voglio venire a capo di tutto questo casino.
Non mi ero resa conto di essere girata su un fianco. Le immagini si mettono a fuoco lentamente, dopo una manciata di secondi mi ritrovo a vedere con chiarezza ogni elemento presente in quella stanza. È un ospedale. Perché sono in un ospedale? Sono malata?

La prima cosa che vedo è il suo viso contratto in una smorfia preoccupata. Mi guarda, ma non si è accorto dei miei occhi fissi sui suoi. Sarebbe scontato dire che non l'ho mai visto prima. Ha dei tratti armonici che lo rendono così familiare.. forse è solo perché lui è stato il mio primo ricordo. La prima cosa che ho visto. Ha degli occhi di un marrone così caldo da far sparire il freddo che avevo fino a un attimo fa. La sua espressione mi fa sentire in colpa. È dispiaciuto per me, me lo mostra la fronte corrugata.
Il mio sguardo si posa sulla fasciatura bianca che copre entrambe le sue braccia. In un istante mi tornano in mente le immagini confuse di prima. Ora si che mi sento uno schifo.
«Mi dispiace tantissimo..», gli sussurro dispiaciuta, mentre delle lacrime salate iniziano a sgorgare dai miei occhi.
Un lampo attraversa le sue pupille nere. Si è accorto che mi sono svegliata e la sua reazione mi sorprende. Si alza dalla sedia davanti a me e si china sul mio viso appoggiando le mani sul letto.
«Hey!», esclama, mentre sul suo viso sembra apparso un lieve sorriso compiaciuto e sollevato. «Come stai?», mi domanda con affanno.
In realtà non mi importa di come sto fisicamente, non è questo il mio problema. «Mi dispiace», ripeto.
La sua espressione si fa confusa, evidentemente non capisce di cosa io stia parlando.
Allora guardo il tessuto bianco avvolto attorno alle sue braccia.
«Oh.. intendi questo..», afferma guardandosi anche lui le fasciature. Poi mi sorride, le sue labbra curvate all'insù non mi fanno sentire meglio. «Non preoccuparti, sono solo pochi graffi»
«Ma sono stata io..», gli sussurro cercando di trattenere le lacrime dalla vergogna. «Non so come..» Mi fermo qui, non riesco ad andare avanti. Il solo ricordare quegli istanti bui mi ferisce.
Il ragazzo-sconosciuto illumina il suo viso con un'espressione serena e rassicurante. Sento caldo. Un tepore che mi avvolge morbidamente. «Non eri in te.»
Non mi sento affatto meglio, continuo a guardare i suoi arti immaginando i lividi ed i graffi che nasconde la benda raggrinzita.
Lui riprende: «Come ti senti?»
Io mi alzo a sedere ed abbasso lo sguardo sulle lenzuola ruvide. Questa volta le lacrime sono più forti di me. Non riesco nemmeno a sforzarmi di farle smettere. Mi sento così vuota, così persa. La mia esistenza non ha un senso. Le domande si affollano nella mia mente fragile; le spingo via. Le allontano dalla mia realtà. Non possono ferirmi ancora una volta.
«Non lo so..» La mia voce è smorzata dal groppo in gola che si è creato dal pianto. «Io chi sono?»
Il modo in cui lui mi sta guardando mi fa paura. È spaventato. Perché? I suoi occhi sono languidi e privi di luce. Mi guarda, ma è come se io fossi trasparente e lui guardasse ciò che è dietro di me. Che gli succede?
«Come..?» mi domanda con voce tremante lo sconosciuto. «Non ti ricordi come ti chiami?» Percepisco con facilità il panico nel suo tono e nei suoi occhi. Sta aspettando che io gli risponda, ma non credo ci sia molto altro di dire.
Lui si alza, si allontana dal letto, corre fuori dalla stanza lasciandomi sola. Non te ne andare! avrei urlato, ma non trovavo la voce. Ora mi sento più sola che mai. Inizio a singhiozzare rimpiangendo la presenza di quel ragazzo. Perché se n'è andato via? Cos'ho che non va?
Passano pochi secondi, e lo rivedo. Con il volto pallido e spento entra nella stanza ed il mio cuore riprende finalmente a battere. Finalmente è tornato da me. Ma non è da solo. Con lui è entrato un altro signore. Più vecchio e con un camice bianco addosso. Sono sicura che era lui quello che prima avevo sentito parlare.
Il ragazzo più giovane resta a guardarmi da lontano, mentre il dottore si avvicina a me con un'espressione uguale a quella che avevo visto poco fa.
Inizia a farmi delle domande ed il silenzio è la mia risposta a tutte. Più domande mi fa, più il suo viso si incupisce. Più domande mi pone, più mi rendo conto che qualcosa non va. Il signore anziano continua a parlare, ma io ormai non lo ascolto più, la mia attenzione è rivolta tutta verso quel ragazzo appoggiato alla stipite della porta. Non ha il coraggio di alzare il viso verso il mio. Io non riesco a dare una risposta per ogni singola cosa che sta succedendo. Vorrei solo capire.
Il dottore dice che secondo lui si tratta di amnesia; ne è certo, ma vuole accertarsi di altre cose. Presto dovrò fare degli esami.
Amnesia è quando non ricordi non più niente dalla tua vita. Quando tutto ciò che hai vissuto, visto, provato sparisce dalla tua mente. È quando persino il tuo nome è una cosa sconosciuta. Allora ho anch’io una famiglia, solo che non so quale sia. Ho un nome, un'età, e non so nemmeno quelli quali siano. Non riesco nemmeno a descrivero lo stato d’animo che sto provando. Nessuno che non abbia attraversato una situazione del genere, potrebbe capirmi.
Il ragazzo, che non aveva aperto bocca da quando se ne era andato via, interviene, spiegandomi finalmente cosa mi era successo e come mi aveva trovata.
Camminavo per strada con le cuffie alle orecchie, ascoltavo la musica, e quindi non ponevo molta attenzione al resto. Stavo attraversando le strisce pedonali quando una macchina mi investì dopo aver sbandato. Per fortuna, dice lui, il veicolo non mi ha preso in pieno, non arrecandomi ferite gravi o danni fisici permanenti. Persi coscienza e lui mi portò all'ospedale. Non riaprii gli occhi per diverse ore. All'inizio pensavano che la caduta mi avesse potuto portare in coma, ma poi mi sono svegliata, e quando hanno visto com'ero impazzita, mi hanno sedato, iniettandomi della morfina e facendomi addormentare di nuovo. Quando poi mi sono svegliata di nuovo non pensavano minimamente che avessi potuto riportare un'amnesia. Un’amnesia così grave per giunta. Nel migliore dei casi può succedere che l’individuo colpito, dimentichi solo alcuni momenti antecedenti all’incidente. Nel peggiore dei casi, si dimentica tutto. Io rientro nell’ultima categoria.
Il ragazzo si chiama Francesco. Ecco perché mi pareva così familiare la prima volta che l'ho visto; lui è stato il mio ultimo ricordo prima di perdere la memoria.
«C'è una possibilità che recuperi la memoria?», domanda infine Francesco.
Io guardo intensamente l'uomo, attendendo una risposta compiacente, che mi risollevi e mi faccia sperare di ritrovare me stessa.
«Non possiamo saperlo.» Quelle parole uscite dalla sua bocca infrangono ogni mia remota fiducia. «Anche se..»
Io e Francesco pendiamo letteralmente dalle labbra del dottore.
«.. le probabilità che lei riacquisti la memoria sono minori di quelle che l'amnesia potrebbe rimanere»
Rimpiango un passato che non ho. Rivoglio gli affetti che non provo. Pretendo una vita che ho vissuto ma che non ricordo e forse non ricorderò mai.
 
Voci soffuse, rumori lontani. Le palpebre pesano, ma apro gli occhi lo stesso. Mi sento stordita, la testa gira, ma non come ieri. Ho appena sognato. Che strano sognare. Sembra così vero quando lo vivi, e così finto quando ti svegli. Il mio primo sogno da quando ho perso la memoria.
Me lo ricordo ancora bene. Correvo veloce, scappavo. Ma nulla mi inseguiva. Non mi voltavo indietro per la paura. Addosso vestivo una tunica bianca e leggera. Non so perché, ma questo dettaglio mi è rimasto impresso. Correvo verso qualcosa, qualcuno. Mi aspettava. La corsa era diventata faticosa, come se al posto dei piedi avessi avuto dei pesi in piombo. Mancava poco per raggiungerla. Ma il nulla che mi inseguiva mi aveva quasi raggiunto. Arrivai finalmente. Davanti a me stava lei. Aveva i miei stessi occhi. Il mio stesso viso. Tesi il braccio in avanti per afferrarla, e lei mi imitò, come il mio riflesso su uno specchio. Non feci in tempo. Il vuoto la inghiottì prima che potessi prenderla. Rimasi sola. Attorno a me il buio ed il nulla.
Poi l’infermiera mi ha svegliato. Avrei solo voluto che lo avesse fatto prima.
 
Mi chiamo Elena, ho sedici anni. Vivo a Cesena, in una casetta in periferia, lontana dal centro caotico della città. Frequento il liceo classico. Sono nata il 27 novembre del 1994. Mia madre si chiama Lidia, mio padre Giovanni. Ho due zie, Serena e Daniela, ed una nonna, Angela. Questa è la mia vita. Tanti piccoli dati raccolti in un unico foglietto che stringo nella mano destra.
Una volta sono caduta dall'altalena, avevo cinque anni, e Giovanni, papà, mi aveva spinto troppo forte. Caddi, mi fratturai la mano. Portai il gesso per due mesi. Mi ferii altre volte. Giovanni e Lidia mi hanno raccontato ogni piccolo particolare della vita di Elena, sperando che sentendomi raccontare cose che ho vissuto, potessi ricordare pian piano la mia vita. Il vuoto è ciò che mi rimane. Ogni loro tentativo è vano ed inutile. Apprezzo però il loro impegno, vogliono un mondo di bene ad Elena, cioè a me, è chiaro. Sembrano due brave persone, sono amorevoli con me, nonostante io non provi nulla per loro. Anche Angela, Daniela e Serena sono molte buone con me, ed anche loro si sforzano di farmi ricordare. Mi sento sempre così in colpa vedendo come soffrono ogni volta che sono con me. Io non ho fatto altro che arrecare loro dolore da quando mi sono svegliata.
Sono passate ormai tre settimane da quel giorno. Il mio incidente ha fatto il giro della città, tutti gli amici di Elena – i miei – dopo aver saputo ciò che mi era successo si sono presentati a casa. Ricordo con chiarezza i loro volti quando Giovanni e Lidia gli hanno detto della mia amnesia, eppure non ricordo nemmeno un loro nome. Secondo ciò che mi hanno detto, avevo molti amici, e tutti mi volevano bene. Forse ero una brava persona. Questo mi rallegra, renderà tutto più facile.
Ogni giorno ho un appuntamento con uno psicologo. Mi fa parlare molto, dato che a “casa” non apro quasi mai bocca. Non saprei di cosa parlare. Si chiama Dr. Fabbri, è molto gentile e disponibile. Ogni tanto riesce anche a farmi aprire. Insieme cerchiamo qualche appiglio che possa ricondurmi al mio passato perduto, ma finora non mi pare di aver raggiunto molti traguardi; oserei dire nessuno.
Cammino sul marciapiede, ripassando le scritte del foglio che tengo in mano. Nell'altra mano reggo la sua mano.
«Hey!», esclama ridendo. «Basta! Studiare quella lista non cambierà le cose..»
Se ciò l’avesse detto un’altra persona che non fosse stata Francesco, queste parole mi avrebbero ferito molto. Ma dette da lui no. Lui è tutto ciò che possiedo e conosco. Fabbri dice che la ragione per cui mi sento così legata a lui è che è stata l’ultima e la prima persona che ho visto. C’era quando la macchina mi ha investito. Lui mi ha portato all’ospedale. Lui era il ragazzo che mi ha fermato quando mi sono svagliata e sono impazzita. Il suo è stato il primo viso che ho visto quando ho ripreso coscienza la seconda volta. Lui mi accompagna ovunque vada, all’inizio mi accompagnava anche dallo psicologo, poi ho trovato la forza di presentarmi da sola, anche se è sempre lui che mi porta. Passiamo tutto il tempo possibile insieme. Grazie a lui sono anche riuscita a mettermi in pari con il programma scolastico. Certe nozioni base erano rimaste impresse nella mia memoria, il che facilita molto le cose.
«Lo so, ma..» tento di replicare.
«Niente ma. Non devi studiare la tua vita. Devi viverla, e ricordarla se ti è possibile», mi dice con tono premuroso.
Non capisco come possa essere così buono con me. Avrei potuto capire se avessi saputo che mi conosceva già prima che io perdessi la memoria. Invece, secondo quello che mi hanno riferito, la prima volta che mi ha vista, è stata accanto a quella macchina che aveva causato la mia fine. Non mi conosce, eppure penso che sia una delle persone a cui voglio più bene. Forse perché con lui non devo dimostare niente. Lui non conosce Elena, conosce solo me stessa. Francesco no sa nulla del mio “passato”, questo rende per me naturale stare in sua compagnia. Se non ci fosse stato lui, probabilmente non mi troverei qui, in questo momento.
«Non credo sia una buona idea tornare a scuola… non conosco nessuno, tutti faranno un sacco di domande, mi faranno pressioni e...» Non voglio tornare alla scuola di Elena. Non posso spiegarmelo, ma non riesco a convincere me stessa di chiamarmi “Elena”. Devo ancora farci l’abitudine. La vera Elena è quella che tutti loro conoscono, io non sono quella. O almeno, non lo so, non ancora. Non so chi sono. E non sarà un nome a darmi un’identità a cui associarmi.
«Lena..» Ecco, per quanto ne so questo è il mio nome. Non so perché Francesco mi chiami così. Sarebbe stato naturale che il mio soprannome fosse Ely, o Ele – ed era così infatti che tutti chiamavano Elena, lui invece mi ha chiamata Lena. Mi piace come soprannome, distingue la Elena del presente da quella che ho dimenticato, e finchè non riscoprirò la vera Elena, io sarò Lena.
«Sì, lo so..», lo precedo io. «non c’è alcuna ragione per preoccuparsi.. ma credo che anche il tuo primo giorno di scuola al liceo sia stato nervoso.»
Francesco mi guarda e ride. Quel suo sorriso mi rende sempre felice. Quella sua risata allegra mi fa dimenticare per un istante tutto ciò che mi è successo. Quei suoi occhi nocciola fanno sorridere anche me. «Questa te la concedo.. anche se tecnicamente non sarebbe il tuo primo giorno di scuola.»
«E invece sì. È la prima volta che metto piede in quella scuola, per quanto ne so.» La tristezza è tornata, anche se credo non mi abbia mai lasciato.
«Hey..» Francesco mi ferma, e posa una mano sulla mia spalla. «So a cosa stai pensando.. ma non è certo che tu resterai senza un passato per tutta la vita.»
Sorrido nevrotica. Rido perché se no piangerei, ma credo proprio di aver finito tutte le lacrime a disposizione. «Le probabilità sono contro di noi..»
«Okay, lascia stare statistiche e probabilità, qui la matematica non c’entra. È vero, 4 persone su 6 non ricordano mai più. Ma tu potresti anche essere nel gruppo di quei 2.»
Apprezzo seriamente tutti i suoi sforzi. Il fatto che lui si preoccupi che io sia tranquilla mi rasserena. Non sono da sola, sarebbe potuta andare molto peggio.
«E poi anche se non recuperassi più la memoria, sei giovane, hai solo sedici anni, hai tutta la vita davanti, hai tempo di creare nuovi ricordi, di vivere nuove esperienze. Col tempo i ricordi sfumano, nessuno arriva alla vecchiaia ricordando tutto ciò che ha fatto.»
Per quanto ritenga strana e senza senso la sua versione dei fatti, quest’idea mi risolleva il morale. Tenendo conto della vita media di una persona, 16 anni sono più o meno pochi. Probabilmente sarebbe finita col dimenticare tutto comunque. Ma la cosa a darmi più fastidio è che ho vissuto 16 anni, e quelli sono sfumati. Tutto ciò che ho fatto o no fino ad ora non esiste più. Magari fra qualche anno mi ritroverò piena di ricordi, ma ora non ho niente.
La camminata è ripresa, manca poco a raggiungere il liceo. Per fortuna anche lui frequenta la mia stessa scuola. Ora che ci penso, mi pare proprio sia avvenuto davanti a scuola l’incidente. Mi sforzo ancora. La mia esistenza è un continuo sforzo di ricordare. La mia mente non riposa un istante. È in continuo lavoro, anche quando non me ne accorgo. Ormai è diventata una cosa normale per me. È diventato come un pallino fisso. Devo ricordare.
 
I giorni passarono e la mia tristezza aumentava. Non c’era verso, non avrei mai più ricordato. Ormai era molto più che una certezza.
Mi afflissi, tanto che i miei genitori iniziarono a presagire il peggio. Pensavano che sarei potuta cadere in depressione. Pensavano che avrei potuto smettere di vivere. Ma non fu così.
Con Francesco al mio fianco non potevo smettere di vivere. Lui, che non il sorriso mi portava in ogni posto, mi distraeva in ogni modo. Lui che collezionò ogni oggetto di ogni nostra piccola avventura. Un bracciale, una conchiglia, una cartolina, e centinaia di migliaia di foto.
Due anni e mezzo dopo, per il mio diciottesimo compleanno mi regalò una scatola azzurra, blu come il cielo d’estate. Amavo l’azzurro e amavo il cielo, non sarebbero mai cambiati, sarebbero rimasti sempre gli stessi per l’eternità.
Dentro quella scatola aveva riposto ogni oggetto, ogni ricordo della mia vita a partire dall’incidente. Due anni e mezzo di ricordi, che potranno sembrare pochi, ma che avevano riempito tutta quella grande scatola celeste. Lì trovai i braccialetti, le conchiglie, le cartoline, e centinaia di migliaia di foto. Così tanti ricordi, così tanti giorni, così tanti momenti; concreti, veri, vissuti. Li stringevo tra le mie mani, li toccavo li sentivo. Ma soprattutto li ricordavo. Non ero più un guscio vuoto. Era vero, sedici anni della mia vita erano scomparsi, erano spariti nel nulla, ma molti di più si prospettavano nel mio avvenire. Ero solo più giovane, significava che avrei solo vissuto di più. All’improvviso non mi importò più di ricordare il mio passato, se n’era andato ormai, ma mi piaceva pensare che al contrario non lo avessi mai vissuto.
Elena era vissuta veramente, non era scomparsa, ma era rimasta solo nei ricordi delle gente che la conosceva, io non la conoscevo, non la avrei mai ricordata. E non avrei usufruito del suo nome. Non mi sembrava giusto vivere per lei, vivere al posto suo. Lei meritava di essere ricordata per quella che era e sarebbe sempre stata. Era lei quella sfortunata, quella che non aveva potuto vivere abbastanza. Ed era vivendo la mia vita, che avrei potuto ricompensare la sua.
Volli però rendere reale la nostra separazione, lo facevo per me, e per le persone che avevano amato Elena. Dovevano sapere che lei non sarebbe mai sparita, che non l’avrei mai sostituita. Per questo, poco tempo dopo il mio diciannovesimo compleanno, mi recai all’anagrafe per compiere il passo più importante della mia vita.
Dichiarai, con l’approvazione serena e felice dei miei genitori, di voler cambiare il mio nome. E stringendo la mano di Francesco che mi sorrideva, io divenni ufficialmente Lena.

   
 
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