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Autore: Invader_from_Hell    28/01/2004    4 recensioni
Nuovo racconto sulla scia di "tra cielo e divino". La sensazione di un addio cercato e non evitato. Un viaggio attraverso la difficoltà di accogliere la felicità e la propensione verso la ricerca di qualcosa di diverso, per quanto dolorosa possa essere. Leggermente autobiografico. Sarei grato a chi legge se lasciasse una recensione....
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Farewell

Farewell

 

Bene, eccoci giunti ad un altro racconto importante per me. Tratta il tema dell’addio in funzione di una ricerca dolorosa che deve discostarsi dalla felicità. Sarei molto felice di sapere cosa ne pensa anche il misterioso recensore dai molti nick (suggeriscimi tu come chiamarti!) XD Poi ci sono un paio di persone la cui recensione è sempre fulminea e gradita =P

 

Il cielo non era terso, il sole non splendeva e il fresco verdeggiare della natura non sembrava minimamente essere rivolto a me; si sarebbe piuttosto detto che in quel giorno – che avrei a lungo maledetto- la natura avesse deciso di sfoggiare i suoi migliori colori solamente per far crescere in me la parte ancora irrimediabilmente legata ai ricordi.

Gi aceri si avvicinavano ormai all’autunno, non osavo toccarli per paura che il rosso infuocato delle loro foglie potesse in qualche modo scottarmi. E sapevo con precisione che se una foglia non sarebbe mai riuscita a gettarmi nelle fiamme fisicamente, sarebbe senza dubbio riuscita a dare alle fiamme quella parte di me che infondo si sarebbe prestata allo sconvolgente ed inutile gioco dei ricordi. Rimasi in piedi, fieramente mostrandomi all’orizzonte, mantenendo la testa alta: l’orizzonte sarebbe sembrato mio a tutti coloro che i quel momento mi passavano vicini. Gli occhiali scuri – ma non troppo- tingevano il paesaggio di un presidiante velo opaco, dal quale nessuna visione sarebbe stata in grado di causarmi problemi o improvvisi rigetti. Il trapianto era avvenuto, l’organo era stato sostituito, mi compiacevo della mia abile chirurgia interiore, mi sentivo tale a quale a un albero sradicato e abilmente piantato lontano dalla sua terra natìa. Tuttavia le cui foglie avrebbero incessantemente ricordato e aspettato i venti patrii.

Mi godevo il sole, l’unico vero padre e l’unico vero maestro, l’unico che in quell’istante di potenza riflessa avrebbe potuto rimproverarmi, essendo custode di mille confessioni e del mio testamento. Paradossalmente avrebbe rappresentato l’unico elemento che mi avrebbe tenuto ancora unito a quel luogo. E a lui avevo confessato tutto, gli alberi, la montagna e il fiume non ne sapevano nulla, e nell’ignoranza sarebbero rimasti.

Non avrei fatto vestire a lutto nessuno.

Iniziava ad abbassarsi verso l’orizzonte, il mio maestro, visibilmente preoccupato per la mia sorte, e dalla ferita che gli avevo provocato una cortina di sangue vermiglio iniziava a tingere il cielo azzurro, avvicinandosi a me. Il tramonto voleva anche me sotto la sua luce, sapeva di impormi una riflessione e un ricordo.

Verde da ogni parte. Fosse quello chiaro dell’erba leggermente alta, quello scuro degli abeti, quello sporco dei platani o quello sognato dei salici, era intorno a me e reclamava un’udienza che io non gli avrei accordato, impegnato com’ero a contemplarmi attraverso il cielo. Il narcisismo in me non ha mai avuto un limite, me l’avevano sempre fatto notare tutti e in questo mio difetto avevo costruito la mia  arte e la mia figura, ricavandone un prezioso veleno composto da letteratura e cinismo. Ogni volta che mi bagnavo con gli altri in quel meraviglioso ruscello che adesso gorgogliava indispettito nei pressi del Sanfuji, eseguivo un’attenta ispezione del mio corpo prima di entrare nell’acqua. Mi esploravo in ogni mio angolo; tastavo, lisciavo, toccavo, premevo, penetravo. Ma non era nei miei intenti indurmi uno stato di tacita autocelebrazione, bensì cercavo con cura meticolosa ferite o lacerazioni dalle quali il mio veleno avrebbe potuto fuoriuscire e effondersi con il soave e gelido specchio d’acqua. Immaginavo pesci salire a galla, tutti terminati dal mio cinismo che sembrava rflettersi anche sulla natura.  L’acqua tingersi di un nero lucido e prezioso, il nero nobile e laccato, rilucente. Un colore che dunque si identifica alla perfezione con l’apparenza che molte persone desiderano dare di sé. Io non ero mai stato una di quelle: per me quel nero era innato e me ne vergognavo perché simbolo di una vanità non meritata ed insita nella mia indole. Credevo di non meritarmi il mio aspetto rilucente e nobile, o almeno di non meritarlo dalla nascita. Desideravo che anche il ruscello si accorgesse di come me lo fossi guadagnato nell’anno, costruendo pazientemente e attendendo nel mio guscio. Sarei uscito all’occorrenza e me ne sarei finalmente andato, portandomi il rosso degli aceri occhi, il freddo dell’acqua nel corpo e nella voce, la maestosità degli abeti nel portamento e il vento nello spirito. E nelò contempo non avrei voluto nulla di tutto questo. Poteva forse essere più accettabile perdere ogni legame con quel mondo?

Stavo allora in piedi sul fare del tramonto e sul fare della foresta. Confini entrambi temuti perché entrambi conducenti all’ignoto – la notte e la foresta- . Chiesi spesso ai miei amici di non essere lasciato solo su quei confini, senza temere di sembrare ridicolo o privo di coraggio. Come Ulisse si fece avvincere all’albero maestro della nave nei pressi delle sirene dal canto perversamente orrido, io mi facevo trattenere dall’affrontare quei luoghi, sapendo che non avrei resistito alla tentazione di perdermi nel flusso degi alberi, i quali avrebbero riassunto in un fruscio di foglie i miei pensieri.

Rimanevo a contemplare soddisfatto il tramonto che timidamente tentava di avanzare. L’atteso sipario della mia in quel luogo meraviglioso. Un sorriso si dipinse sul mio volto, il mio compiacimento arrivava alle stelle. Sapevo che mi stava osservando da qualche minuto, e probabilmente stava pensando che ero davvero impressionante e maestoso, irranggiungibile. Io non avevo mai preso veramente in considerazione un come lui. Pur nella sua bellezza e nella sua intelligenza – sicuramente notevoli- difettava del senso della realtà e rimaneva legato allo stesso luogo che mi ero reso conto di dover lasciare, non era riuscito a far sbocciare la malizia e il dolore di vivere che dovrebbe esserci in quelli come noi. Io mi ero limitato a far finta di niente, talvolta costringendomi ad una rinuncia, mentre gli altri mi esortavano alla conquista. Lui se ne rimaneva all’ombra del sole, dal mio punto di vista. Quel suo piacevole essere solare non era per me fonte di ammirazione e giovamento. Mi procurava fastidio alle volte, che avevo sempre alternato a sorrisi. Ma sorrisi particolari, quelli di chi si sente superiore alla persona verso la quale sorride, ricordandosi di quando altri sorridevano verso di lui per medesima cosa. Un processo di analogia crudele ma inevitabile. Io comunque lo rispettavo ed avevo stima di lui, anche se adesso non ne riporto il nome. La dolce radura, circondata da abeti e cime che si scorgevano qua e là, ci aveva visti più volte a filosofare per ore intere, specialmente d’estate. In quel periodo dell’anno l’animo è libero dal più delle preoccupazioni e ritrova le abitudini rilegate nell’antichità ma sempre pronte a dimostrare il loro carattere eterno. Ed in quel caso io ero il maestro. Lui un allievo molto propositivo e partecipe. E in questo seguimmo in tutto e per tutto l’esempio dei greci, nel rapporto tra maestro e allievo. Sfociò un paio di volte nella fisicità, ma anche lui fu concorde nel fatto che era propedeutico alle nostre discussioni, quindi esente da un qualsiasi interesse reciproco.

E quanto mi compiacevo io! E quanto ero infondo realizzato in quel momento di piacevole attesa. Ecco, in quei pochi minuti che mi separavano dalla partenza stavo cercando strenuamente di possedere tutto ciò che vedevo, forte degli occhiali e del lungo cappotto scuro, di un’apparenza seriosa il cui unico scopo era allontanarmi dalla spensieretezza di quel luogo, dalla felicità pura insita nella brezza che pungeva leggermente la pelle e piegava facilmente l’erba.

In lui si riassumeva tutto quello che di quel posto non mi andava a genio. Non che non mi piacesse, ma semplicemente non era fatto per me.

Io ero cinico, turbato, realista, non ero un poeta che potesse concedersi il lusso di dedicare del tempo alla bellezza della natura o alla neve di Hokkaido. Ero stato destinato a fuggire dalla troppa bellezza estetica, alla ricerca di quella sporca e agonizzante del mondo e della realtà, che già si annidava in me da molto.

E stavo là in piedi, senza stancarmi di possedere con lo sguardo e gli occhiali scuri tutto quel paesaggio. Immaginavo la brezza come la mia anima che si protendeva nell’immensità della mia visione e che lambiva uno per uno tutti quegli alberi, il ruscello, le montagne, le colline, le case dle villaggio, che incendiava il cielo e diffondeva la fragranza di nuvola bruciata ovunque.

Se avessi guardato con più attenzione avrei visto anche il mare.

L’erba era verde, tanto verde. Lui era ancora dietro di me, adesso l’avrei anche lasciato avvicinare.

Sentivo il suo sorriso bombardare insistentemente le mie spalle. Era felice per me, forse? Detestavo la sua capacità di essere felice per gli altri, non la condividevo. Anche per questo me ne andavo.

Persistevo nella mia posizione di adorazione e ammirazione. Non volevo togliermi gli occhiali. Una goccia colpì uno stelo d’erba, fecendolo luccicare al sole che stava tramontando. Sembrava intriso di tristezza, potenza ed eternità. E non era pioggia.

  
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