Farewell
Bene, eccoci giunti ad un
altro racconto importante per me. Tratta il tema dell’addio in funzione di una
ricerca dolorosa che deve discostarsi dalla felicità. Sarei molto felice di
sapere cosa ne pensa anche il misterioso recensore dai molti nick (suggeriscimi
tu come chiamarti!) XD Poi ci sono un paio di persone la cui recensione è
sempre fulminea e gradita =P
Il cielo non era terso, il sole non splendeva e il fresco verdeggiare della natura non sembrava minimamente essere rivolto a me; si sarebbe piuttosto detto che in quel giorno – che avrei a lungo maledetto- la natura avesse deciso di sfoggiare i suoi migliori colori solamente per far crescere in me la parte ancora irrimediabilmente legata ai ricordi.
Gi aceri si avvicinavano ormai all’autunno, non osavo
toccarli per paura che il rosso infuocato delle loro foglie potesse in qualche
modo scottarmi. E sapevo con precisione che se una foglia non sarebbe mai
riuscita a gettarmi nelle fiamme fisicamente, sarebbe senza dubbio riuscita a
dare alle fiamme quella parte di me che infondo si sarebbe prestata allo
sconvolgente ed inutile gioco dei ricordi. Rimasi in piedi, fieramente
mostrandomi all’orizzonte, mantenendo la testa alta: l’orizzonte sarebbe
sembrato mio a tutti coloro che i quel momento mi passavano vicini. Gli
occhiali scuri – ma non troppo- tingevano il paesaggio di un presidiante velo
opaco, dal quale nessuna visione sarebbe stata in grado di causarmi problemi o
improvvisi rigetti. Il trapianto era avvenuto, l’organo era stato sostituito, mi
compiacevo della mia abile chirurgia interiore, mi sentivo tale a quale a un
albero sradicato e abilmente piantato lontano dalla sua terra natìa. Tuttavia
le cui foglie avrebbero incessantemente ricordato e aspettato i venti patrii.
Mi godevo il sole, l’unico vero padre e l’unico vero
maestro, l’unico che in quell’istante di potenza riflessa avrebbe potuto
rimproverarmi, essendo custode di mille confessioni e del mio testamento.
Paradossalmente avrebbe rappresentato l’unico elemento che mi avrebbe tenuto
ancora unito a quel luogo. E a lui avevo confessato tutto, gli alberi, la
montagna e il fiume non ne sapevano nulla, e nell’ignoranza sarebbero rimasti.
Non avrei fatto vestire a lutto nessuno.
Iniziava ad abbassarsi verso l’orizzonte, il mio maestro,
visibilmente preoccupato per la mia sorte, e dalla ferita che gli avevo
provocato una cortina di sangue vermiglio iniziava a tingere il cielo azzurro,
avvicinandosi a me. Il tramonto voleva anche me sotto la sua luce, sapeva di
impormi una riflessione e un ricordo.
Verde da ogni parte. Fosse quello chiaro dell’erba
leggermente alta, quello scuro degli abeti, quello sporco dei platani o quello
sognato dei salici, era intorno a me e reclamava un’udienza che io non gli
avrei accordato, impegnato com’ero a contemplarmi attraverso il cielo. Il
narcisismo in me non ha mai avuto un limite, me l’avevano sempre fatto notare
tutti e in questo mio difetto avevo costruito la mia arte e la mia figura, ricavandone un prezioso veleno composto da
letteratura e cinismo. Ogni volta che mi bagnavo con gli altri in quel
meraviglioso ruscello che adesso gorgogliava indispettito nei pressi del
Sanfuji, eseguivo un’attenta ispezione del mio corpo prima di entrare
nell’acqua. Mi esploravo in ogni mio angolo; tastavo, lisciavo, toccavo,
premevo, penetravo. Ma non era nei miei intenti indurmi uno stato di tacita
autocelebrazione, bensì cercavo con cura meticolosa ferite o lacerazioni dalle
quali il mio veleno avrebbe potuto fuoriuscire e effondersi con il soave e
gelido specchio d’acqua. Immaginavo pesci salire a galla, tutti terminati dal
mio cinismo che sembrava rflettersi anche sulla natura. L’acqua tingersi di un nero lucido e
prezioso, il nero nobile e laccato, rilucente. Un colore che dunque si
identifica alla perfezione con l’apparenza che molte persone desiderano dare di
sé. Io non ero mai stato una di quelle: per me quel nero era innato e me ne
vergognavo perché simbolo di una vanità non meritata ed insita nella mia
indole. Credevo di non meritarmi il mio aspetto rilucente e nobile, o almeno di
non meritarlo dalla nascita. Desideravo che anche il ruscello si accorgesse di
come me lo fossi guadagnato nell’anno, costruendo pazientemente e attendendo
nel mio guscio. Sarei uscito all’occorrenza e me ne sarei finalmente andato,
portandomi il rosso degli aceri occhi, il freddo dell’acqua nel corpo e nella
voce, la maestosità degli abeti nel portamento e il vento nello spirito. E nelò
contempo non avrei voluto nulla di tutto questo. Poteva forse essere più
accettabile perdere ogni legame con quel mondo?
Stavo allora in piedi sul fare del tramonto e sul fare della
foresta. Confini entrambi temuti perché entrambi conducenti all’ignoto – la
notte e la foresta- . Chiesi spesso ai miei amici di non essere lasciato solo
su quei confini, senza temere di sembrare ridicolo o privo di coraggio. Come
Ulisse si fece avvincere all’albero maestro della nave nei pressi delle sirene
dal canto perversamente orrido, io mi facevo trattenere dall’affrontare quei
luoghi, sapendo che non avrei resistito alla tentazione di perdermi nel flusso
degi alberi, i quali avrebbero riassunto in un fruscio di foglie i miei
pensieri.
Rimanevo a contemplare soddisfatto il tramonto che
timidamente tentava di avanzare. L’atteso sipario della mia in quel luogo
meraviglioso. Un sorriso si dipinse sul mio volto, il mio compiacimento
arrivava alle stelle. Sapevo che mi stava osservando da qualche minuto, e
probabilmente stava pensando che ero davvero impressionante e maestoso,
irranggiungibile. Io non avevo mai preso veramente in considerazione un come
lui. Pur nella sua bellezza e nella sua intelligenza – sicuramente notevoli-
difettava del senso della realtà e rimaneva legato allo stesso luogo che mi ero
reso conto di dover lasciare, non era riuscito a far sbocciare la malizia e il
dolore di vivere che dovrebbe esserci in quelli come noi. Io mi ero limitato a
far finta di niente, talvolta costringendomi ad una rinuncia, mentre gli altri
mi esortavano alla conquista. Lui se ne rimaneva all’ombra del sole, dal mio
punto di vista. Quel suo piacevole essere solare non era per me fonte di
ammirazione e giovamento. Mi procurava fastidio alle volte, che avevo sempre
alternato a sorrisi. Ma sorrisi particolari, quelli di chi si sente superiore
alla persona verso la quale sorride, ricordandosi di quando altri sorridevano
verso di lui per medesima cosa. Un processo di analogia crudele ma inevitabile.
Io comunque lo rispettavo ed avevo stima di lui, anche se adesso non ne riporto
il nome. La dolce radura, circondata da abeti e cime che si scorgevano qua e
là, ci aveva visti più volte a filosofare per ore intere, specialmente
d’estate. In quel periodo dell’anno l’animo è libero dal più delle
preoccupazioni e ritrova le abitudini rilegate nell’antichità ma sempre pronte
a dimostrare il loro carattere eterno. Ed in quel caso io ero il maestro. Lui
un allievo molto propositivo e partecipe. E in questo seguimmo in tutto e per
tutto l’esempio dei greci, nel rapporto tra maestro e allievo. Sfociò un paio
di volte nella fisicità, ma anche lui fu concorde nel fatto che era
propedeutico alle nostre discussioni, quindi esente da un qualsiasi interesse
reciproco.
E quanto mi compiacevo io! E quanto ero infondo realizzato
in quel momento di piacevole attesa. Ecco, in quei pochi minuti che mi
separavano dalla partenza stavo cercando strenuamente di possedere tutto ciò
che vedevo, forte degli occhiali e del lungo cappotto scuro, di un’apparenza
seriosa il cui unico scopo era allontanarmi dalla spensieretezza di quel luogo,
dalla felicità pura insita nella brezza che pungeva leggermente la pelle e
piegava facilmente l’erba.
In lui si riassumeva tutto quello che di quel posto non mi
andava a genio. Non che non mi piacesse, ma semplicemente non era fatto per me.
Io ero cinico, turbato, realista, non ero un poeta che potesse
concedersi il lusso di dedicare del tempo alla bellezza della natura o alla
neve di Hokkaido. Ero stato destinato a fuggire dalla troppa bellezza estetica,
alla ricerca di quella sporca e agonizzante del mondo e della realtà, che già
si annidava in me da molto.
E stavo là in piedi, senza stancarmi di possedere con lo
sguardo e gli occhiali scuri tutto quel paesaggio. Immaginavo la brezza come la
mia anima che si protendeva nell’immensità della mia visione e che lambiva uno
per uno tutti quegli alberi, il ruscello, le montagne, le colline, le case dle
villaggio, che incendiava il cielo e diffondeva la fragranza di nuvola bruciata
ovunque.
Se avessi guardato con più attenzione avrei visto anche il
mare.
L’erba era verde, tanto verde. Lui era ancora dietro di me,
adesso l’avrei anche lasciato avvicinare.
Sentivo il suo sorriso bombardare insistentemente le mie
spalle. Era felice per me, forse? Detestavo la sua capacità di essere felice
per gli altri, non la condividevo. Anche per questo me ne andavo.
Persistevo nella mia posizione di adorazione e ammirazione.
Non volevo togliermi gli occhiali. Una goccia colpì uno stelo d’erba, fecendolo
luccicare al sole che stava tramontando. Sembrava intriso di tristezza, potenza
ed eternità. E non era pioggia.