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Autore: Bellis    05/05/2011    0 recensioni
Le idee fisse sono pericolose, e Holmes lo scopre nella maniera peggiore.
(Scritta per lo Sherlock Holmes Remix 2011 della community LJ holmes_ita. Da una oneshot di minnow.)
Genere: Azione, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Questa fanfiction è stata scritta per lo Sherlock Holmes Remix 2011 di holmes_ita, che si è concluso nella giornata di ieri. L'Autrice la cui opera ho avuto il privilegio di remixare - sono stata molto lieta di apprenderlo quando l'iniziativa ha avuto inizio - è la celeberrima minnow. Questa mia breve composizione risulta in un missing moment della sua oneshot "Ferite".
Spero che tutto ciò non deluda chi abbia ancora una opinione decente di questa piccola signorina.
I consueti avvertimenti, d'obbligo per un rating Arancione: Holmes/Watson (implicito), (ab)uso di droghe, violenza descrittiva.
Abbandonate ora la lettura o tacete per sempre.



Idée fixe

Prima di conoscere John Hamish Watson, avevo commesso il grande errore di ritenere che il mio straordinariamente acuto intelletto sarebbe stato in grado di giungere al corretto disvelamento di qualsiasi enigma.

Nel 1881, Stamford mi presentò l'unico mistero che io conservi ancora, gelosamente, irrisolto.

Watson, ne sono certo, è convinto di essere un libro aperto, per me... Di non poter serbare alcun segreto alla mia indole inquisitrice. Non posso fare a meno di constatare come, invece, egli mi abbia sorpreso, in più di una occasione. E lo sbigottimento - perchè di tale emozione, indubbiamente, si tratta, per quanto io cerchi di negarlo a me stesso - è tanto più doloroso quanto ingiustificato.

Il dottor Watson mi ha meravigliato con la sua solida moralità, così differente da quella - prettamente una façade - che continuamente osservo in coloro che dichiarino di aderire con fedeltà e fervore ai dettami dell'etica che la Corona ci impone. Chi abbia veduto gli orrori della guerra, solitamente, non può che soccombere alla sua subliminale ipocrisia.

Mi ha stupito con il suo ingenuo ottimismo. Lui, avvezzo al male, è rimasto fermamente determinato a credere che avrebbe potuto far qualcosa per porvi rimedio. Incrollabile, sino all'ultimo, nella sua convinzione.

Non mi ha sorpreso prendendo in moglie Mary Morstan, che avrebbe potuto fornirgli quella quiete e rispettabilità di sentimenti che nessun altro - me incluso, ma questo è ovvio - avrebbe mai potuto donargli.
Ha lasciato il mio animo allibito ed inerte, allontanandosi da me.
In seguito al suo matrimonio, trascorsi molti giorni - dieci, per l'esattezza - nella speranza di rivederlo, di udire il suo passo leggermente asimmetrico salire i tredici scalini che separavano il piano terreno dal nostro - sì, allora lo consideravo tale - appartamento.
Giorni passati invano, privi dell'unico evento che avrebbe riportato la vita alla mia solitaria esistenza.
Infine, compresi quale fosse il vero problema. La nebbia della City pareva esser penetrata dalle imposte serrate e dai tendaggi scuri della finestra per insinuarsi, subdola, nel mio petto e nella mia mente. Non stavo tentando di comprendere la situazione con la lucida abilità di freddo ragionatore che tanto celebre mi aveva reso.

Mi biasimai duramente per la mia lentezza e per la mia stoltezza. In verità, era così naturale, così logico che si sarebbe tenuto in disparte, come un attore discreto che ritenga d'aver terminato la propria parte sulla scena.
Watson avrebbe percepito il rimanere al mio fianco come slealtà nei confronti di due persone amate.

Eppure, qualcos'altro che non apparteneva alla ben nota sfera della razionalità, una forza dirompente e terribile risvegliatasi da un antico ed arcano sonno, pareva conservare la sua salda presa sul mio animo, contrastando con inusitata durezza ogni mio tentativo di ricondurre le mie azioni sotto il mio completo dominio.
Era qualcosa di doloroso che minacciava di piegare la mia ferrea volontà. Mi decisi a non lasciare che ciò accadesse. Nulla avrebbe potuto incrinare le solide fondamenta della capacità di deduzione alla quale dovevo ogni istante di vita. Nulla e nessuno, neppure John Watson, che in passato lo aveva già fatto.

Percepii il germe della follia impadronirsi di me, mentre la mia lucidità vacillava, oscillando, come l'asticella di un metronomo mal bilanciato, sul confine tra il reame della pazzia e quello dei balzi d'ingegno grazie ai quali si poteva definire la differenza tra il mio intelletto e quello dell'amorfa massa. Sapevo bene che il miglior antidoto al dolore è il lavoro, ed al lavoro mi dedicai giorno e notte.

Rinunziai ai pasti, lasciai freddo ed intonso il mio giaciglio, impegnai la mia mente quanto più potei, come un ingegnere che, tentando di smuovere gli ingranaggi arrugginiti della sua ultima creazione, li spinga al massimo delle loro potenzialità, lasciando che il metallo lucidi il metallo, o come il veggente che cerchi l'illuminazione attraverso l'ascesi.

Un caso non bastò più a distogliere i miei pensieri da ciò che pareva attrarre i miei pensieri, che in quanto a veemenza pareva superare la stessa forza descritta dall'illustre Newton; il mio formidabile ingegno metabolizzava il carico di lavoro e lo assorbiva. Fu mentre prelevavo, dal cassetto della scrivania, il mio taccuino, che una nuova idea parve assalire la mia mente con la rapidità di un fulmine.
Vidi il mio astuccio di marocchino e compresi che, sì, v'era qualcos'altro che potessi fare per allontanar la mia attenzione da quel luogo ormai troppo doloroso.

Mentre con mani esperte sistemavo l'ago sul supporto di vetro e sollevavo controluce una delle fiale, tenendola tra me e la fiamma che ardeva incessantemente nel camino, riflettei ironicamente su quanto fosse curioso che un'idea fissa potesse, in effetti, sovrapporsi ad un'altra, guadagnando terreno metro dopo metro, e scacciandola quindi definitivamente.
Sino ad allora, il pensiero di lui aveva inconsapevolmente scacciato, dalla mia mente, quello dello stupefacente. Ma, da quel momento in poi, questa sequenza di causa ed effetto era destinata a dipanarsi al contrario innanzi ai miei occhi.

Adagiandomi allo schienale della poltrona con un sospiro soffocato, ebbi la netta impressione che uno sguardo colmo d'apprensione fosse posato su di me.
Ebbi la conferma di questa fugace visione quando, alcuni giorni dopo, ridestandomi dal malsano torpore di un sonno non certo desiderato, la prima cosa che udii fu il grido di orrore della signora Hudson, la quale stava in piedi dinanzi alla mia figura prostrata, le mani avvizzite dall'età premute sul viso vetusto e buono.

La rassicurai come potei, mal reprimendo il sarcasmo della mia agonia, e non riuscii a celare un sussulto al consiglio che mi diede, palesando il suo proponimento di consultare immediatamente il dottor Watson, per il mio bene. Lo interpretai come una minaccia, più che come una offerta di aiuto, e bruscamente risposi alla padrona di casa - che non dubito fosse mossa dalle migliori intenzioni - che l'uomo da lei menzionato sarebbe stato l'ultimo al mondo che avrei voluto mettere a parte di ciò che mi affliggeva. Le feci giurare di non riferire a chicchessìa di cosa mi era accaduto quel giorno, ed ella, forse temendo di intaccare il mio orgoglio personale, acconsentì.

La donna fu sufficientemente saggia da non ritornare sull'argomento, ed io ripresi la mia poco regolare routine quotidiana di lavoro, inframezzato da soste di forzata noia quando una indagine giungeva ad un punto morto, o quando un mistero era infine risolto, ed il sano lavorìo intellettuale da esso stimolato terminava in una piana desolata pervasa dal Nulla della noia e della stagnazione mentale.

Spesso mi trattenevo fuori di casa fino a tarda sera, cercando, nella nebbia giallognola di Londra, alcuni dei miei naturali nemici, e fuggendone un altro, più nascosto ed interno a me, più subdolo ed inafferrabile. Le indagini, compiute nell'ambito di un caso portato alla mia attenzione dalla mente stolida e incresciosamente fallace di Lestrade, mi condussero, una sera, al porto.

Non riuscirò mai a dimenticare i brividi che assalirono il mio corpo smagrito, mentre mi approssimavo al casolare di legno, dalla forma diroccata e malridotta, che, in seguito a una meticolosa raccolta di informazioni, sapevo essere il covo di una pericolosa banda di contrabbandieri. Non potrò mai eliminare dalla mia memoria, così avvezza a scartare le informazioni di nessuna o poca utilità, l'agrodolce sapore che avvertii sul palato, mentre ogni parte di me pareva assorbire la nozione del fatto che colui che tanto spesso mi aveva accompagnato durante le mie notturne escapades non era, in quel momento, lì accanto a me. Era una consapevolezza straziante, ed allo stesso tempo aveva un sublime retrogusto di vittoria... o, per cercare un termine più preciso, di vendetta. Egli mi aveva abbandonato, ed io, proseguendo ciò che era sempre stato il mio impegno senza di lui, avevo abbandonato lui. In quel momento mi parve così giusto, quel crudele contrappasso, e non sapevo ancora che il trovarmi da solo quasi mi sarebbe costato la vita.

Avvertii un tonfo sordo, derivante da un colpo sferrato con tutta probabilità alla base del mio cranio, perchè caddi bocconi e quasi persi conoscenza. Due mani rozze mi afferrarono per le spalle, facendomi rudemente rialzare sulle gambe malferme, ed un respiro ansimante molto prossimo al mio orecchio sinistro mi informò sulla approssimativa posizione del mio assalitore. Portai il mio gomito in direzione del suo viso, ed ebbi la soddisfazione d'avvertire quell'ansito sommesso trasformarsi in un grugnito di sofferenza.

Mi voltai, sbattendo furiosamente le palpebre, ma evidentemente il mio tentativo di autodifesa non aveva, come prevedevo, privato il mio avversario di ogni forza. L'uomo - lo vidi alla luce del lampione - era di statura massiccia, e mi sovrastava sia in altezza che in possenza. Prima che quasi potessi rendermene conto, mi aveva artigliato un braccio, e con una spinta simile a quella che un manovale avrebbe usato nel sollevare un sacco di calce, mi aveva portato in una precisa collisione con un vicino muro di mattoni ruvidi. Cercai di appoggiarmi ad esso, ma l'urto era stato così forte che i miei sensi non risposero che quando l'altro mi assestò un violento e doloroso diretto allo stomaco.

Immagino che la deprivazione di cibo e di sonno che mi ero auto-inflitto avesse il suo peso nel determinare la mia incapacità di reagire prontamente all'assalto di un criminale che, per quanto pericoloso, era certamente molto più lento di me. I miei nervi, in quegli istanti, si reggevano strenuamente, ma a stento, grazie alla mia vacillante forza di volontà ed all'influsso, ancora blandamente presente, della cocaina. Disteso sul fangoso lastricato di quella via, desiderai, con ogni fibra del mio animo, che Watson fosse lì, accanto a me. Un sostegno leale, sincero, derivante da un attaccamento genuino, dettato da quell'amore profondo che credevo esistesse in colui che avevo perduto, e che aveva perduto anche il mio spirito.

L'energumeno, tuttavia, mi aveva ripreso, e scagliato con un ringhio verso una catasta di vecchie assi di legno, scheggiate e spezzate. Deglutii a forza un singulto al contatto di quella superficie tagliente con il mio corpo avvilito. L'uomo rise, un suono quasi demoniaco che udii mentre egli si avvicinava a me e pareva ammirare il risultato del suo sporco lavoro.

Fu in quel momento che reagii, quando la comprensione di essere completamente solo si fece strada in me come una lingua di bruciante fuoco; compresi allora di non aver veramente creduto alla realtà dei fatti sino a quel momento, di aver evitato l'evidenza come il peggiore degli Yarders, sino a quel preciso istante, nel quale mi sentii avvilito e battuto, e solo. Avevo indugiato morbosamente nella finzione che John Watson fosse accanto a me, che i suoi passi risuonassero ancora pochi metri alle mie spalle, mentre entrambi percorrevamo le strade tenebrose di Londra.
Fu allora che afferrai una di quelle assi di legno e, percuotendo con l'ausilio di questo mezzo il massiccio capo del mio assalitore, la ruppi, esattamente come nella mia mente si era infranta la folleggiante illusione che aveva ammorbato il mio spirito fino a qualche istante prima.
Eppure, non avvertii sollievo, come qualsiasi malato avrebbe fatto, una volta scomparsa la causa del suo malessere. Mi sentii vuoto e seppi che, se mi fossi guardato allo specchio, dalla superficie liscia di vetro non mi avrebbe risposto il familiare brillìo che determinava ancora la presenza di una qualche forma di vita, all'interno delle orbite, vuoto involucro senza più nulla da custodire.

Né la rabbia né la follia avrebbero potuto rimpiazzare ciò che avevo smarrito, lungo la strada dell'esistenza umana - ciò che mi era stato tolto. Ciò che sarebbe stato ancor più doloroso, e in definitiva impossibile, recuperare.
Mentre spiccavo una leggera corsa, stringendo i denti e cercando di trascinar via la mia figura lacera e sanguinante quanto più rapidamente possibile da quell'infame luogo, meditai a lungo sull'esorbitante prezzo da pagare per possedere una idea fissa che, a mò di baluardo, ne arginasse un'altra.


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Au revoir.
   
 
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