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Autore: Loveless    05/05/2011    4 recensioni
Since she is here,
In a place of blackness,
Here I stay and wait.

[SteinMedusa, anime verse; spoiler fino all'episodio 44, più o meno]
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Franken Stein, Medusa
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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#23 "Quei giorni perduti a rincorrere il vento, a chiederci un bacio e volerne altri cento"
(Amore che vieni amore che vai, Fabrizio de André)

Since she is here,
In a place of blackness,
Here I stay and wait.


A volte, Stein assomiglia ad una bambola rotta, scomposta, quando rimane sdraiato per ore senza un movimento, guardando senza sbattere le palpebre un cielo di pietra, le gambe lunghissime distese e le braccia aperte verso il soffitto, come un crocifisso divorato dai vermi; sordo, muto e cieco, privo di vita come un pupazzo di stoffa.
Il suo sguardo fisso non si smuove, quando Medusa gli viene vicino: tiene gli occhi immobili, ogni muscolo rilassato e privo di forza, quando gli si sdraia accanto, il peso del suo corpo troppo piccolo che preme gentilmente contro il suo braccio, e prende a fissare lo stesso punto che sta guardando lui.
Lei non parla mai. Lo ascolta respirare.

Dietro quelle pupille vuote e troppo dilatate, i loro pensieri si intrecciano assieme: sono uniti da un legame creato dalla pazzia, rafforzato dalla vicinanza – le dita paffute ed infantili di lei sulle sue tempie, la sua fronte premuta contro quella di lui, - ed intrappolato in una stanza senza luci.
La mente di Stein è come un uragano, un incoerente flusso di ricordi, desideri ed allucinazioni che la spingono via dal suo nucleo pulsante con la forza di un colpo appena sferrato, un ingarbugliato intreccio di parole in cui lei può lasciarsi scivolare come un serpente; può tenere l’anima di lui tra le dita nello stesso modo in cui tiene la sua testa in grembo.
Medusa ama questi momenti, quando lui si trascina sul pavimento fino a lei e si appoggia alle sue ginocchia, guardando i bagliori che la sfera di vetro brillante irradia sui ricami del tappeto: gli stringe con gentilezza i capelli, intrecciando le dita nelle ciocche, toccando la fronte di lui ed ogni linea del suo viso finché quegli occhi spalancati si socchiudono.
Sussurra solo per lui, guardando con occhi assenti le immagini che scivolano oltre la superficie della sfera – fuoco, battaglie e cenere – accarezzandolo e ricordandolo.
«Sapevo» gli dice «che saresti venuto da me».

Una volta, Free le ha detto: «E’ un giocattolo pericoloso, Medusa. Come pensi di controllarlo?».
Stein stava rannicchiato ai suoi piedi come un cucciolo obbediente – cose che non avrebbe mai potuto essere, un giocattolo ed una persona obbediente – e la sua espressione sembrava curiosamente rilassata mentre lei gli sfiorava le pupille chiuse, la bocca.
«Non ti fidi di lui?».
Il licantropo aveva fatto una smorfia: «No».
Lei era scoppiata a ridere, un angolo della bocca di Stein si era contratto. Stava ascoltando, lo sapeva.
«Nemmeno io».
Aveva baciato l’infossatura alla base della gola di lui.
«Sono proprio un’amante crudele, non è vero, Stein?».


Il riflesso delle fiamme vivide danza sul suo viso, mentre l’oscurità notturna galleggia e striscia sui muri come tentacoli; lei passa un dito sul vetro della sfera e la luce scarlatta al suo interno svanisce lentamente. La debole luce azzurrina che sgorga dalla base delle piattaforme riempie gli occhi vuoti di lui con scintille ugualmente vuote e fredde.
Stein non sembra l’uomo che l’ha quasi uccisa – ma non sembra nemmeno più un uomo: sembra piuttosto un’ombra, un manichino senza faccia che non reagisce quando lei stende il braccio per toccare le sue mani quadrate, callose, anche se il fumo della sigaretta le brucia gli occhi. Lui sorride e fa scattare l’accendino con gesti automatici, azioni prive di volontà. Non è più padrone di se stesso.
Medusa gli accarezza la barba ormai ispida sulle guance, rannicchiata fra le sue gambe, e lo vede rabbrividire con un languido, inaudibile sospiro, ma i suoi occhi rimangono chiusi quanto la sua mente; gli getta le braccia al collo e lo abbraccia stretto, sfregando il naso contro la sua spalla, lasciandogli una scia di morsi soffici giù per il collo, scoppiando a ridere come una bambina quando Stein sbatte gli occhi, vagamente confuso. Sembra all’improvviso così giovane.
«Sei così fragile» dice lei, leccando la pelle tiepida della sua gola mentre lui chiude ancora gli occhi, «E così vulnerabile, Stein...».
Morde un po’ più forte, affondando i suoi piccoli denti appuntiti nella carne, e lui sobbalza e boccheggia: improvvisamente, i suoi occhi sono brillanti, vivi. Quando bacia gentilmente i tagli ed ogni goccia di sangue, - le sue labbra sono rosse, rosse, rosse, - Stein si lascia sfuggire un sibilo di respiro tra i denti serrati.
Medusa può sentire la sua mente rompersi; può vedere la sua anima incrinarsi e scintillare.
«…Così dolce».

Stein ha sempre cercato di catturare il vento e di tenerlo stretto.
Lei ha sempre cercato di modellarlo in qualcosa di reale.
La frattura tra di loro è troppo profonda e la sua razionalità le sussurra: quest’uomo è qualcuno che non puoi controllare. Lascialo andare.
Ma lei gli chiede ancora: vieni con me?

«Lo sai? Non mi ricordo più nulla».
Il suono della sua voce, roca e vagamente amara, è una sorpresa; l’accenno di sorriso sulla sua faccia di plastica è uno shock. Stein non ha detto una parola da molto tempo: non era così lucido da tanto.
«Allucinazioni. Sogni. Sì, solo nei miei sogni è chiaro tutto quanto. Sei sempre lì. Sempre. Non so se siano incubi o meno».
Le mani gli scorrono giù per i capelli; lei non parla, persa in una sorta di confusa intimità, intrappolata in un calore che non le appartiene ma proviene dalla pressione solida della testa di Stein contro il petto.
«Non so più nulla».
Quando gli preme le dita sulla guancia, il suo sguardo è già opaco, scurito; le labbra sigillate.
La bocca è troppo fredda, persino per lei.

Vieni con me?

E’ seduta sul pavimento, le gambe che penzolano pigramente oltre il bordo e le mani ripiegate con ordine in grembo, come una bambola di porcellana, una morbida caricatura di se stessa; lascia scorrere l’indice sulla superficie umida della spada, prima di posarla accanto a sé e di appoggiare il mento sul dorso delle mani.
Stein, in piedi su una delle piattaforme, - sguardo concentrato, una linea profonda tra le sopracciglia, - si inginocchia e tocca le pietra viscida sotto i suoi piedi: quando ritira i polpastrelli, alcune gocce di sangue vischioso prendono a scorrergli giù dalle dita.
Lo vede sorridere, distogliere lo sguardo dal cadavere gettato vicino a lui, - pensavi davvero che volesse essere salvato da te? – e leccare lentamente le sottili striature rosse. Stein socchiude gli occhi; lecca ancora il sangue salato.
«Così dolce» dice lui prendendo a ridere, guardandola fisso.
Lei ricambia il sorriso, in silenzio, da lontano.


Note finali: ...Probabilmente questa è la storia più disturbante che abbia mai scritto, e me ne rendo conto solo ora. Cioè, non ricordavo di aver descritto delle provocazioni così esplicite di Medusa versione chibi. Povero Stein. Okay, povero un corno, se fosse stato più furbo se ne sarebbe andato con Medusa molto prima ed evitavamo un gran bel casino. Due psicopatici assieme e tutti felici e contenti, che vogliamo di più dalla vita? Ma così è, la Bones mi ha reso felice dandomi uno spunto così ghiotto per poi fare la scemata che ha fatto - per me le puntate dalla 45 in poi non esistono. Sappiatelo. Sigh.
Ehm. Nel caso qualcuno di voi se lo stesse chiedendo, sì, questa fanfiction è vecchissima. L'avevo scritta in inglese, originariamente, e poi tradotta in italiano in un secondo momento. La sua prima stesura risale all'epoca di quella di Fade to black, quando ancora avevo in mente di attenermi al finale 'classico' che ci ha dato l'anime; all'ultimo momento, invece, ho deciso di prendere il finale che avevo scelto per questa oneshot, perchè mi pareva che si adattasse meglio alla storia. Se ho ripescato questa fanfiction dal nulla, è stato per due motivi: primo, avevo una tabella di 10su10 e una Criticombola da finire; secondo, questa storia non mi è sembrata così malvagia come mi era parso all'inizio. Certo, c'è stata qualche ritoccatina qua e là per adattarla meglio alla canzone di De Andrè, ma per il resto l'ho lasciata così com'era. Ma santo cielo, come ho fatto ad adattare un verso simile a questi due? *rilegge ammutolita la storia*.
A proposito... Lascio a voi il compito di capire chi è la vittima dell'ultimo spezzone. Ma sappiate che non ce l'ho mica con lei, io, ma figurarsi. *coffcoff!iononhodettoniente!coffcoff!*.
E, sempre se vi interessa saperlo, i versi all'inizio della storia provengono da The black riders and other lines di Stephen Crane.
See ya!
  
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