Autore: Akrois
Titolo della fic:
Il
gatto ha i baffi sporchi di latte e gli occhi d’Inferno.
Tipologia della fic:
One-Short.
Evento Scelto: 13
Agosto 1521 - Tenochtitlán (l'odierna Città del Messico) cade nelle mani del conquistador Hernán Cortés
Personaggi principali: Conquistador!Spagna (Antonio Fernandez Carriedo),
Tenochtitlán
(Yara).
Genere: Introspettivo, storico,
drammatico.
Avvertimenti: One-short,
OC, Non per stomaci delicati (?).
Raiting:
Arancione.
Introduzione: Riusciva a distinguere le macchie rosse sulla lunga veste
bianca e quella smorfia simile ad un sorriso vittorioso sul viso bruciato dal
sole.
Riusciva persino a vedere la testa che
teneva in mano e che sventolava come una bandiera.
- Il diavolo- disse Antonio senza
distogliere lo sguardo – uccide gli spagnoli.
Un bicchiere di latte ed una piazza
col monumento. Un bicchiere di latte
dalle tue dolci sporche nuove mani.
[Sandro Penna]
Il gatto ha i baffi sporchi di latte e
gli occhi d’Inferno.
C’era
sempre qualcosa di seducente e maligno nella battaglia.
Per lui
le battaglie erano come delle sensuali danze
ballate tra uomini. Non ci si tenevano le mani a vicenda, si tenevano solo le spade. Perché solo le
spade erano degne di essere tenute da mani come le loro: mani sporche di sangue
e piene di gloria.
O piene
d’oro. Ma che differenza c’era tra l’oro e la gloria? La seconda portava al
primo e il primo poteva comprare la seconda.
Spagna
non amava combattere o forse amava combattere più di qualsiasi altra cosa.
Neppure lui riusciva a capirlo bene.
Tenochtitlán correva disperata
per le stanze del palazzo. Inciampava, cadeva, arrancava, si rialzava e gridava
per poi riprendere a correre.
Era uno spettacolo divertente.
Spagna la seguiva con tutta la calma del mondo. Non sarebbe andata
lontano. Anzi, non poteva andare
lontano: il palazzo era completamente circondato dai suoi uomini, se solo
avesse messo il naso fuori sarebbe stata catturata immediatamente.
Lei cadde di nuovo. Rimase stesa a terra, i capelli neri riversi
sul pavimento decorato da brillanti mosaici.
Amava i mosaici quel palazzo. Le minuscole tessere erano così
lisce e lucenti, tagliate con precisione millimetrica.
Chissà com’era possibile che un popolo di selvaggi come quello, di
gente che non aveva mai visto un cavallo né usato una ruota, potesse compiere
opere di simile eleganza e minuzia.
Si avvicinò a lei e afferrò la lunga chioma corvina con una mano,
rigirandosela attorno al pugno. Le alzò il viso a forza – Hai perso.
La vide piegare le labbra in un sorriso – Ma non morirò.
Lui la guardò. Lei sorrise con dolcezza davanti a quello sguardo
vitreo di bovino stupore e sembra sinceramente divertita. Ma divertita da cosa,
poi?
Divertita dalla massa di spagnoli in brache sporche e armature
ammaccate totalmente sudice di terra?
Divertita da quelle armi mai viste e da quelle curiose bestie che
potevano avere una o due teste a seconda del momento della giornata?
Gli pose quella domanda in una notte di luna pallida, profumata di
fiori e d’alcool.
Lei rise dolcemente – Siete divertenti- disse poggiandosi al muro –
siete come animali affamati messi davanti al cibo.
- Invece morirai, amica mia. Morirai e verrai rimpiazzata, perché
questo è il destino che si addice a bestie fuori della grazia di Dio come te.
- Ma forse è necessario che io muoia, non credete?
- E perché mai?- Antonio non la guardava in viso.
Non tanto perché quel viso schiacciato da scimmia lo disgustava,
ma perché vedere quella smorfia tutta denti che la donna chiamava “sorriso” gli faceva torcere le budella.
E a giudicare dal tono che stava usando era certo che stesse
“sorridendo”.
- Ho chiesto agli dei.- i suoi occhi neri luccicarono come l’oro
di cui era adornata – Ho chiesto agli dei un grande favore.
Lei camminava in quel palazzo meraviglioso con i capelli ornati di
lunghe piume di Quetzal. Un gattopardo la seguiva pigramente. Appurò con
sentita meraviglia che neppure un felino elegante come quello era in grado di
imitare la delicatezza e la sensualità delle movenze della donna.
Le prese il polso. Lei si voltò e lo guardò in silenzio con quegli
occhi neri e lucenti che sembravano carboni ardenti – Non sono adatta a portare
catene.- disse sorridendo. Spagna lasciò la sua mano di colpo, ritrovandosi
scosso da un brivido.
Lei scomparve dietro un angolo, seguita dalla fedele bestia.
Spagna rimase immobile al centro del corridoio, pensando a quell’inusuale
quanto disgustoso ghigno.
- Un gran favore?- esclamò ridendo prima di scrollarle la testa
con violenza, sbattendole il viso contro il pavimento - E di grazia, mi è consentito sapere qual è
questo gran favore?
Le colava il sangue sul viso, ma la smorfia non scomparve. Non
scomparve neanche il luccichio nei suoi occhi – Come ben saprete, anzi, come
spero voi sappiate, i nostri dei richiedono un gran pagamento per esaudire i
nostri desideri.
- Sì, conosco i modi disgustosi di voi selvaggi.
- E io ho chiesto un gran favore. E come avrete ben capito, devo
pagare un gran prezzo.- volse lo sguardo verso le fiamme che lambivano la città
– Ho pagato un gran prezzo per un gran favore.
- Il tuo sorriso è disgustoso.
- Ne sono spiacente.
- Non esserne spiacente!- latrò Spagna prendendo a calci una
sedia. Lei seguì con gli occhi l’oggetto rovinare a terra – Ho ucciso la tua
gente e rubato il loro oro!- sbraitò – E tu non ti arrabbi neanche!
- Dovrei?- domandò calma la donna allungando una mano per grattare
il capo del gattopardo – Volevate l’oro. L’avete avuto. Ne volete altro? Ne
avrete. Non è certo questo il problema.
Lui la guardò e lei lo vide. Vide lo sguardo avido e stupido dei
soldati spagnoli che avevano ucciso i suoi compagni e che in quel momento venivano
trucidati, là fuori, da uomini coperti di quell’oro che loro volevano con tutto
il cuore.
- Sono qui che attendo di conoscere questo gran favore che hai
richiesto ai tuoi dei, Yara.
La donna rise ad alta voce. La sua risata era forte e sgradevole.
Era così la prima volta che l’aveva sentita?
Non si ricordava molto bene. Eppure, nella sua mente svolazzava
l’immagine di una donna elegante e sorridente che rideva spesso. Non sorrideva
con quel ghigno rivoltante, quello che scopriva la gengiva sanguinolenta e i
denti marci e storti (da quando erano così marci e storti?) ma sorrideva con
dolcezza, mostrando una chiostra di denti non perfetti, ma almeno non
disgustosi. Rideva coprendosi la bocca con una mano, un gesto delizioso ed
elegante che aveva adorato, sussurrando una risata lieve e cristallina come il
suono di un torrente che scivola in una piccola cascata. Perché ora ragliava
come un asino preso a bastonate?
- Il diavolo- disse un soldato – c’è il diavolo su quella torre.
Antonio assottigliò gli occhi. Riusciva a vederla alla perfezione,
dritta sulla cima della piramide, i raggi di sole che si riflettevano e si
spezzavano sui suoi gioielli.
Riusciva a distinguere le macchie rosse sulla lunga veste bianca e
quella smorfia simile ad un sorriso vittorioso sul viso bruciato dal sole.
Riusciva persino a vedere la testa che teneva in mano e che
sventolava come una bandiera.
- Il diavolo- disse Antonio senza distogliere lo sguardo – uccide
gli spagnoli.
- Lo vedrete- disse ridendo – lo vedrete presto, nobile Teotl!- le risate risuonarono nel palazzo per minuti,
ore, forse giorni. Forse fu proprio per liberarsi da quel ragliare
singhiozzante che Spagna ordinò la distruzione di quell’opera d’arte senza
neanche pulirsi le mani del sangue di Tenochtitlán.
Il sole
picchiava. Si rifletteva sull’asfalto e lo rendeva bollente come la sabbia di
un deserto. Spagna si asciugò la fronte con la manica, buttandosi su una sedia.
Un cameriere fradicio di sudore gli porse il menù e scomparve dietro le porte a
vetri del locale.
Di
sicuro là dentro c’era il condizionatore.
Si
maledisse per essere venuto a Città del Messico.
In primo
luogo, sia Messico che la sua Capitale lo odiavano in maniera decisamente
palese ed avevano più volte sottolineato che piuttosto di averlo vicino
avrebbero preferito spararsi in un piede a vicenda.
Inoltre,
quella città gli portava sempre pessimi ricordi. Se chiudeva gli occhi poteva
ancora vedere la vecchia Tenochtitlán
con la gente coperta d’oro e il gattopardo che camminava sinuoso sui mosaici
del palazzo di Montezuma, seguendo fedele il frusciare della veste della sua
padrona.
-
Bentornato. – disse una voce. Spagna non aprì gli occhi.
La donna
si sedette davanti a lui. Un gatto dal mantello maculato si acciambellò attorno
ai suoi piedi – Vi piace la città?
- Bella.
- disse Spagna. Anche a occhi chiusi riusciva a vedere i lunghi capelli neri
tagliati regolari, la frangia che arrivava precisa sulle sopracciglia scure,
gli occhi scuri lucenti come carboni ardenti.
- Siete contento
di vedermi?
- Devo
essere sincero? - Spagna sorrise, aprendo piano un occhio. Riusciva a vedere la
mano della donna stretta attorno ad un bicchiere colmo di latte. Aveva le dita sporche
di terra e la unghie scheggiate, ma erano belle e delicate proprio come
ricordava.
- Ho
chiesto un grande favore- disse lei disegnando col dito il bordo del bicchiere
– e ho dovuto pagare un grande prezzo, ma come vedi sono qui.
- Sei
qui.
- Non morirò
mai.
- Vuoi
ricordarmi il mostro che ero?
- Non
siete morto- disse la donna – quindi non eravate
un mostro. Voi siete un mostro. Lo sarete per sempre. Il mostro resterà sopito
in voi per tutta la vostra esistenza.
- Vuoi quindi ricordarmi che sono
un mostro?
Lei sollevò il bicchiere, portandoselo al viso. Nel momento in cui
schiuse la labbra poté vedere quei denti marci e gialli che l’avevano
perseguitato per anni. Il silenzio durò quasi un secolo – Ho pagato con la vita del mio popolo e con
la mia- disse poi poggiando il bicchiere. Spagna aprì finalmente gli occhi,
osservandola sotto il sole bruciante di Città del Messico – per ricordarvi il
mostro che siete. Ogni giorno. Ogni singolo giorno della vostra meschina
esistenza.
Spagna la guardò in silenzio e lei sorrise – Resterò conficcata
nella vostra mente, Antonio. Tutti mi hanno dimenticata, tutti mi
dimenticheranno e non m’importa. Ma a voi- il sorriso si allargò e Spagna fu
sicuro di vederle colare dalla gengiva superiore del sangue misto al latte - a voi non è
consentito scordarmi.
Lei sorrideva e Spagna voleva urlare, piangere, scappare via e
tutte e tre le cose assieme. Voleva scappare come aveva fatto lei, inciampare,
cadere e restare immobile come aveva fatto lei. Voleva che lei lo uccidesse
come lui aveva fatto con lei – Ti odio, Yara.
- Ma anch’io vi odio, Antonio.- affermò lei – E il fatto che
abbiate dato alla vostra prima figlia nata in questa terra il mio stesso nome
mi disgusta.
- Perdonami, allora.
- Non potrei mai.
Antonio chiuse gli occhi. Poi li riaprì.
La sedia era vuota. Non c’era alcun bicchiere di latte, non c’era
alcun sorriso di denti marci, non c’era alcuna Yara.
C’era solo un gatto dal manto maculato. Lo vide salire sul tavolo,
muovendo lentamente la coda nell’aria. Aveva gli occhi neri e lucenti come
carboni ardenti.
Una goccia di latte era rimasta appesa ad uno dei lunghi baffi.
Spagna guardò il gatto – Ti odio davvero, Yara.
A.Corner___
Spiegazioni.
Teotl ß speigaziopne
sul termine “teotl”.
“Gli dei erano ringraziati con offerte sacrificali: spesso si trattava di cibo, fiori, effigi ed animali (soprattutto quaglie). Ma più importante era la richiesta fatta al dio, e maggiore doveva essere il sacrificio, il che per molti riti significava offrire il proprio sangue. Questo tipo di offerta poteva venire fatta tagliandosi orecchie, braccia, lingua, cosce, torace o genitali.” ß piccola spiegazione sui sacrifici. Ad ogni richiesta si doveva offrire un prezzo relativo.
La battaglia di Tenochtitlàn contiene spiegazioni sull’assedio spagnolo della città. In particolare, il passo più utile per capire questa storia è questo: “La città venne posta sotto assedio per dieci settimane, dal 26 maggio al 13 agosto: gli aztechi subirono pesanti perdite e soffrirono della mancanza d'acqua a seguito del taglio di un acquedotto, ma riuscirono tuttavia a tenere a bada gli assedianti. Gli spagnoli presi prigionieri venivano sacrificati sulle piramidi, visibili da lontano dai loro compagni terrorizzati.”
Invece, da questo articolo il passo presente nella storia è questo “Il 13 agosto del 1521, Cortés e i suoi uomini, aiutati da alcune popolazioni locali ostili agli aztechi, conquistarono Tenochtitlán dopo una sanguinosa battaglia (battaglia di Tenochtitlán) che sterminò la popolazione e ridusse la città in macerie. Ciò che restava della città fu smantellato, demolito, distrutto o dato a fuoco. Sulle ceneri di Tenochtitlán fu costruita Città del Messico.”
Yara è un nome di origine Azteca che significa “primavera”. Gli spagnoli lo sentirono durante la loro permanenza nel Sud America e, trovandolo orecchiabile, decisero di adottarlo come nome anche loro. Si narra che la prima bambina spagnola nata in suolo americano venne chiamata proprio “Yara”.
Yara rappresenta Tenochtitlán. Come mio solito, ho voluto rappresentare la decadenza della città nella decadenza della sua rappresentante. Nel caso di Tenochtitlán, che si guasta lentamente all’interno per via del controllo esercitato dagli spagnoli sull’Imperatore e sulla gente, ho immaginato una persona rimasta uguale, esternamente, ma marcita dentro.