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Autore: Akrois    06/05/2011    3 recensioni
Riusciva a distinguere le macchie rosse sulla lunga veste bianca e quella smorfia simile ad un sorriso vittorioso sul viso bruciato dal sole.
Riusciva persino a vedere la testa che teneva in mano e che sventolava come una bandiera.
- Il diavolo- disse Antonio senza distogliere lo sguardo – uccide gli spagnoli.
[Conquistador!Spagna;Oc!Tenochtitlán]
Terza classificata al contest: "Hetalia - Through History Contest!" indetto da Lalani.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Autore: Akrois
Titolo della fic:
Il gatto ha i baffi sporchi di latte e gli occhi d’Inferno.
Tipologia della fic: One-Short.
Evento Scelto:
13 Agosto 1521 - Tenochtitlán (l'odierna Città del Messico) cade nelle mani del conquistador Hernán Cortés
Personaggi principali: Conquistador!Spagna (
Antonio Fernandez Carriedo), Tenochtitlán (Yara).
Genere: Introspettivo, storico, drammatico.
Avvertimenti: One-short, OC, Non per stomaci delicati (?).
Raiting: Arancione.
Introduzione:
Riusciva a distinguere le macchie rosse sulla lunga veste bianca e quella smorfia simile ad un sorriso vittorioso sul viso bruciato dal sole.

Riusciva persino a vedere la testa che teneva in mano e che sventolava come una bandiera.

- Il diavolo- disse Antonio senza distogliere lo sguardo – uccide gli spagnoli.

 

 

 

Un bicchiere di latte ed una piazza
col monumento. Un bicchiere di latte
dalle tue dolci sporche nuove mani.

 

[Sandro Penna]

 

 

 

Il gatto ha i baffi sporchi di latte e gli occhi d’Inferno.

 

 

 

 

C’era sempre qualcosa di seducente e maligno nella battaglia.

Per lui le battaglie erano come delle sensuali danze ballate tra uomini. Non ci si tenevano le mani a vicenda, si tenevano solo le spade. Perché solo le spade erano degne di essere tenute da mani come le loro: mani sporche di sangue e piene di gloria.

O piene d’oro. Ma che differenza c’era tra l’oro e la gloria? La seconda portava al primo e il primo poteva comprare la seconda.

Spagna non amava combattere o forse amava combattere più di qualsiasi altra cosa. Neppure lui riusciva a capirlo bene.

Tenochtitlán correva disperata per le stanze del palazzo. Inciampava, cadeva, arrancava, si rialzava e gridava per poi riprendere a correre.

Era uno spettacolo divertente.

Spagna la seguiva con tutta la calma del mondo. Non sarebbe andata lontano. Anzi, non poteva andare lontano: il palazzo era completamente circondato dai suoi uomini, se solo avesse messo il naso fuori sarebbe stata catturata immediatamente.

Lei cadde di nuovo. Rimase stesa a terra, i capelli neri riversi sul pavimento decorato da brillanti mosaici.

Amava i mosaici quel palazzo. Le minuscole tessere erano così lisce e lucenti, tagliate con precisione millimetrica.

Chissà com’era possibile che un popolo di selvaggi come quello, di gente che non aveva mai visto un cavallo né usato una ruota, potesse compiere opere di simile eleganza e minuzia.

Si avvicinò a lei e afferrò la lunga chioma corvina con una mano, rigirandosela attorno al pugno. Le alzò il viso a forza – Hai perso.

La vide piegare le labbra in un sorriso – Ma non morirò.

 

 

Lui la guardò. Lei sorrise con dolcezza davanti a quello sguardo vitreo di bovino stupore e sembra sinceramente divertita. Ma divertita da cosa, poi?

Divertita dalla massa di spagnoli in brache sporche e armature ammaccate totalmente sudice di terra?

Divertita da quelle armi mai viste e da quelle curiose bestie che potevano avere una o due teste a seconda del momento della giornata?

Gli pose quella domanda in una notte di luna pallida, profumata di fiori e d’alcool.

Lei rise dolcemente – Siete divertenti- disse poggiandosi al muro – siete come animali affamati messi davanti al cibo.

 

 

- Invece morirai, amica mia. Morirai e verrai rimpiazzata, perché questo è il destino che si addice a bestie fuori della grazia di Dio come te.

- Ma forse è necessario che io muoia, non credete?

- E perché mai?- Antonio non la guardava in viso.

Non tanto perché quel viso schiacciato da scimmia lo disgustava, ma perché vedere quella smorfia tutta denti che la donna chiamava “sorriso” gli faceva torcere le budella.

E a giudicare dal tono che stava usando era certo che stesse “sorridendo”.

- Ho chiesto agli dei.- i suoi occhi neri luccicarono come l’oro di cui era adornata – Ho chiesto agli dei un grande favore.

 

 

Lei camminava in quel palazzo meraviglioso con i capelli ornati di lunghe piume di Quetzal. Un gattopardo la seguiva pigramente. Appurò con sentita meraviglia che neppure un felino elegante come quello era in grado di imitare la delicatezza e la sensualità delle movenze della donna.

Le prese il polso. Lei si voltò e lo guardò in silenzio con quegli occhi neri e lucenti che sembravano carboni ardenti – Non sono adatta a portare catene.- disse sorridendo. Spagna lasciò la sua mano di colpo, ritrovandosi scosso da un brivido.

Lei scomparve dietro un angolo, seguita dalla fedele bestia.

Spagna rimase immobile al centro del corridoio, pensando a quell’inusuale quanto disgustoso ghigno.

 

 

- Un gran favore?- esclamò ridendo prima di scrollarle la testa con violenza, sbattendole il viso contro il pavimento - E di grazia, mi è consentito sapere qual è questo gran favore?

Le colava il sangue sul viso, ma la smorfia non scomparve. Non scomparve neanche il luccichio nei suoi occhi – Come ben saprete, anzi, come spero voi sappiate, i nostri dei richiedono un gran pagamento per esaudire i nostri desideri.

- Sì, conosco i modi disgustosi di voi selvaggi.

- E io ho chiesto un gran favore. E come avrete ben capito, devo pagare un gran prezzo.- volse lo sguardo verso le fiamme che lambivano la città – Ho pagato un gran prezzo per un gran favore.

 

 

- Il tuo sorriso è disgustoso.

- Ne sono spiacente.

- Non esserne spiacente!- latrò Spagna prendendo a calci una sedia. Lei seguì con gli occhi l’oggetto rovinare a terra – Ho ucciso la tua gente e rubato il loro oro!- sbraitò – E tu non ti arrabbi neanche!

- Dovrei?- domandò calma la donna allungando una mano per grattare il capo del gattopardo – Volevate l’oro. L’avete avuto. Ne volete altro? Ne avrete. Non è certo questo il problema.

Lui la guardò e lei lo vide. Vide lo sguardo avido e stupido dei soldati spagnoli che avevano ucciso i suoi compagni e che in quel momento venivano trucidati, là fuori, da uomini coperti di quell’oro che loro volevano con tutto il cuore.

 

 

 

 

- Sono qui che attendo di conoscere questo gran favore che hai richiesto ai tuoi dei, Yara.

La donna rise ad alta voce. La sua risata era forte e sgradevole. Era così la prima volta che l’aveva sentita?

Non si ricordava molto bene. Eppure, nella sua mente svolazzava l’immagine di una donna elegante e sorridente che rideva spesso. Non sorrideva con quel ghigno rivoltante, quello che scopriva la gengiva sanguinolenta e i denti marci e storti (da quando erano così marci e storti?) ma sorrideva con dolcezza, mostrando una chiostra di denti non perfetti, ma almeno non disgustosi. Rideva coprendosi la bocca con una mano, un gesto delizioso ed elegante che aveva adorato, sussurrando una risata lieve e cristallina come il suono di un torrente che scivola in una piccola cascata. Perché ora ragliava come un asino preso a bastonate?

 

 

- Il diavolo- disse un soldato – c’è il diavolo su quella torre.

Antonio assottigliò gli occhi. Riusciva a vederla alla perfezione, dritta sulla cima della piramide, i raggi di sole che si riflettevano e si spezzavano sui suoi gioielli.

Riusciva a distinguere le macchie rosse sulla lunga veste bianca e quella smorfia simile ad un sorriso vittorioso sul viso bruciato dal sole.

Riusciva persino a vedere la testa che teneva in mano e che sventolava come una bandiera.

- Il diavolo- disse Antonio senza distogliere lo sguardo – uccide gli spagnoli.

 

 

- Lo vedrete- disse ridendo – lo vedrete presto, nobile Teotl!- le risate risuonarono nel palazzo per minuti, ore, forse giorni. Forse fu proprio per liberarsi da quel ragliare singhiozzante che Spagna ordinò la distruzione di quell’opera d’arte senza neanche pulirsi le mani del sangue di Tenochtitlán.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il sole picchiava. Si rifletteva sull’asfalto e lo rendeva bollente come la sabbia di un deserto. Spagna si asciugò la fronte con la manica, buttandosi su una sedia. Un cameriere fradicio di sudore gli porse il menù e scomparve dietro le porte a vetri del locale.

Di sicuro là dentro c’era il condizionatore.

Si maledisse per essere venuto a Città del Messico.

In primo luogo, sia Messico che la sua Capitale lo odiavano in maniera decisamente palese ed avevano più volte sottolineato che piuttosto di averlo vicino avrebbero preferito spararsi in un piede a vicenda.

Inoltre, quella città gli portava sempre pessimi ricordi. Se chiudeva gli occhi poteva ancora vedere la vecchia Tenochtitlán con la gente coperta d’oro e il gattopardo che camminava sinuoso sui mosaici del palazzo di Montezuma, seguendo fedele il frusciare della veste della sua padrona.

- Bentornato. – disse una voce. Spagna non aprì gli occhi.

La donna si sedette davanti a lui. Un gatto dal mantello maculato si acciambellò attorno ai suoi piedi – Vi piace la città?

- Bella. - disse Spagna. Anche a occhi chiusi riusciva a vedere i lunghi capelli neri tagliati regolari, la frangia che arrivava precisa sulle sopracciglia scure, gli occhi scuri lucenti come carboni ardenti.

- Siete contento di vedermi?

- Devo essere sincero? - Spagna sorrise, aprendo piano un occhio. Riusciva a vedere la mano della donna stretta attorno ad un bicchiere colmo di latte. Aveva le dita sporche di terra e la unghie scheggiate, ma erano belle e delicate proprio come ricordava.

- Ho chiesto un grande favore- disse lei disegnando col dito il bordo del bicchiere – e ho dovuto pagare un grande prezzo, ma come vedi sono qui.

- Sei qui.

- Non morirò mai.

- Vuoi ricordarmi il mostro che ero?

- Non siete morto- disse la donna – quindi non eravate un mostro. Voi siete un mostro. Lo sarete per sempre. Il mostro resterà sopito in voi per tutta la vostra esistenza.

- Vuoi quindi ricordarmi che sono un mostro?

Lei sollevò il bicchiere, portandoselo al viso. Nel momento in cui schiuse la labbra poté vedere quei denti marci e gialli che l’avevano perseguitato per anni. Il silenzio durò quasi un secolo – Ho pagato con la vita del mio popolo e con la mia- disse poi poggiando il bicchiere. Spagna aprì finalmente gli occhi, osservandola sotto il sole bruciante di Città del Messico – per ricordarvi il mostro che siete. Ogni giorno. Ogni singolo giorno della vostra meschina esistenza.

Spagna la guardò in silenzio e lei sorrise – Resterò conficcata nella vostra mente, Antonio. Tutti mi hanno dimenticata, tutti mi dimenticheranno e non m’importa. Ma a voi- il sorriso si allargò e Spagna fu sicuro di vederle colare dalla gengiva superiore del sangue misto al latte - a voi non è consentito scordarmi.

Lei sorrideva e Spagna voleva urlare, piangere, scappare via e tutte e tre le cose assieme. Voleva scappare come aveva fatto lei, inciampare, cadere e restare immobile come aveva fatto lei. Voleva che lei lo uccidesse come lui aveva fatto con lei – Ti odio, Yara.

- Ma anch’io vi odio, Antonio.- affermò lei – E il fatto che abbiate dato alla vostra prima figlia nata in questa terra il mio stesso nome mi disgusta.

- Perdonami, allora.

- Non potrei mai.

Antonio chiuse gli occhi. Poi li riaprì.

La sedia era vuota. Non c’era alcun bicchiere di latte, non c’era alcun sorriso di denti marci, non c’era alcuna Yara.

C’era solo un gatto dal manto maculato. Lo vide salire sul tavolo, muovendo lentamente la coda nell’aria. Aveva gli occhi neri e lucenti come carboni ardenti.

Una goccia di latte era rimasta appesa ad uno dei lunghi baffi. Spagna guardò il gatto – Ti odio davvero, Yara.

 

 

 

 

A.Corner___

Spiegazioni.

Teotl ß speigaziopne sul termine “teotl”.

“Gli dei erano ringraziati con offerte sacrificali: spesso si trattava di cibo, fiori, effigi ed animali (soprattutto quaglie). Ma più importante era la richiesta fatta al dio, e maggiore doveva essere il sacrificio, il che per molti riti significava offrire il proprio sangue. Questo tipo di offerta poteva venire fatta tagliandosi orecchie, braccia, lingua, cosce, torace o genitali.” ß piccola spiegazione sui sacrifici. Ad ogni richiesta si doveva offrire un prezzo relativo.

La battaglia di Tenochtitlàn contiene spiegazioni sull’assedio spagnolo della città. In particolare, il passo più utile per capire questa storia è questo: “La città venne posta sotto assedio per dieci settimane, dal 26 maggio al 13 agosto: gli aztechi subirono pesanti perdite e soffrirono della mancanza d'acqua a seguito del taglio di un acquedotto, ma riuscirono tuttavia a tenere a bada gli assedianti. Gli spagnoli presi prigionieri venivano sacrificati sulle piramidi, visibili da lontano dai loro compagni terrorizzati.”

Invece, da questo articolo il passo presente nella storia è questo “Il 13 agosto del 1521, Cortés e i suoi uomini, aiutati da alcune popolazioni locali ostili agli aztechi, conquistarono Tenochtitlán dopo una sanguinosa battaglia (battaglia di Tenochtitlán) che sterminò la popolazione e ridusse la città in macerie. Ciò che restava della città fu smantellato, demolito, distrutto o dato a fuoco. Sulle ceneri di Tenochtitlán fu costruita Città del Messico.”

Yara è un nome di origine Azteca che significa “primavera”. Gli spagnoli lo sentirono durante la loro permanenza nel Sud America e, trovandolo orecchiabile, decisero di adottarlo come nome anche loro. Si narra che la prima bambina spagnola nata in suolo americano venne chiamata proprio “Yara”.

 

Yara rappresenta Tenochtitlán. Come mio solito, ho voluto rappresentare la decadenza della città nella decadenza della sua rappresentante. Nel caso di Tenochtitlán, che si guasta lentamente all’interno per via del controllo esercitato dagli spagnoli sull’Imperatore e sulla gente, ho immaginato una persona rimasta uguale, esternamente, ma marcita dentro.

 

   
 
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