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Autore: _Calypso_    12/05/2011    3 recensioni
Era sola, completamente abbandonata a se stessa. Per qualche momento si chiese se Orfin avrebbe potuto aiutarla, ma quel pensiero se ne andò con la stessa rapidità con cui si era affacciato alla sua mente, stanca come il corpo martoriato dalle torture: il fratello maggiore condivideva le medesime idee del padre riguardo la purezza del sangue ed il diritto dei maghi di dominare il mondo. Allo stesso modo riteneva Merope una vergogna per il nome dei Gaunt e spartiva con il genitore la ferma convinzione di nasconderla, in quanto Maganò.
[Storia classificata seconda al contest "Il mio miglior nemico/La mia miglior nemica" di Maeve_ e Mizar19 e all'"Unusual Characters Contest" di Andromeda Black.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Merope Gaunt, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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ADM

Scrivere questa storia è stato IL parto per eccellenza: molte volte, durante la stesura, mi sono chiesta chi me l'avesse fatto fare.

Inoltre questa è stata la prima storia in assoluto che ho scritto per il fandom di Hp.

E' stato difficile, molto difficile incastrare tutto e cercare di far funzionare ogni elemento: il risultato finale, tuttavia, non mi convince molto. Per questo motivo sono rimasta incredibilmente sorpresa dal fatto che questa storia si sia classificata seconda al contest "Il mio miglior nemico/La mia miglior nemica" di Maeve_ e Mizar19 e all'"Unusual Characters Contest" di Andromeda Black.

Lascio i giudizi in fondo, come sempre.

Buona lettura!

Note iniziali e disclaimer: Il titolo viene da Orazio, Carmina, I, 3 e significa “metà della mia anima”. Tutti i personaggi appartengono alla santa e benedetta J.K. Rowling, tranne Asterope Gaunt, che ho ideato. Le altre note le metterò alla fine per non spoilerare!

Animae dimidium meae

Parte I

 

Il nemico osserva bene se un'anima è grossolana oppure delicata;

 se è delicata, fa in modo da renderla delicata fino all'eccesso,

 per poi maggiormente angosciarla e confonderla.

Ignazio di Loyola

 

«Avanti, reagisci, inutile sacco di fango! Crucio!» urlò Orvoloson, brandendo la bacchetta e scagliandola contro l’inerme Merope, che cadde a terra senza nemmeno tentare di difendersi. La maledizione la colpì con inaudita violenza, causandole un grosso squarcio nella veste informe e grigiastra, dello stesso colore del suo volto, ormai pallido per il terrore. Il dolore s’impadronì della ragazza, debole per le ripetute violenze a cui la sottoponevano il fratello e il padre, gli unici membri rimasti in vita del suo nucleo famigliare. Sentì le giunture del suo corpo andare a fuoco, come penetrate da lame incandescenti e pugnali roventi. Pur giacendo sullo sporco pavimento di quella squallida catapecchia, non aveva mosso minimamente la pietà dei suoi cari.

Merope Gaunt era l’ultima discendente femminile di Salazar Serpeverde, uno dei maghi più potenti di tutti i tempi, nonché uno dei quattro fondatori della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Per questo motivo il suo sangue era considerato puro come una sorgente di montagna dal padre e dal fratello, ma la fanciulla vi vedeva soltanto le malattie e i disturbi di varia natura a cui era soggetto ogni membro della famiglia, a causa dei continui matrimoni tra cugini.

 

La madre di Merope, Asterope, era morta per un male che nessuno era riuscito a guarire quando la sua unica figlia femmina era ancora soltanto un’innocente bambina. Se n’era andata in pochi mesi, mentre Merope, benché fosse soltanto una bimba, iniziava a capire che avrebbe perso la sua unica amica.

Il padre di Merope, Orvoloson, era impazzito per il dolore derivante dalla morte della moglie, una strega incredibilmente potente e dotata, come immaginava che sarebbe stata la figliola da lei tanto adorata. Il seme della violenza, che l’amore per Asterope aveva temporaneamente soffocato, si era di nuovo manifestato, in particolare per quanto riguardava l’unico, ultimo scopo della sua vita, ovvero la purificazione del Mondo Magico da Babbani e Maghinò, i suoi più grandi nemici.

Il fratello di Merope, Orfin, non era molto dissimile dal padre: non aveva mai mostrato il minimo segno d’affetto per il ramo femminile della famiglia, mentre venerava Orvoloson in tutto e per tutto. Quest’ultimo, d’altro canto, adorava il suo primogenito: aveva grandi progetti per lui, sapendo che non avrebbe mai tradito le sue aspettative. La malattia di Asterope e, successivamente, la sua morte, avevano rappresentato la fine di un’esistenza che, seppur non si potesse definire felice, in quanto i Gaunt erano caduti in miseria, disprezzati e accomunati a vagabondi, era sempre stata perlomeno tranquilla.

Merope era rimasta ogni giorno al suo capezzale, in quanto Orfin era ad Hogwarts ed Orvoloson raramente era in casa: spesso partiva senza lasciar detto niente, per poi tornare dopo qualche giorno in condizioni a dir poco pietose per l’abuso di Whisky Incendiario. Asterope era l’unica con la quale Merope si apriva, l’unica alla quale offriva le sue preziose confidenze di bimba.

«Non mi piacciono i serpenti» aveva piagnucolato un giorno la piccola Merope, aggrappandosi alle sottane materne. Asterope non poteva saperlo, ma quello che stava vivendo sarebbe stato l’ultimo pomeriggio della sua vita: senza una vera e propria ragione aveva deciso di Smaterializzarsi al di fuori della propria abitazione in un campo di grano non distante, per trascorrere qualche ora all’aria aperta con la figlia.

«Tesoro, non dovresti averne paura» la tranquillizzò la madre con affetto. «Vedi, prova a prenderlo in mano, non ti farà nulla. Puoi parlargli, se vuoi. Anzi, provo prima io. Su, fatti accarezzare dalla mia stellina» Alle ultime parole si sostituì un sibilo, che Merope non faticò a comprendere. In quanto discendente di Serpeverde, Merope aveva l’abilità di parlare con i rettili e di capire il loro linguaggio; allo stesso modo, sua madre, cugina di primo grado di Orvoloson, aveva acquisito sin da bambina la medesima capacità.

Merope afferrò con le grassocce manine la vipera, la quale si acciambellò su di lei, avvolgendosi intorno al suo braccio senza tentare di morderla.

«Hai visto? I serpenti sono tuoi amici, potrai sempre fidarti di loro» mormorò Asterope soavemente, lambendo il capo del rettile e stringendo la figlia in un forte abbraccio, nonostante la malattia l’avesse debilitata.

 

«Perché non ti difendi?» le gridò il padre, lanciandole la bacchetta magica, uno dei pochi segni di appartenenza a quel mondo che la rifiutava. «Non sei degna di essere mia figlia, non sai fare niente, lurida Maganò! Serpensortia!» Così dicendo, con un complicato movimento del braccio, Orvoloson Gaunt scagliò contro l’indifesa Merope un enorme serpente, che iniziò ad attaccarla seguendo i sibili del Rettilofono.

«La gamba, mordile la gamba!» biascicò. Merope non distingueva bene le parole, riusciva soltanto a capirne qualche stralcio. Tuttavia, gli ordini che Orvoloson aveva rivolto al serpente erano inequivocabili: la ragazza si girò su un fianco, rotolando per tentare di nascondersi sotto il tavolo. La stanza, già di dimensioni ridotte, era diventata minuscola per Merope, che sentiva le dozzinali suppellettili tremare e i mobili mal ridotti venire verso di lei, opprimendola e schiacciandola con il loro peso di oggetti legati ad un’antica tradizione, ormai ridotta a pochi cenci.

Era sola, completamente abbandonata a se stessa. Per qualche momento si chiese se Orfin avrebbe potuto aiutarla, ma quel pensiero se ne andò con la stessa rapidità con cui si era affacciato alla sua mente, stanca come il corpo martoriato dalle torture: il fratello maggiore condivideva le medesime idee del padre riguardo la purezza del sangue ed il diritto dei maghi di dominare il mondo. Allo stesso modo riteneva Merope una vergogna per il nome dei Gaunt e spartiva con il genitore la ferma convinzione di nasconderla, in quanto Maganò. Addirittura, molte volte partecipava alle violenze che Orvoloson perpetuava alla figlia: sebbene non ne fosse mai il promotore, seguiva sempre il padre nelle sevizie fisiche e psicologiche a cui era sottoposta l’innocente sorella minore.

Il rettile la raggiunse, strisciando con inaudita rapidità e attaccandole il polpaccio sinistro. Merope urlò di dolore, non tanto per il morso, quanto per lo spasimo di sofferenza che le aveva indotto il movimento improvviso che aveva compiuto per staccare la gamba dalle grinfie della serpe. Sentiva il veleno diffondersi nel corpo ad una velocità incalzante: ovviamente non avrebbe avuto nessun effetto permanente, ma le avrebbe causato indolenzimento e torpore per qualche giorno, il che indicava che non avrebbe nemmeno potuto difendersi dal mero punto di vista fisico, senza l’uso della bacchetta, che le era diventato impossibile dalla morte della madre. Per l’appunto, la ragazza aveva mostrato abilità magiche, in particolare nella più tenera età: un episodio che l’aveva vista palesare i propri poteri si era verificato all’età di cinque anni, durante una delle numerose gite in campagna con la madre, quando Merope si era sporta per raccogliere dei fiori in un fossato ed aveva rischiato di cadere. Asterope si era momentaneamente allontanata: la piccola aveva cominciato ad urlare, quando improvvisamente levitò fino a tornare al sicuro, lontano dal fosso. La madre, ebbra di contentezza, aveva iniziato a stringerla tra le braccia lanciandola in aria, per poi riprenderla subito con sé. Il rapporto tra Merope e Asterope non era una semplice relazione madre-figlia: era il rapporto più simile all’amicizia che entrambe avessero mai vissuto, in quanto Asterope, figlia unica, era sempre vissuta in solitudine, circondata unicamente da bambole e giocattoli magici, mentre Merope era isolata sia dal mondo magico che babbano, inferiore al fratello nel cuore del padre per la perdita delle sue abilità magiche.

Sapeva di essere un peso per i suoi famigliari rimasti in vita: cercavano in tutti in modi di farle tornare i poteri magici, ma quella specie di gioco, iniziato con innocenza (spesso Orfin provava a farle riparare oggetti rotti con l’uso della bacchetta), si era trasformata in una vera e propria serie di sevizie. Orvoloson aveva cominciato a farle violenza fisica: disperato, si augurava che almeno quest’estrema forma di sopruso riuscisse a risvegliare i suoi poteri sopiti. Tuttavia, con questo gesto aveva sortito un effetto totalmente opposto e contrario: infatti Merope era sempre più terrorizzata dal padre, e non riusciva nemmeno più a tenere in mano la bacchetta di Asterope senza che si rivoltasse contro di lei, disobbedendo persino agli ordini più semplici.

Il padre voleva sistemarla. Sapeva che Merope non era altro che un legno storto[1], sospesa tra le grandi potenzialità del purissimo sangue che le scorreva tra le vene ed il suo inconscio rifiuto per il Mondo Magico nella sua totalità, dopo la morte della madre.

Orvoloson Gaunt voleva correggere la propria figlia, raddrizzare quel legno attraverso il proprio, quindici pollici di legno di frassino con cuore di drago.

Parte II

Il modo migliore per difendersi da un

 nemico è non comportarsi come lui.

 (Marco Aurelio)

 

«Non basta nemmeno questo? Crucio, crucio, crucio!» Merope fu sollevata da terra; la testa picchiò contro il tavolo sotto il quale era rannicchiata, causandole un ampio edema sulla fronte e un taglio dietro l’orecchio, mentre cadeva di nuovo sul pavimento ormai sporco del suo purissimo sangue. La ragazza cercò di muoversi avanti carponi ma il tentativo fu vano, poiché mentre l’enorme serpente continuava ad attaccarla alle gambe, un’altra sferzata della bacchetta del padre causò l’urto del gomito di Merope con un ceppo incandescente.

La ragazza urlò.

Le fiamme le circondarono il braccio destro, avvolgendosi come le spire del rettile che tormentavano la parte inferiore del suo corpo, ma fortunatamente, in un attimo di coraggio, Merope riuscì ad afferrare una coperta, gettandosela sul polso, dove il fuoco si era nel frattempo propagato. L’ennesimo colpo la fece vacillare ma non cadere. Pur avendo perso l’equilibrio sulla gamba destra era stata in grado di sostenersi sul tavolo facendo perno sull’avambraccio sinistro.

Merope stava resistendo.

Nel trambusto, la bacchetta di Asterope era stata scagliata in aria, finendo sulla mensola del camino, di fronte ad Orvoloson, il quale, ammutolito, fece cessare l’effetto della Maledizione Cruciatus. Era la prima volta in cui sua figlia era riuscita ad opporsi, annullandone parzialmente l’effetto. Ci volevano anni ed un lungo allenamento, prima di imparare a contrastare le Maledizioni Senza Perdono che non causavano una morte istantanea.

Erano accadute molte cose dal primo di quelli che Orvoloson chiamava allenamenti. Egli, infatti, riteneva che Merope dovesse sapersi difendere. Almeno nei primi tempi voleva soltanto essere suo amico. Nella sua visione distorta del mondo la stava proteggendo dai Babbani che avrebbero potuto attaccarla, o peggio, dai Mezzosangue che a suo parere continuavano ad infestare il Mondo Magico e a dissolvere il sangue puro in unioni con i non-maghi.

«Vedi, piccola Merope» le diceva sin da quando era bambina «il mondo dovrebbe essere un meraviglioso giardino, pieno di fiori belli come te. Invece è un prato ricoperto da erbacce come Babbani, Mezzosangue e Maghinò, che infestano la nostra Terra come fango.»

L’aveva amata. Aveva amato in lei gli scuri occhi di Asterope, ma Asterope non c’era più, se n’era andata dopo poco tempo, come i fiori più belli e rari.

Dopo la sua morte Merope aveva iniziato ad avvizzire e a marcire. Era consapevole che si stava trasformando in un’erbaccia e, in quanto tale suo padre, doveva estirpare il fango dentro di lei.

Merope era diventata, infine, la sua unica, vera nemica, l’essere più instabile da lui generato, ma allo stesso tempo un essere che non poteva fare a meno di lui, ormai divenuto metà della sua anima.

A differenza di Orfin, il quale non perdeva mai occasione per affatturare qualche Babbano nel villaggio di Little Hangleton, Orvoloson si era chiuso nel misero tugurio che costituiva la sua abitazione ignorando il mondo che lo circondava. La sua unica valvola di sfogo era la figlia: aveva vissuto un’intera esistenza in cui aveva imparato che l’unica soluzione che avrebbe sempre risolto tutto era la violenza, ma in questo caso non aveva fatto altro che fallire. L’amore che provava nei confronti di Asterope e della figlia con lei generata si era trasformato in odio, un odio puro per la purissima Merope, il catalizzatore delle sue reazioni vitali.

Non aveva rimorsi: sapeva che ciò a cui la assoggettava era giusto, necessario, inevitabile. Era tuttavia consapevole che era completamente vano, così come riteneva la figlia, vana ed inutile.

Per questo motivo, quando Merope non cadde, a finire a terra fu la sua bacchetta. Orvoloson si chinò a raccoglierla: la maledizione aveva cessato il suo effetto e l’enorme serpente si era dissolto nel nulla. C’era sua figlia, ritta dinanzi a lui, con il coraggio accumulato dopo anni di abusi e sevizie.

Aveva trovato la forza. Ci era riuscita.

Merope afferrò la bacchetta della madre: sapeva che ciò che avrebbe compiuto le avrebbe cambiato la vita per sempre, e probabilmente ne avrebbe dovuto pagare le conseguenze a lungo.

Aveva letto con avidità i libri contenuti nella stanza di Orfin, senza che quest’ultimo se ne accorgesse, impegnato com’era nelle sue scorribande. Era sicura, come le aveva detto la madre quand’era una bambina, che vi era della magia al suo interno, nel profondo del suo cuore: era solo questione di incanalarla e indirizzare il proprio potere verso qualcosa di grande.

Un getto di luce rossa sarebbe stato sufficiente per rivoluzionare la sua vita.

Una sola parola.

«Stupeficium!» sussurrò Merope, con la voce rotta. Il suo incantesimo ovviamente non ebbe alcun effetto consistente sul padre, se non quello di farlo barcollare leggermente. Ciononostante, l’uomo aveva avuto successo, nel suo intento.

Da quel giorno, Orvoloson Gaunt non aveva più alzato né le mani né la bacchetta sulla figlia.

Parte III

Non c'è nemico più temibile

 di quello di cui nessuno ha più paura.

 Dan Brown

 

Merope Gaunt aveva cominciato ad occuparsi di magia quando aveva incontrato per la prima volta Tom Riddle, un Babbano dai lineamenti eleganti, figlio del signorotto locale. Tom era affascinante come un gatto dal passo sinuoso, aggraziato come un fiore di campo, raffinato come una rondine in volo: era tutto ciò che Merope non era mai stata e tutto ciò che aveva sempre desiderato essere.

Perché si trattava di desiderio, come avrebbe capito negli anni a venire, non di amore.

Era proprio quel desiderio che provava nei suoi confronti che l’aveva portata a tentare il tutto per tutto, pur di sfuggire alla miseria della sua esistenza. Aveva scoperto che c’erano vari modi per controllare la mente altrui: quello più efficace implicava l’uso della prima delle tre Maledizioni Senza Perdono, ovvero la Maledizione Imperius. Bisognava volerlo davvero, voler controllare il corpo e la mente di una persona, e Merope non ne sarebbe stata affatto in grado: era ancora integra nell’animo, nonostante il padre avesse iniziato a distruggerla dall’esterno.

La seconda soluzione, con più margine di errore ma più semplice da realizzare, era una pozione. L’Amortentia non poteva creare veramente l’amore, ma tuttavia era in grado di provocare una potente infatuazione od ossessione.[2] Era indubbiamente pericolosa, i suoi effetti potevano essere devastanti.

La preparazione di quella pozione e la scelta di un modo per somministrarla a Tom erano state l’unica ancora di salvezza che aveva tenuto Merope in vita dopo l’arresto del padre e del fratello. Pensava che non ci fosse niente di più terribile che essere continuamente sottoposta alle continue torture di Orvoloson: ebbene, si sbagliava. Il suo corpo sicuramente ringraziava il provvidenziale intervento di Bob Ogden, ma la sua anima doveva ancora abituarsi a quella solitudine. La piccola abitazione di Little Hangleton era piena dei fantasmi del passato e Merope aveva la forte tentazione di andarsene da quella baracca una volta per tutte, per congiungersi con l’uomo che credeva di amare.

Come il padre riteneva che la violenza avrebbe risolto i propri problemi, sua figlia era fermamente convinta che l’amore sarebbe stato ciò che le avrebbe cambiato la vita. Quello che Merope non aveva ancora capito era che quell’amore in cui sperava tanto l’avrebbe invece distrutta.

La ragazza passava le giornate alla finestra, sperando di vedere l’uomo che tanto occupava i suoi pensieri e la visitava in sogno. Almeno sotto questo aspetto Tom non la deludeva mai: ogni giorno, proprio come un cavaliere d’altri tempi, attraversava il sentiero che conduceva alla casa dei Gaunt. Merope era convinta che una volta l’avesse vista, mentre, cercando di isolare alcuni ricordi felici del passato, visitava i campi nei quali aveva trascorso indimenticabili momenti con la madre. Si era nascosta dietro l’erba più alta, ma aveva udito una voce che l’aveva raggelata.

«Ma quel vagabondo, Tom… non aveva una figlia?» aveva trillato l’affascinante ragazza che accompagnava spesso il Babbano nelle passeggiate a cavallo.

«Non ne ho idea, cara» le aveva risposto Tom, con lo squillare argentino tipico del suo modo di parlare.

«L’ho vista una volta, affacciata alla finestra… aveva un aspetto orribile, amore!»

Merope aveva saputo che l’interlocutrice di Tom si chiamava Cecilia; ogni lettera di quel nome non faceva altro che infastidirla. Era perfettamente a conoscenza del fatto che proprio Cecilia fosse la ragazza perfetta per Tom, con il suo fascino e la sua grazia, ma nel profondo del suo cuore non riusciva a non immaginarsi al suo fianco.

Per questo motivo, prima di aggiogare Riddle a sé con l’Amortentia, Merope aveva ancora un’ultima missione da portare a termine: doveva eliminare Cecilia, la sua peggior nemica.

Così come sapeva che a Tom piaceva cavalcare nei prati circostanti la radura che delimitava la sua abitazione, Merope era perfettamente a conoscenza dei luoghi in cui l’amica di Tom amava passeggiare in solitudine. La vedeva nei fine settimana, con il suo abitino ricco di pizzi e trine e quel disgustoso ombrellino parasole, che proteggeva i bei riccioli biondi i quali ricadevano con grazia sulle rosee gote.

Quanto la odiava, quanto desiderava che soffrisse, quanto voleva vederla morta.

Cecilia era l’unico ostacolo alla sua felicità, ma Merope non aveva il coraggio di ucciderla, annientandola definitivamente: si rendeva conto della nomea che si aggirava intorno alla sua famiglia, e sarebbe stata facilmente additata come colpevole dagli abitanti del villaggio.

Si sarebbe limitata a spaventarla. Quello che stava per compiere era il secondo atto di coraggio della sua vita, grazie al quale avrebbe potuto cambiare le cose attraverso la sua bacchetta magica. La bacchetta di Asterope, infatti, che Merope sfoderava con ardimento, le infondeva tutto il vigore e il potere della madre. Per un momento si chiese se la madre avrebbe approvato questo suo gesto; probabilmente si sarebbe limitata a scuotere la testa, abbracciandola e ricordandole che il mondo era pieno di ragazzi ben più meritevoli delle sue attenzioni di uno sporco Babbano. La stessa domanda le venne alla mente, pensando a quale sarebbe stata la reazione del padre, il quale detestava Riddle con tutta la sua anima guastata dalle nefandezze che aveva compiuto, ma per certi versi avrebbe approvato il fatto che Merope aveva imparato a difendersi dagli squallidi non-maghi.

E Merope si sentì potente, per la prima volta in tutta la sua vita sentì davvero il sangue di Salazar scorrerle nelle vene, come un antico talismano, che l’avrebbe protetta nelle avversità. Sentiva la forza di Asterope e la crudeltà di Orvoloson mentre pronunciava quell’unico termine che già l’aveva salvata.

«Stupeficium!» urlò, all’apparire di Cecilia nel suo campo visivo. Quest’ultima strillò e cadde con grazia sullo spiazzo erboso, giacendo inerte in posizione supina.

 

Ora rimaneva soltanto a Merope la scelta del giorno in cui avrebbe ingannato Tom. Si svegliò in un giorno di giugno, non eccessivamente afoso. Gli uccellini che abitavano la radura che circondava la misera catapecchia in cui viveva avevano iniziato a cinguettare: proprio dopo che Orvoloson e Orfin erano stati arrestati, la natura aveva ricominciato a manifestarsi in tutte le sue forme, e intorno all’abitazione di Merope non vi erano soltanto più serpenti sibilanti, ma anche altri piccoli animaletti che erano riapparsi, ora che finalmente non erano più vittime dei malvagi scherzi di Orfin e dei rettili che controllava.

La ragazza era uscita di casa indossando il suo abito migliore, sempre che si potesse considerare abito il meno consunto tra gli stracci che portava. Portava un abito viola scuro, con un corto mantello ad esso abbinato: era ben consapevole di non essere graziosa, ma si era sforzata di apparire al meglio delle sue qualità. La vita di Merope aveva iniziato a ruotare nel verso giusto: ora che ruotava intorno all’uomo che l’ultima discendente dei Gaunt considerava giusto aveva iniziato a sentirsi quasi contenta e lo spettro della solitudine aveva smesso di aleggiarle intorno.

Aveva portato un cestino, contenente una coperta: si sarebbe seduta nel prato e avrebbe aspettato l’arrivo di Tom, sicuramente stanco e accaldato, a cui avrebbe offerto ciò che lui avrebbe creduto essere acqua, ma che in realtà era il filtro d’amore per cui Merope aveva instancabilmente lavorato nelle ultime settimane. Quel giorno, tuttavia, Tom sembrava non arrivare. Probabilmente era stato trattenuto da qualche impegno mondano, in cui avrebbe incontrato amici degni di lui e, magari, graziose ragazze Babbane che avrebbero attirato la sua attenzione, riuscendo dove Merope aveva sempre fallito. Rimase seduta ad aspettarlo fino all’imbrunire, fino a quando l’oggetto del suo desiderio non apparve all’improvviso.

Tom Riddle era bello come il sole che se ne stava andando per lasciare posto alla luna. E proprio come il sole, anche la parte peggiore della vita di Merope stava per finire, lasciando posto alla notte, in cui avrebbe potuto finalmente brillare come la stella di cui portava il nome.

I due ragazzi si avvicinarono, Tom era incuriosito e per certi versi sospettoso dinanzi alla bevanda offertagli da Merope, ma il caldo, la stanchezza e la sete vinsero i suoi dubbi.

Al primo sorso non accadde nulla.

Al secondo sorso, lo sguardo di Tom iniziò a prendere una piega strana. Parve sorpreso di trovarsi così vicino alla ragazza, ma la sua sorpresa non era velata di disgusto, come Merope si sarebbe aspettata.

Al terzo sorso, nei suoi occhi Merope vide interesse e desiderio. Poche gocce di quel liquido le avevano permesso di ottenere la felicità pura, che in quel momento aveva il volto ed il nome di Tom Riddle, il quale si sporse verso di lei e le diede un lungo bacio, mentre le stelle in lontananza cominciavano le loro danze notturne.

Parte IV

Grazie al nemico la vita,

 questo sinistro accidente,

 si trasforma in epopea.

Amélie Nothomb

«Hai visto, Severus?» mormorò Lord Voldemort, congiungendo le punte delle dita in un modo che Severus Piton aveva visto tante volte compiere da parte di Albus Silente. «Quella sciocca di mia madre ha abbandonato la sua famiglia per un Babbano. Quando sono andato a cercare la catapecchia in cui vivevano ho trovato una lettera d’addio, rivolta a suo padre. Patetico, vero?»

Così dicendo prese un foglio stropicciato ed iniziò a leggere con tono di scherno:

Padre,

al vostro ritorno non mi troverete. Ho finalmente ottenuto quello che volevo: ho legato a me attraverso la magia un uomo che avete dimostrato di non approvare, il Babbano Tom Riddle. Ho preparato una pozione che continuerò a fargli bere in modo che non mi abbandoni mai. Vivremo per sempre insieme, felici e contenti. Ora Tom non può fare a meno di me, è diventato metà della mia anima.

Addio per sempre,

Vostra Merope.

«Lei non lo amava, e lui non amava lei. L’amore è per i deboli, ti umilia.[3] Mia madre desiderava Riddle e se l’è preso, ma non aveva il coraggio di mantenere la loro relazione, per cui ha smesso di stregarlo. Lui l’ha abbandonata e lei è morta dandomi alla luce. Siamo molto simili io e te, Severus. Le nostre madri erano potenti ma stolte, hanno scelto uomini indegni di loro e per questo hanno subito le conseguenze che si meritavano.» La voce dell’Oscuro Signore cullava Severus, mentre si abbandonava ai propri ricordi.

«Davvero la desideri? Davvero vuoi che la risparmi? Sai… questo tuo odio per Potter ha tirato fuori la parte migliore di te… se sarai al mio fianco potrai avere lei tutta per te, se proprio la desideri.»

«Così sia, allora.» sussurrò Severus, finalmente convinto, mentre una scia di fuoco usciva dalla bacchetta di Lord Voldemort, formando un serpente sul braccio sinistro di Severus Piton e trasformandolo nel suo più fedele Mangiamorte.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note finali

·         So che è un punto controverso per cui volevo specificare bene. Merope è una Maganò, o almeno sappiamo che non è in grado di usare i propri poteri fin quando è oppressa dal fratello e dal padre. Avendo io indicato la morte di Asterope prima che la ragazza raggiungesse l’età necessaria per andare a Hogwarts e quindi possedere una bacchetta propria, ho deciso di attribuirle la bacchetta della madre. Questo può essere un ulteriore motivo per cui alcuni incantesimi che pronuncia non hanno effetto.

·         Asterope è un’altra stella della costellazione delle Pleiadi. Non negherò che l’idea per il nome mi sia venuta da Gabriele d’Annunzio e dai titoli delle sue Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi.

·         L’ultima parte può apparire nonsense ma in realtà c’è un motivo preciso per cui l’ho inserita: solo in questo modo, secondo me, Voldemort è riuscito a coinvolgere definitivamente Piton, promettendogli Lily.



[1] Purtroppo questa bella metafora non è mia, bensì di Immanuel Kant, che definisce l’uomo un “legno storto”, ossia una miscela di bene e di male da cui non è dato pronosticare un esito della storia o totalmente positivo o totalmente negativo.

[2] Frase tratta da “Harry Potter ed il Principe Mezzosangue”, con leggerissime modifiche per adattarla al contesto.

[3] Citazione da “White Oleander”

Questa storia partecipa alla "100 prompts challenge" con il prompt 10. Opposti

The One Hundred Prompt Project

Ecco i giudizi:

Andromeda Black - Unusual Characters Contest

Grammatica: 9.5 punti
La tua grammatica è perfetta, non ho trovato forme verbali errate e nemmeno errori di battitura. Ti ho tolto mezzo punto, però, per un unico errore: nel quarto capoverso della prima parte hai inserito una virgola tra il soggetto e il verbo.

Forma e stile: 10 punti
Hai uno stile meraviglioso! Elaborato ma di facile comprensione, con qualche parola più ricercata qua e là che danno il giusto tono alla storia.

Caratterizzazione del personaggio: 10 punti
Merope è molto ben descritta, l’hai fortemente caratterizzata dandole un buono spessore.
La vita di Merope, la sue paure, sembrano reali, così come il suo desiderio nei confronti di Tom. Nonostante la Rowling ci dica poco di questo personaggio, mi è davvero piaciuto come l’hai resa! Brava!

Originalità: 10 punti
Storia davvero molto originale. Quando si pensa a Merope in genere è solo per via della sua relazione con Tom. Qui, invece, è molto forte il suo legame familiare, con la madre ma anche con il padre. Nonostante non sia un buon rapporto alla fine anche Orvoloson riesce ad aiutare Merope, anche se un po’ a modo suo, rivelando in fondo un po’ di umanità.

Cambio personaggio: 1 punto

Gradimento personale: 4.5 punti
Hai scritto davvero una bella storia. Ho apprezzato in particolare il rapporto Merope-Asterope, rapporto che dona dolcezza alla storia.
Non ho trovato molto inserita, invece, l’ultima parte. Più che altro non trovo il collegamento Merope-Lily. Sicuramente Voldemort ha convinto Piton grazie a lei, ma non mi convince con questa storia. Per tutto il resto, l’ho adorata!

Per un totale di 45 punti.

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Giudizio di Mizar19
- Grammatica, lessico e sintassi: 9.5/10
- Stile: 9.5/10
- Caratterizzazione dei personaggi: 10/10
- Originalità: 14/15
- Punti bonus: 5/5
- Giudizio personale: 5/5

Totale: 52

Mi pare piuttosto ovvio che ora tu possa placare la tua ansia da risultati. Dunque, mi lancio subito nelle cose che non mi sono piaciute molto o che comunque non mi hanno convinta (per la serie, togliamoci il dente: mi ha lasciata decisamente perplessa la questione della "nemica" perché questa donna, per quanto il sentimento di Merope sia reale e forte, pare un po', come dire, "piovuta dal cielo"; capisco che sia un ostacolo piuttosto solido al coronamento del loro sogno d'amore, ma viene liquidata troppo rapidamente, è come un battito di ciglia nella vita sfortunata di Merope. Ed eccoci alla seconda mia perplessità: a questo punto, è il padre il miglior nemico di Merope? Pare di sì perché è grazie alle sue violenze che lei trova la forza di riprendere in mano la bacchetta e scagliare incantesimi. Chiarisci solamente questo punto, perché per il resto non ho nulla da obiettare: la grammatica è corretta, solo in due punti avrei disposto la punteggiatura diversamente (se vuoi delucidazioni, fammi sapere). Un’ultima nota sul finale: anche Piton ha un “miglior nemico”, a quanto pare, e questo crea un po’ di confusione puramente a livello di rispetto del bando (a mio parere), ma non ho tolto nulla al punteggio come puoi notare. Su quella cosa, l’esca usata dal Signore Oscuro per irretire Piton, sono abbastanza d’accordo con te.
Infine, ho apprezzato molto l’uso di quelle citazioni e la stessa impostazione della storia (che fa sempre la sua porca figura).


Giudizio di Maeve_
Grammatica, lessico e sintassi: 10/10
Stile: 9/10
Originalità: 14/15
Caratterizzazione: 9/10
Gradimento personale: 4/5
Punti bonus: 5
Totale: 51/55

Non ho davvero nulla da ridire su quanto concerne la voce ‘Grammatica, lessico e sintassi’. Chapeau! Lo stile è molto curato, elegante, raffinato: nulla è lasciato al caso, dalla più piccola citazione all’uso delle metafore e dei riferimenti letterari. Si può dire che è uno stile molto ricercato, che in alcuni punti sfiora la ridondanza: proprio per quest’ultimo motivo ti ho tolto un solo punto sotto questa voce. E’ una considerazione prettamente personale, che infatti influisce ben poco sul punteggio: in alcuni punti ho trovato i periodi un po’ troppo pesanti, pur essendo corretti dal punto di vista grammaticale. Diciamo che una lunga frase ricca di subordinate e pregna di concetti è bella da vedere ma pesante da leggere.
La trama è piuttosto originale, ricca di ottimi spunti per riflessioni individuali. Hai curato la storia in ogni suo più piccolo dettaglio, e questo ti va riconosciuto. Anche la caratterizzazione è molto buona, sebbene si possa considerare Merope un personaggio OC per le poche notizie che abbiamo sul suo conto. La psiche della protagonista è pienamente approfondita e il personaggio mi è sembrato piuttosto “coerente” con le scarse notizie che la Rowling ci ha dato. Anche Orvoloson e Orfin, sebbene quest’ultimo sia solamente citato, appaiono ben caratterizzati; l’unico appunto che mi sento di farti è che non mi ha convinto appieno l’amore infinito di Orvoloson verso Asterope, ma di nuovo siamo su un piano soggettivo. L’unica vera nota dolente per quel che mi riguarda è Piton: ho perfettamente compreso i motivi per cui hai inserito quel finale, ma non sei riuscita a convincermi appieno, per questo ti ho penalizzata lievemente. Spero si sia capito che la storia mi è piaciuta moltissimo – sarà perché adoro tutto ciò che è malinconico e introspettivo? – e che si vede che ci hai messo molto della tua passione nello scriverla. Non ti ho dato il punteggio pieno per il semplice motivo che non ho pienamente apprezzato le scene iniziali di violenza su Merope: ripeto che sei stata bravissima a rendere tutto questo terribilmente reale, ma forse proprio per questo motivo a pelle mi risulta difficile la lettura delle violenze perpetrate su Merope. Questo però è solo un parere, nel complesso sei stata bravissima!

Punteggio totale: 51.5/55

   
 
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