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Autore: OpunziaEspinosa    14/05/2011    22 recensioni
E se Isabella Swan fosse la ragazza più popolare della scuola? Se fosse Edward Cullen il ragazzo nuovo in città? Chi dice che non sia LEI a doversi prendere cura di LUI? Breve FF su una semplice storia d'amore.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Sono pessima, lo so.
Dovrei:
- scrivere l'extra di The Nicest Thing
- scrivere il capitolo conclusivo di Misunderstanding
- scrivere la bozza di Anime Perse
Ed invece pubblico il Primo Capitolo di una storiellina romantica, roba da carie ai denti. Ma era lì, nella mia testa... che fare? Non farla uscire?
Sarà breve e non so quando pubblicherò. Ma lo farò.
Besos,

Opunzia Espinosa




Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale. I personaggi sono proprietà di S.Meyer e non vengono utilizzati a scopi lucrativi. La riproduzione anche solo parziale di questa ff non è autorizzata.
 



Capitolo 1
 
“Non-non ce la faccio più… Non ce-non ce la faccio più… O-odio questo posto… Vo-Voglio tornare a casa… Vo-voglio tornare a Chicago…”
Non vorrei piangere, dico sul serio. Vorrei essere forte abbastanza da poter affrontare tutto questo schifo come un vero uomo, e senza inzuppare la camicia che indosso di lacrime. Ma non lo sono. James, Victoria e Laurent hanno ragione: sono solo una femminuccia, o una “checca”, come dicono loro.
In fin dei conti ho passato l’ultima mezz’ora rannicchiato dietro i cassoni della spazzatura che si trovano a ridosso dell’ingresso posteriore della mensa, a singhiozzare e a maledire il giorno in cui i miei genitori - due ricercatori botanici dell’Università di Chicago - hanno deciso di mettersi a capo di un nuovo progetto di studio e di trasferirsi nella minuscola quanto sperduta cittadina di Forks per condurre delle ricerche sui boschi centenari dello stato di Washington.
Chicago. Mi manca Chicago. Mi  manca soprattutto la mia vecchia scuola. Non sono mai stato popolare, ma almeno nel vecchio liceo avevo qualche amico e, in un modo o nell’altro, riuscivo a passare inosservato. Lì di strambi, sfigati, nerd e perdenti ce n’erano a secchiate, ed i bulli dell’istituto avevano solo l’imbarazzo della scelta. Io ero uno dei tanti - di certo non tra i peggiori -  quindi sono sempre riuscito a cavarmela senza grossi problemi.
Ma la scuola che frequento ora  è talmente piccola che  non farsi notare è stato impossibile. Così, da circa un mese, sono diventato il bersaglio preferito dei tre teppisti della zona: James, uno pseudo-metallaro fissato con Marylin Manson, Victoria, la sua ragazza tutta borchie, piercing e tatuaggi, e Laurent, l’amico scemo che li segue ovunque, scimmiottandoli in ogni cosa.
Tutti i giorni mi accolgono con qualche sberla, un paio di calci nel sedere, ed insulti talmente fantasiosi da far sbellicare dalle risate i casuali testimoni delle mie disgrazie. Mi rubano i soldi per il pranzo e mi costringono a fare i loro compiti a casa. E se per caso  mi faccio coraggio e mi azzardo a dire no – com’è successo oggi, ma solo perché ho un’importante relazione di biologia da presentare per lunedì prossimo, e non ho il tempo materiale per dedicarmi ad altro – mi  trascinano fin dietro la mensa e mi scaraventano tra i rifiuti. È la terza volta che capita. Le prime due me la sono cavata, visto che il cassonetto era quasi vuoto. Ma oggi no. Oggi era stracolmo di immondizia, lurida e puzzolente.
Così eccomi qui, rintanato sotto le finestre della mensa, a piangere il mio triste presente e ad aspettare che tutti gli altri studenti se ne vadano, perché non voglio che qualcuno mi veda così, con gli occhi gonfi, rossi e pieni di lacrime, ed i vestiti sporchi e maleodoranti. Diventerei lo zimbello di tutti, non solo dei miei aguzzini, ed il mio povero ego, già fortemente minato, non ne uscirebbe vivo.
Sto ancora piangendo, quando sento una voce provenire da dietro il cassonetto. Una voce che conosco bene. È la voce della ragazza di cui sono segretamente innamorato da settimane.  È la voce di Isabella Swan.
“C’è… c’è qualcuno?”
All’istante smetto di singhiozzare e mi rannicchio contro il muro, pregando che lei non decida di venire a curiosare. L’idea che qualcuno mi possa vedere in questo stato è terrificante. L’idea che sia proprio lei a farlo  mi paralizza.
“C’è qualcuno lì dietro?” chiede di nuovo, sempre più vicina.
Ti prego, Isabella, vattene. Ti prego, non venire qui.
Chiudo gli occhi e smetto anche di respirare, nella speranza di scomparire, magari sprofondare nel terreno. Purtroppo nessuna voragine si spalanca sotto i miei piedi, ed io resto lì, ad attendere l’inevitabile.
“Stai… stai bene?”
Mi volto lentamente, e lei è lì, di fronte a me. Bellissima, nella sua divisa gialla e blu di cheerleader; stretta in un grosso golf di morbida lana grigia perché siamo solo a marzo e le giornate sono ancora piuttosto fredde.
“Edward!” esclama stupita dopo avermi messo a fuoco. “Edward, che ci fai lì? Che ti è successo?”
Lei conosce il mio nome? Isabella Swan, la ragazza più bella e popolare della scuola, sa come mi chiamo? Non è possibile, non ci credo.
La prima volta che ho visto Isabella è stato un mese e mezzo fa. Eravamo in città da poche ore, ed io mi trovavo in segreteria con i miei genitori per completare le pratiche di iscrizione al nuovo liceo. Lei è entrata, ha consegnato dei documenti ad una delle due impiegate, ha commentato la necessità impellente di acquistare alcuni nuovi volumi di letteratura contemporanea per la biblioteca, e poi se n’è andata, lasciandomi con la consapevolezza che la mia vita non sarebbe stata più la stessa, che ero irrimediabilmente innamorato e che avrei sofferto come un cane per questo.
“Edward, stai bene?”
E siccome non rispondo – pur continuando a fissarla inebetito da dietro gli occhiali appannati a causa del pianto – si avvicina e si inginocchia di fianco a me.
“Edward, cosa ti è successo? Perché piangi?”
Che vergogna, se n’è accorta. Penserà che sono patetico, un perdente di prima categoria.
“Ma tu sei… sei… Che ti è successo, Edward? Perché sei ricoperto di immondizia?” chiede allarmata togliendomi delle foglie di insalata marcita  dalla giacca.
Mi do una rapida occhiata e mi rendo conto di essere rivestito da capo a piedi di resti di cibo andato a male e dio solo sa cos’altro. E che, probabilmente, sto anche emanando una puzza terribile.
“Scu-scusa…” riesco infine a singhiozzare, perché non mi sono ancora calmato del tutto.
“Santo cielo, guardati… Me lo dici che ti è successo?” insiste senza smettere di ripulirmi.
“Mi hanno… mi hanno…”
Cerco di spiegarle il motivo per cui sono qui e mi trovo in questo stato pietoso, ma cosa dovrei dire? Che sono sfigato al punto tale che se rifiuto di fare ciò che mi viene ordinato, James, Victoria e Laurent non ci pensano due volte a sollevarmi di peso e a buttarmi nel cassonetto dell’immondizia? Che sono così codardo da non sapermi né ribellare né difendere? Che sono talmente stanco, triste e disperato da non riuscire più a trattenere le lacrime?
“Edward, sei ferito. Sanguini.”
“Cosa?”
“Ti sei tagliato,” continua preoccupata infilando una mano in tasca ed estraendo un fazzoletto di cotone. “Hai un graffio sullo zigomo.”
E poi, sollevandomi leggermente gli occhiali con un dito, comincia a tamponarmi la ferita con attenzione e delicatezza, concentrando il suo sguardo su quell’unica porzione sanguinante del mio volto.
Io sono paralizzato. Letteralmente. Non riesco a muovere un muscolo. L’unica cosa che riesco a fare è osservarla incantato e pensare che lei è bellissima e che sa di prati verdi e fioriti.
“Vieni.” Senza alcun preavviso Isabella mi prende per una mano e mi costringe a rialzarmi. “Dobbiamo disinfettare quel taglio.”
Cerca di portarmi via, ed io vorrei continuare a stringere quella mano morbida e calda. Io vorrei tanto. È una cosa che ho desiderato e sognato quasi ogni notte, da quando l’ho incontrata. Ma ho ancora paura che qualcuno mi possa vedere.
“No!” esclamo terrorizzato, divincolandomi e trovando rifugio contro il muro.
Lei mi guarda senza capire. “Che significa no? Edward devi..”
“Non voglio che mi vedano… per favore… non voglio…” balbetto in preda al panico.
Isabella appare sinceramente stupita ed inizia a scrutarmi pensierosa. Probabilmente sta pensando che sono un povero idiota, una specie di ritardato. Ma come darle torto? Mi ha sorpreso  a piangere come una femminuccia, rintanato dietro un cassonetto, cosparso di lurida sporcizia!
“Ok, aspettami qui,” mi ordina. E poi si volta e comincia a correre in direzione dell’ingresso principale.
Torna dopo cinque minuti, armata di cotone, disinfettante e cerotti.
“Che corsa!” esclama sorridendo, il fiato corto per lo sforzo. “Non c’era più nessuno in infermeria, così ho scassinato l’armadietto dei medicinali!” continua appoggiando tutto sul davanzale della finestra della mensa. “Speriamo non se ne accorga nessuno! Non voglio che la gente sappia che so aprire un lucchetto con una forcina per capelli!”
Poi, con estrema gentilezza, mi toglie gli occhiali e  se li infila in tasca. Prende un po’ di cotone, lo bagna con il disinfettante,  e comincia a tamponarmi la ferita.
Oddio… ma che sta succedendo? Io non capisco... semplicemente non capisco. Fino a qualche minuto fa credevo che Isabella Swan non sapesse neppure come mi chiamo. Invece non solo conosce il mio nome, è venuta in mio soccorso. Mi ha preso per mano, mi ha tirato fuori dall’angolo buio e sporco in cui mi ero rifugiato, ed ora si sta occupando di me, sta disinfettando il taglio che mi sono procurato cadendo nel cassonetto.
“Ti fa male?” mi chiede premurosa, continuando a tamponare la porzione di zigomo tutt’intorno alla ferita.
“No.”
“Sicuro?”
Non dico nulla e faccio sì con la testa.
“Certo che sei un gran chiacchierone!” esclama divertita di fronte al mio impacciato mutismo.
“Scu-scusa…” balbetto, rendendomi conto di quanto debba sembrare noioso, oltre che stupido.
“Scusa?! E di cosa?” osserva scartando un cerotto ed appiccicandomelo sulla guancia. “Fatto. Come nuovo.”
Mi sorride, ed io penso che il suo sorriso è la cosa più bella che io abbia mai visto. A parte i suoi meravigliosi occhi color cioccolato, ovvio.
“Allora, me lo vuoi dire cos’è successo?” domanda mentre recupera i miei occhiali dalla tasca del suo maglione e me li rinfila sul naso.
Mi stringo nelle spalle ed abbasso lo sguardo. Vorrei dirglielo. Vorrei tanto. Ma mi vergogno come un ladro.
“Non vuoi farlo?”
“No!” mi affretto a dire. “Il fatto è che…” Ma di nuovo mi mancano le parole.
“Tranquillo. Non mi devi nessuna spiegazione.” E poi, cambiando discorso, probabilmente per togliermi dall’impaccio, mi chiede: “Edward, di solito torni con l’autobus, vero?”
“Sì…” annuisco, sorpreso che lei sappia persino con quale mezzo di trasporto vengo ogni giorno a scuola. Non ci siamo mai parlati, prima d’ora. Mai. Se escludiamo il “grazie” che mi ha rivolto due settimane fa, quando le ho passato la pila di test che il professor Cooper ci aveva chiesto di far circolare di banco in banco prima di iniziare il compito in classe. In quell’occasione sono riuscito anche a sfiorarle un dito per una frazione di secondo. L’indice della mano destra. Il momento più eccitante della mia intera misera esistenza.
“Sono le cinque, il tuo autobus è partito da un pezzo,” commenta guardando l’orologio. “Se vuoi, ti do io un passaggio.”
“Cosa?”
“Ti porto a casa, se non sai come tornarci.”
Isabella Swan si è spontaneamente offerta di darmi un passaggio fino a casa? Questo è un sogno. Oppure uno scherzo. Probabilmente, anzi, sicuramente è uno scherzo. Non c’è altra spiegazione logica.
“Dove abiti?”
“Sulla collina, vicino al bosco. L’ultima casa del sentiero,” mormoro con un filo di voce.
“Non è lontano da dove abito io, allora. Due o tre miglia. Non di più.”
Lo so, Isabella. So dove abiti. So tantissime cose su di te. E non immagini quante altre cose vorrei sapere. Ma sono troppo imbranato per avvicinarmi, rivolgerti la parola, o anche solo chiedere in giro. E poi, con chi dovrei parlare? Non ho amici in questa scuola.
“Ti sporcherò i sedili…” mormoro imbarazzato dando un’occhiata ai i miei abiti ormai lerci. “E puzzo…”
Isabella guida una Volvo meravigliosa. I miei genitori non potrebbero permettersi di regalarmi un’auto simile neppure con i risparmi di cento anni di duro e sudato lavoro. A dire il vero i miei genitori non possono permettersi di regalarmi neppure un catorcio di terza mano. E neppure io posso farlo. Ecco perché prendo l’autobus ogni giorno.
“Non c’è problema, ho una vecchia coperta nel bagagliaio. E poi possiamo tenere i finestrini abbassati. Forza, andiamo.”
Isabella fa qualche passo in direzione del parcheggio, poi si volta, visto che io non mi sono mosso di un millimetro.
“Tranquillo, ormai non c’è più nessuno a quest’ora,” cerca di rassicurarmi. “Non ti vedrà nessuno, Edward. Promesso.”
Mi sorride. Di nuovo. Ed io so di potermi fidare. Non è un sogno, e neppure uno scherzo. Isabella Swan mi riporterà a casa.
Raccolgo da terra il mio zaino e la seguo in silenzio nel parcheggio della scuola, fino alla Volvo.
Aveva ragione: non c’è più nessuno a quest’ora.
Isabella recupera la vecchia coperta dal bagagliaio. Poi, dopo aver aperto la portiera del passeggero, la sistema con cura sul sedile. Infine, con un ampio gesto della mano, mi invita a salire. “Prego.”
Che strano… dovrei essere io, l’uomo, ad aprirle la portiera, farla accomodare e riaccompagnarla a casa. Invece no, è lei a farlo.
“Non ti spaventare, ma dicono che la mia guida sia un po’ spericolata!” confessa scoppiando  a ridere proprio mentre mette in moto.
“Ti piace la musica? Vuoi che accenda la radio? O preferisci un CD? Guarda pure nel cassetto del cruscotto… scegli quello che ti pare.”
Esito per un attimo, incerto sul da farsi. Mi piace la musica e la sola idea di curiosare tra le sue cose mi intriga da morire, ma non voglio passare per un ficcanaso.
“Po-posso? Davvero?” balbetto, la mano a metà strada, in direzione dello sportellino.
“Te l’ho detto: scegli quello che ti pare. C’è un po’ di tutto.”
Finalmente mi decido ed apro il cassetto. È vero: c’è un po’ di tutto.
“Britney Spears?” le chiedo timido, mostrandole uno dei CD.
“O Santo Cielo! Che vergogna!” esclama arrossendo. “Non ricordavo neppure di averlo! Magari quello lo ascoltiamo un’altra volta…” aggiunge facendo una smorfia.
Come? Un’altra volta? Ci sarà un’altra volta?
“Prendi quello!” suggerisce con entusiasmo puntando con il dito una copertina azzurra. “I Pearl Jam! Ti va? Ti piacciono?”
“Sì… sì, mi piacciono molto,” le confesso sorridendo ed aprendo la custodia del disco.
“Io li adoro! Sono di Seattle, sai? Praticamente vicini di casa!”
“Li hai mai… Sei mai stata… Hai mai visto un loro concerto?” chiedo inserendo il CD nel lettore e premendo il tasto play.
“Certo!” E così Isabella inizia a raccontarmi di quando, lo scorso anno, lei e la sua amica Alice sono scappate di casa per andare a Seattle ad assistere ad un loro live.
Isabella non è solo bellissima, è una vera e propria forza della natura, oltre che una gran chiacchierona! Continua a parlare, lungo tutto il tragitto. Dei suoi gruppi preferiti, della scuola, di Forks, dei professori, dei nostri compagni di classe, della squadra di basket… Passa da un argomento all’altro, senza mai concluderne uno, come se volesse spiegarmi in pochi minuti tutto il mondo che conosce, il mondo in cui vive da sempre.
Io l’ascolto in silenzio, rapito, cullato dal suono della sua bellissima voce, dolce e calda, ed ancor prima che me ne renda conto, Isabella sta parcheggiando di fronte al vialetto che conduce a casa mia.
“Siamo arrivati. È qui che abiti, giusto?”
“Sì… sì… abbiamo… abbiamo fatto presto,” commento deluso. Avrei voluto passare più tempo con lei. Molto più tempo. Ma so di essere stato fortunato, oggi,  e che, al momento, non posso osare chiedere di più.
“Te l’avevo detto che la mia guida è un po’ spericolata! Ci vediamo domani, allora?”
“Ok… va… va bene.” Però non mi muovo. Gli occhi bassi, fisso il tappetino che si trova sotto i miei piedi.
“Edward?”
Nulla. Continuo a fissare il tappetino. E a pensare che lei deve sapere. Per qualche motivo che ancora non conosco – e che di sicuro non capirei - Isabella sembra provare una certa simpatia per me. Ma deve rendersi conto che si sta sbagliando, che ha a che fare con un perdente, un inetto incapace di difendersi. Deve sapere che io e lei apparteniamo a mondi lontani e che non abbiamo assolutamente nulla in comune.
“È stato James. Lui, Victoria e Laurent,” le confesso con un filo di voce.
“Scusa?”
“A buttarmi… a buttarmi nel cassonetto,” le spiego sbirciando la sua reazione da dietro i capelli un po’ troppo lunghi e che tengo calati sulla fronte.
Lei sgrana gli occhi, sinceramente stupita. “Stai scherzando?”
“No.” Scuoto la testa arrossendo visibilmente.
“E perché?”
“Mi sono rifiutato di fare i loro compiti…” ammetto distogliendo lo sguardo ed iniziando a grattarmi la nuca. È una cosa che faccio sempre quando sono nervoso.
“Edward,” mi chiede cauta. “Ti succede spesso?”
“Cosa? Che mi buttino nel cassonetto, o che mi insultino, o mi picchino, o mi rubino i soldi? Nel cassonetto ci sono finito solo tre volte, ma salto il pranzo quasi ogni giorno…” Credo che questa sia la frase più lunga che ho pronunciato in presenza di Isabella. Probabilmente in presenza di chiunque, qui a Forks.
“Edward, devi dirlo a qualcuno! Devi parlare con il  Preside Grant! Devi…”
“No! Per favore! Non…” Se lo dico a qualcuno sarà ancora peggio. Lo so. Me lo ha detto James. Mi ha promesso che me la farà pagare cara. Ed io gli credo. Quello è un pazzo, sarebbe capace di tutto, anche di uccidermi.
“Edward, non puoi andare avanti così! Non puoi farti buttare nei cassonetti! Guardati!”
“Lo so, cosa credi? Che mi diverta? Però io…  io…” Ecco. Mi viene da piangere. Di nuovo. Che schifo. Mi faccio schifo.
“Edward…” Isabella tende una mano verso di me, come se mi volesse accarezzare. Ma io mi ritraggo e trovo rifugio contro il finestrino. Non voglio la sua pietà. Non la voglio.
“Dio, che rabbia!” sbotta all’improvviso dando un pugno al cruscotto. “Li odio quei tre! Sono tre coglioni! Tre teste di cazzo!”
Sono sconcertato. L’angelica ed eterea Isabella Swan che si mette ad imprecare e a tirare pugni? Mi piace. Mi piace da morire. La trovo terribilmente… sexy?
“Ascoltami bene Edward, tu da domani mi devi stare incollato.”
“Cosa?!”
“Quelli hanno paura di me. O comunque ce l’hanno dei miei amici.  Se stai con me sei salvo.”
“Isabella… non devi… non voglio… non sei obbligata…”
“Bella. Chiamami Bella.”
“Bella, non ti devi preoccupare. Posso cavarmela…”
“Edward, senza offesa, da solo non ce la farai mai ad arrivare vivo a fine anno! Non vuoi chiedere aiuto al preside? Perfetto, lo rispetto ed in parte lo capisco. Non vuoi passare per un codardo. Ma almeno lascia che sia io ad aiutarti!”
Non so cosa fare. L’idea di passare tutti i miei giorni “incollato” a lei è un sogno che diventa realtà, ma il timore  che Isabella, anzi no, Bella, lo faccia per mera compassione  mi devasta.
“Cos’è? Non ti sto simpatica? Per questo non vuoi che ti aiuti?” chiede scettica.
Io l’osservo confuso, senza afferrare del tutto il senso delle sue parole. Credo stia facendo dell’umorismo, ma non ne sono sicuro.
“Se preferisci li faccio picchiare…”
“No!” esclamo allarmato. Non sono un violento. Non lo sono mai stato.
“Edward, scherzavo…” sbuffa alzando gli occhi al cielo.
“Ah…”
“Anche se non mi dispiacerebbe sferrargli un pugno o due…” Bella mi sorride e mi strizza l’occhio. “Allora, ci vediamo domattina alle otto all’ingresso?”
“Ehm… sì… ok, va bene.”
Credo che ormai Bella abbia deciso. Per entrambi.
“Scusa se non ti passo a prendere, ma la mattina ho sempre i secondi contati e venire fino a qui significherebbe partire da casa dieci minuti prima e proprio non ce la faccio. Ma il pomeriggio ti posso riaccompagnare.”
“Bella, non è necessario…”
“Invece sì, l’autobus ci impiega il doppio del tempo, con tutte le fermate. Se ti accompagno io risparmi più di mezz’ora.”
“Ok… ehm… allora… allora ci vediamo domani.”
“A domani.”
“Vuoi… vuoi che ti lavi la coperta?” le chiedo prima di scendere.
Bella scuote la testa, sconsolata. “No, Edward. Non ce n’è bisogno.”
“Bella?”
“Sì?”
“Grazie.”
Bella mi sorride. E le sorrido anch’io. Poi scendo dalla macchina e mi incammino verso casa. Pensando che sono felice, perché finalmente ho un’amica.

 

   
 
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