Commento dell’Autrice:
Vi chiederete per quale astrusa ragione metto il commento
ancora prima del
titolo della one…la ragione è che mi è
sembrato più funzionale alle mie
necessità, anche se, forse, è un po’
antiestetico xD
Portate pasiensa u.u
La prima cosa che voglio dire è che – come, forse,
avrete già notato – questa one-shot
è lunga.
Ma tanto, eh.
Non vi dico quante pagine di word perché sennò vi
spaventate e mi spavento pure
io, a ripensarci.
Molte volta mi è stato proposto dalla regia – e a
ragione – di spezzare in due
capitoli la storia…ma non ho potuto farlo per esigenze
narrative. Avrei
spezzato il ritmo e rischiavo di far perdere il filo dei pensieri.
Mi rendo conto, lo assicuro, di
quanto sia estenuante leggere un papiro simile, ma ho voluto comunque
pubblicarla così e sono contenta per il solo fatto di essere
riuscita a
scriverla.
Ho ripreso i personaggi di Spencer Reid e Derek Morgan e ho pensato a
come
metterli insieme…il risultato è quello che vedete
xD
Ho giocato molto sui vari legami che ci sono tra tutti i personaggi e,
per
questo motivo, penso che questa
one
potrebbe essere di difficile comprensione per chi non conosce questi
rapporti.
Ho reso uno Spencer Reid un
po’…sfuggente,
ecco. Vittima dei suoi stessi ricordi e della paura
dell’abbandono che gli
impedisce di vivere la sua vita e influisce pesantemente sulle sue
scelte.
Anche il fatto di vedere i colleghi di ufficio come una famiglia
vera e propria risulta essere una trappola. Spero di
averlo reso adeguatamente, pur essendo uno dei personaggi
più difficili che ho
dovuto sperimentare.
Derek Morgan, invece, ho cercato di
renderlo più simile possibile al maschio alfa che si ritrova
ad affrontare di
petto una situazione che, fondamentalmente, non è in grado
di affrontare.
Impulsivo e rabbioso, ma dal cuore d’oro.
La domanda che continuavo a pormi, mentre scrivevo la one era: ma Derek
Morgan
e Spencer Reid – che sono su due piani differenti –
possono davvero arrivare a
capirsi?
Poisoned Tears
Plick
Plick
Plick
La
pioggia continuava a
picchiettare con insistenza sul vetro scuro della Centrale di Quantico,
rigando
il vetro di lacrime trasparenti ed incorporee.
Il cielo - decisamente plumbeo - non sembrava avere alcuna intenzione
di
lasciare spazio agli ultimi raggi del sole morente.
Per chi, poi?
Nell’ufficio non c’era anima viva, a
parte una sola persona.
Un ragazzo che, a dirla tutta, sembrava non trovare fastidiosa la
mancanza di
luce naturale, perché l’aveva sostituita con
quella artificiale.
La scrivania alla quale stava seduto era ingombra di roba ma, a
dispetto di una
prima impressione, non era disordinata. Le cose avevano un loro posto
ben
preciso: le penne dentro al contenitore, oppure pinzate in qualche
libro - in
modo da tenere il segno -, il telefono perfettamente a posto,
nell’esatto punto
in cui l’aveva trovato il primo giorno (lo usava poco,
d’altronde)
e…beh…l’unica cosa che poteva
effettivamente sembrare un po’ fuori posto, era
la targhetta nera, con stampato sopra, a chiare lettere “SPENCER
REID”.
Era leggermente discosta dal bordo della scrivania. Più
rientrante, come se
provasse vergogna per la sua sola esistenza e cercasse di nascondersi
dietro
alle foglioline sporgenti di una piantina posta accanto al monitor del
computer.
C’erano anche delle cartelle giallognole, impilate una
sull’altra, al centro
del tavolo.
Lateralmente, invece, una pila di tre o quattro volumi
–alcuni più piccoli,
altri decisamente più grandi- sicuramente non riguardanti il
lavoro. La
lampada, piazzata di fianco al telefono, era reclinata verso un
libriccino
aperto proprio sopra i fascicoli chiari, facendone risaltare - grazie
alla luce
- il colore piuttosto scialbo.
Il ragazzo dall’aria giovane (ventisei-ventisette anni) stava
seduto proprio
dietro la scrivania con la testa reclinata in avanti, il volto
fanciullesco
contratto in un’espressione vagamente corrucciata, quasi
meditabonda. Le ciocche
castane, di media lunghezza, scivolavano ai lati delle guance scarne,
gettando
ombre sulla pelle altrimenti chiara.
Il Dottor Spencer Reid era una genio.
Era un genio con un QI di centottantasette,
una memoria eidetica e con la
capacità di leggere ventimila
parole
al minuto.
Ma, alla luce della lampada, immerso nel silenzio
dell’ufficio vuoto, gli occhi
verde scuro continuavano ad andare avanti e indietro, incessantemente,
leggendo
e rileggendo un’infinità di volte quelle poche
righe scritte di fretta, in una
grafia vagamente disordinata ma netta, che gli suggeriva una
personalità forte
e determinata.
Le labbra esangui si increspavano ad intervalli più o meno
regolari, facendo
assumere al viso delicato un’espressione di disappunto che
non gli era propria.
Era davvero raro che Spencer Reid non
capisse.
Le dita lunghe e affusolate rigiravano quel bigliettino, i polpastrelli
saggiavano la carta come se volessero scoprirne i segreti
più reconditi.
Si trattava di una carta delicata, di un
materiale non comune – non di quello che trovi in ufficio-.
Una carta da
lettere bianca. Poco significativo, ma efficace.
Questo fatto gli suggeriva che l’autore del
biglietto voleva dare
importanza a quello che aveva scritto. Non era una scelta casuale.
Poi?
Assenza di margini.
Questo poteva suggerirgli “spontaneità”.
Un’ipotesi confermata dal fatto che lo scritto non occupava
tutto il foglio e
non lo rendeva “antiestetico”.
La scrittura slanciata in avanti, che sembrava fluire sul foglio, era
indice di
una persona che corre verso la meta che si è prefissata
-badando più al fine
che ai mezzi- senza farsi distogliere da ciò che
può trovare sul suo cammino.
Modo di pensare?
Si trattava, indubbiamente, di un individuo dalle discrete
capacità
logiche: la scrittura fluida e le lettere poco distaccate
sottolineavano, senza
margine di errore, questo aspetto. La logica, infatti, prevedeva, per
definizione, una certa continuità e ogni stacco veniva
vissuto come un intoppo,
un rallentamento da evitare.
Ovviamente, senza eccedere nell’opposto: parole troppo attaccate tra di loro facevano
intuire un modo di ragionare
caotico, tipico di qualcuno che non era in grado di sintetizzare le
informazioni acquisite in maniera coerente.
Cos’altro puoi capire?
Sicuramente si trattava di una scrittura maschile. Sembra
ombra di dubbio.
Lo sguardo di Spencer si offuscò per un momento, mentre
raddrizzava la schiena e
avvicinava il biglietto alla luce.
Ma tu sai di chi è questa scrittura, vero?
<<
… >>
Spencer…lo sai…vero?
<< Sì… >>
Incalzato dalla sua stessa mente, si limitò a
sussurrare quella semplice
risposta.
Sì, sapeva di chi era quella scrittura. Aveva avuto poche
occasioni di vederla,
ma l’aveva memorizzata con
facilità.
Lasciò andare il biglietto e appoggiò la schiena
alla poltrona, inspirando a
fondo. Intrecciò le mani sul ventre e si guardò
attorno, pensieroso.
Perché lui avrebbe dovuto scrivergli una cosa del genere?
Come avrebbe dovuto interpretarlo?
Come, l’altro, si aspettava che lo interpretasse?
Gli uffici vuoti erano inquietanti.
Cercò, istintivamente, di non concentrarsi sugli angoli bui
in modo da impedire
alla fobia di manifestarsi, tenendo, intanto, razionalmente conto di
essere
compreso in un cono di luce e, come tale, fuori da qualsiasi pericolo
immaginario.
Si sorprese, tuttavia, nel non percepire alcun tipo di ansia. Nemmeno
il
battito accelerato del cuore.
Era insolitamente tranquillo. Su ogni fronte.
Quello che aveva appena letto avrebbe
dovuto sconvolgerlo, no?
Se così era, allora perché non sentiva
nulla?
“Spencer…non
sapere cosa si prova è diverso dal non sentire
nulla…”
Le labbra
esangui del giovane si piegarono in un sorriso quieto, quasi cauto,
mentre una
traccia di amarezza si adagiò sul suo viso scarno, come un
velo invisibile,
creato dalla stessa consistenza della malinconia e dagli strascichi di
un
dolore portato da troppo, troppo
tempo, per poter essere considerato ancora agonia,
e da troppo poco, per pretendere di poterlo rinchiudere in un cassetto
in
attesa che la polvere di giorni, mesi, anni
lo sbiadisca lentamente.
E poi…non era neanche sicuro di poter effettivamente
dimenticare qualcosa.
Certo, aveva un grande controllo della sua mente…e
l’unica cosa che aveva
dimenticato del suo passato, era stato…beh…era
suo padre.
Ma, forse, quello non poteva rientrare tra le cose dimenticate,
perché “dimenticate” non era nemmeno il termine esatto.
Le aveva rimosse.
La “rimozione” non è sinonimo di
“dimenticanza”. La rimozione è sinonimo
di “occultamento
nell’inconscio”.
Gli eventi che riguardavano suo padre erano, ormai, appartenenti al
passato.
Negli anni successivi, fino a quel giorno, Spencer Reid avrebbe voluto rimuovere tantissime altre cose. Ma non
c’era mai riuscito. Ormai, la sua psiche, sembrava incapace
di farlo.
Per quel motivo, probabilmente, si ricordava con tale chiarezza le
parole di
Jason Gideon.
La sua mente le aveva richiamate improvvisamente, rievocando un ricordo
che
aveva cercato di evitare da quando era stato abbandonato.
La sua voce profonda, calma…così rassicurante,
era tanto chiara, tanto concreta,
da dargli l’illusione che il
suo mentore fosse seduto proprio accanto a lui in
quell’esatto momento.
“Come
stai?”
“…Avevi ragione. Non serve un’arma, per
uccidere.”
Chiuse
gli occhi, inspirando silenziosamente l’aria
dell’ufficio.
Se si concentrava poteva percepire così chiaramente
l’odore di Gideon e…
…poteva distintamente sentire le
deboli vibrazioni del jet che li stava
riportando a casa.
Le luci fuori dal piccolo finestrino erano così lontane da
sembrare lumini di
un camposanto.
Il dolore che avrebbe dovuto provare al
viso per i colpi ricevuti, era ben lontano dall’essere
significativo. Si era
abituato molto in fretta al dolore fisico.
Non che lo sopportasse particolarmente bene, ma sapeva come non
peggiorarlo.
La voce di Gideon risuonò di nuovo, davanti a lui.
“Un giorno
capirai che cosa ti ha lasciato dentro. E quando
succederà…sono tre le cose che
devi sapere:hai fatto quello che dovevi…”
Ruotò lentamente la testa verso la
fonte di quella voce avvolgente. I suoi occhi incontrarono quelli del
mentore.
Seduto davanti a lui.
Proteso verso di lui, in una posizione che manifestava
l’attenzione più
completa. Indugiò sui tratti di quel viso, segnato da rughe
d’espressione che
si raccoglievano attorno alla bocca e vicino agli occhi, ogni qualvolta
corrucciava la sguardo.
Spencer era più che certo che ogni singola ruga, ogni
singolo segno del tempo,
avesse una storia da raccontare.
Bella o brutta.
Una storia…che valeva la pena di ascoltare ogni volta.
Osservò le occhiaie provocate da una stanchezza fisica
– non mentale – e risalì
di qualche centimetro, fino agli occhi, vispi, attenti. Occhi in grado
di
sondare l’animo umano con la stessa facilità e lo
stesso fastidio con cui un
ago penetra sottopelle con lenta fermezza.
Spencer aprì
gli occhi di colpo, distruggendo quel ricordo così doloroso
con la stessa
facilità con la quale si spacca un vetro con un sasso.
Aveva il respiro affannoso e solo in quel momento si accorse che aveva
piantato
le unghie nei braccioli della poltrona. La schiena gli faceva male per
via
della tensione muscolare che quel ricordo gli aveva provocato.
Rilassò le dita e le spalle, gradualmente, tirando indietro
la testa,
accasciandosi letteralmente contro lo schienale.
Inspirò a fondo ed espirò.
Una. Due. Tre volte.
Fino a quando non percepì di aver ristabilito completamente
il contatto con la
realtà.
Respira ancora, piano…
Si guardò attorno nell’ufficio vuoto e
sospirò di sollievo non appena si rese
conto che il ricordo di Jason Gideon era divenuto nuovamente una
realtà
inesistente, lontana, terribilmente distante.
Come tale, non poteva e non doveva fargli del male.
Continua a ripetertelo, Spencer…
Ignorando la parte più emotiva della sua mente, si
raddrizzò sulla poltrona e
abbassò lo sguardo sul biglietto che aveva lasciato sul
libro.
Comunque, adesso, hai altro di cui occuparti.
Sì…aveva altro di cui occuparsi. Anzi, la
questione si sarebbe risolta di lì a
poco, ne era certo.
Con un profondo sospiro, spinse indietro la poltrona e si
alzò in piedi,
poggiando le punta delle dita sul tavolo, più per riflesso
che per reale
necessità di equilibrio.
Dopo essersi tirato una ciocca di capelli dietro l’orecchio,
cominciò a
muoversi fluidamente tra le varie scrivanie, diretto verso quella che
veniva
chiamata la “zona bar” dell’open space.
La cosa strana?
Man mano che sfilava accanto alle scrivanie vuote dei colleghi, si
soffermava
un istante e si allungava ad accendere le lampade da tavolo,
illuminando, così,
il proprio cammino a spezzoni.
Disturbo dell’ansia legato al buio…un
po’ infantile, no?
Analizzò il piano bar e si accorse che non era rimasto
caffè, ma solo del thè
freddo.
Poco male. La sua voglia di bere qualcosa era solo e unicamente legato
ad un istinto. La si poteva
tranquillamente
chiamare “fame nervosa”.
Non riuscì a comprendere la ragione di quel brivido lungo la
schiena…ma, mentre
si versava una tazza di quella brodaglia dal colore indefinito e
indefinibile,
si rese conto di due cose contemporaneamente.
Primo: aveva un mal di testa assolutamente fastidioso e non aveva con
sé le
gocce;
Secondo: non era solo, in quella stanza.
Derek Morgan stava osservando Spencer Reid, da lontano, già
da una sessantina
di secondi.
Era entrato nell’open space più silenziosamente
possibile e non aveva fatto
alcuna fatica ad individuare il collega.
Non si era nemmeno sentito sorpreso, quando aveva notato quella sorta
di
“galleria luminosa” che l’altro si era
creato per arrivare fino alla zona bar. Era
al corrente di quella paura che lo rendeva così dolcemente irrazionale e, al tempo
stesso, così…stranamente
umano.
Lo sguardo scuro del ragazzo di colore indugiò sulla schiena
esile dell’altro
che, girato verso il tavolo, non si era ancora accorto della sua
presenza.
O, almeno, così gli parve fino a quando non lo
sentì parlare.
<<
Sei qui… >>
La voce di Spencer
aleggiò nell’aria, sostenuta dal vuoto della
stanza, come un eco che indugia ed
esita, prima di dissolversi, cercando disperatamente qualcuno che possa
dare un
senso alla sua tanto deprimente, quanto instancabile routine.
Derek abbassò lo sguardo verso terra, poggiando con
apparente distrazione la
mano sulla scrivania vuota più vicina, sostenendosi e
negando a se stesso il
timore che provava.
Non si chiese come l’altro sapesse della sua presenza,
né come mai sembrasse
così calmo.
<<
…Sì. >>
Rispose semplicemente, con voce trattenuta, quasi a non voler svegliare
un
bimbo assopito.
O, forse, aveva semplicemente paura che una tonalità
più alta avrebbe portato
quel momento – posto in
equilibrio,
sopra una fune – a scegliere da che parte cadere.
E se fosse accaduto nessuno avrebbe potuto prevedere le conseguenze.
Tantomeno lui.
Con un sospiro, fece scivolare via la mano dalla scrivania e
avanzò di uno,
due, tre passi, con un’andatura che era l’apoteosi
dell’esitazione.
<<
Io…sapevo che saresti
venuto…sai? >> sussurrò
Spencer, sempre voltato di schiena, con un tono che sembrava voler dire
“Ti
stavo aspettando”.
<<
Chissà perché la cosa
non mi sorprende particolarmente… >> sorrise
Derek, sollevato dall’essere
riuscito a fare una piccola battuta. Non aveva perso quella
capacità, per lo meno.
Si fermò a due metri di distanza e fece scorrere lo sguardo
sull’altro,
rendendosi conto con irritante chiarezza che aveva solo
l’imbarazzo della
scelta, riguardo a dove posare gli occhi.
Sui capelli? Sulla nuca? Sulla schiena?
Oh, poteva anche andare più
giù, solo
che si sarebbe sentito un verme.
<<
Reid, che ne diresti di
girarti e parlare guardandomi in faccia? >> mormorò,
cercando di addolcire il
più possibile il tono, di modo che non sembrasse un ordine,
come spesso
sembrava essere ogni sua frase rivolta al più giovane.
Quasi non riuscì a finire di parlare, che Spencer
assecondò la sua richiesta –
forse prevedendola -, ruotando
lentamente su se stesso.
Era incredibile, quasi invidiabile,
la sua capacità di compiere i movimenti più
svariati occupando il minimo
spazio.
Non stava mai fermo, normalmente.
Se parlava, lo faceva gesticolando continuamente, quasi nel tentativo
di disegnare le sue stesse parole
per
renderle più chiare. Era un ragazzo profondamente insicuro
e, come tale, aveva
paura di non essere compreso, non solo psicologicamente, ma anche
verbalmente.
Come se avesse il terrore di cominciare a parlare, di punto in bianco,
una
lingua completamente diversa da quella corrente.
…Ma ogni volta che si muoveva, sia per gesticolare, che per
camminare, che per
scrivere, che per allungare un braccio, che per puntare
un’arma da fuoco, lo
faceva con la stessa cautela di chi deve rispettare uno preciso spazio
geometrico.
Il più giovane ricambiò il suo sguardo per un
istante, prima di abbassare gli
occhi – che a causa della poca luce sembravano proprio scuri
– sulla tazza che
stringeva tra le dita affusolate. Arricciò le labbra, come
faceva sempre quando
non sapeva cosa dire, come esprimersi o quando era irritato per
qualcosa. Era
un gesto assolutamente infantile e che, pertanto,
gli calzava a pennello.
<<
Ti… >>
cominciò, esitante. La
voce fragile si spezzò quasi subito, quasi gli mancasse il
coraggio necessario
a portare a termine quella frase.
Si schiarì la gola e Derek poté solo presumere
che, dentro al thè che stava
fissando con tanta insistenza, oltre ai rimasugli di foglioline,
trovò anche la
forza di andare avanti
<<
…Ti ascolto…se… >>
strinse di nuovo le
labbra e sollevò gli occhi verso quelli fissi e determinati
dell’altro <<
…se vuoi parlarmi…o…hai
qualcosa da dire… >>
L’atavica insicurezza che trapelava da quella voce avrebbe
fatto ridere Derek,
in un altro momento.
In quel preciso istante, invece, ebbe il potere di fargli aggrovigliare
lo
stomaco.
Questa volta fu lui ad abbassare lo sguardo, ma lo risollevò
subito dopo perché
era nella sua natura parlare guardando in faccia la gente.
<<
Sì, ti devo parlare… >>
ammise, basso nel tono,
portandosi le mani sui fianchi.
Spencer si mosse a sua volta.
Osservò le mani del collega, studiandone la posizione, prima
di sollevare
improvvisamente gli occhi su quel bel viso di colore.
Increspò la bocca in un sorrisetto che sapeva di scusa, quindi concentrò la sua
attenzione oltre il corpo
dell’altro.
Con un <<
Mmh… >>
non meglio definibile,
si spostò verso sinistra, superandolo in due passi,
muovendosi, poi, verso la
sua scrivania.
Derek rimase un attimo a fissare il punto in cui, solo mezzo
secondo prima, c’era il suo collega Reid, come se
non
riuscisse a capacitarsi della sua improvvisa sparizione.
L’unica prova evidente
del fatto che non era caduto vittima di un’allucinazione fu
lo spostamento
d’aria che percepì addosso pochi istanti dopo.
<<
Non sei a tuo agio… >>
commentò con voce
improvvisamente professionale.
Si voltò e individuò l’altro davanti
alla scrivania <<
Non mi guardi in
faccia, scappi… >>
Avanzò con passo lento
e cadenzato fino a lui, appoggiando, poi, entrambe le mani sulla
scrivania.
Spencer rimase in piedi, vicino alla poltrona e lo fissò per
lunghi istanti <<
Non è significativo. Lo
faccio sempre. >>
commentò
subito dopo con voce quasi leggera.
Derek alzò gli occhi al cielo e si trattenne dal sospirare.
Non aveva mai sentito un ragazzo mettere in chiara evidenza il fatto di
essere
debole. O, forse, debole non era
la
parola giusta.
Remissivo, ecco.
Un ragazzo tanto remissivo da non riuscire a guardare negli occhi chi
manifesta
un’indiscussa autorità su di lui, né a
dare una stretta di mano ad uno
sconosciuto, a meno che non sia costretto.
<<
Interponi la tazza tra
me e te, stringendola come se ti dovesse sfuggire di mano da un momento
all’altro. E’ una barriera. >> aggiunse
ancora.
Il vero problema del profiling era che, dopo un po’ di tempo
che si esercitava
quel lavoro, diventavi letteralmente incapace
di condurre una conversazione in maniera spensierata.
Semplicemente non
riuscivi più a non badare a quello che c’era oltre
le parole. Come se il
cervello si fosse definitivamente spaccato a metà: una parte
ascoltava e
analizzava il linguaggio verbale, un’altra studiava
l’impostazione fisica del
corpo e la cinesica.
Non c’era più scampo.
<<
Avevamo deciso di non
farci il profilo a vicenda... >> La
voce di Spencer risuonò per
l’ennesima volta calma e apparentemente
pacata.
Solo apparentemente, perché, in realtà, nel
pronunciare quelle parole, aveva
improvvisamente fissato negli occhi il collega e stretto le labbra,
irrigidendo
la linea della mascella.
Irritato.
<< Scusami, hai
ragione…è che… >> il
nero
esitò, abbassando lo
sguardo <<
…non vorrei farti
sentire a disagio. >>
sussurrò, infine, tornando a guardare
l’altro.
<<
… >>
il giovane arricciò di
nuovo le labbra e abbassò lo sguardo
sulla tazza.
La fissò qualche secondo, come se cercasse in quel liquido
un po’ di
ispirazione. Poi sembrò comprendere improvvisamente la reale
funzionalità di
quell’oggetto e se la
portò alle labbra, sorseggiando
quasi per finta il thè.
<<
…non… dovrei? >>
mormorò, infine, quasi
timidamente, passandosi nervosamente la lingua sulle labbra.
Quella domanda, posta con quella tale intensità,
ebbe la capacità di far sentire male Derek.
Era chiaro il suo significato.
Basta tergiversare, ora parliamo di quello per cui entrambi siamo qui,
in
ufficio, ad un orario improponibile.
Spencer lo guardò, inclinando appena la testa, tenendo la
parte destra del
corpo più indietro, rispetto a quella sinistra.
Aspettava.
Il suo non era un atteggiamento di attesa.
Anzi, era come se avesse quasi paura di quello che il collega avrebbe
potuto
dirgli.
Ma lo sguardo che gli teneva puntato in volto trasmetteva un messaggio
molto
chiaro: “Ti sto ascoltando con attenzione”.
Derek ricambiò lo sguardo.
<<
… >>
Poi
lo abbassò.
Socchiuse le labbra più di una volta, nel tentativo di
articolare delle parole
che fossero in grado di trasformare i suoi pensieri in frasi di senso
compiuto.
Ma era impossibile.
I suoi pensieri era troppo complicati per
poter essere espressi a voce.
Forse perché…in fin dei conti, non erano
“pensieri”. Erano sentimenti.
E i sentimenti non sono pensieri.
Spencer assottigliò lo sguardo e fece scivolare gradualmente
la sua attenzione
sulla propria scrivania.
Guardò i libri.
Guardò i fascicoli.
Guardò la piantina vicino al computer (era ancora viva solo
perché se ne
occupava uno degli inservienti. Lui non aveva il cosiddetto
“pollice verde”).
Buffo.
Avrebbe potuto sapere vita, morte e miracoli di ogni singola pianta -
conosciuta o meno - esistente su quel pianeta…eppure, la
conoscenza, non
sarebbe bastata, da sola, a
mantenerla in vita.
E’ così un po’
per tutto, no?
Conoscere la teoria andava bene, ma era uno studio incompleto, se
non si
sperimentava anche sul campo.
“Prova
ancora.
Fallisci ancora.
Fallisci meglio.”
Di nuovo.
Ancora una volta,
la voce di Gideon gli attraversò contemporaneamente la mente
e il cuore, incredibilmente chiara, incredibilmente vera.
Al punto tale che
il giovane profiler sollevò di colpo la testa, ruotandola
verso destra, frugando con occhi ansiosi la stanza, alla ricerca di una
persona
che non
c’era e
che, probabilmente, non
sarebbe mai
più riapparsa.
<<
Reid?
Reid, che c’è? >>
“Ah, che
sbadato…ho una cosa per te.”
“….Davvero?”
“Mh, ho dimenticato di dartela alla tua festa.”
“Tu non fai re…”
<< Reid! Accidenti,
rispondimi! >>
Spencer sussultò violentemente quando si sentì
attanagliare all’altezza del
gomito sinistro. Non ebbe bisogno di abbassare lo sguardo per sapere
che si
trattava del delicato tocco di
Derek.
Ma non percepiva troppo la morsa. In realtà la cosa che
sentiva meglio, in quel
momento, era proprio ciò che non sentiva.
La voce del suo mentore.
Si morse di riflesso il labbro inferiore, per trattenere
l’irritazione.
<<
…ma…stai bene…? >>
domandò, l’altro,
osservandolo con una strana espressione.
Sembrava ansioso, sì, ma anche cauto. La tipica espressione
che si ha, di
fronte ad un evento inspiegabile << Perché
hai sussultato? Qual è il
problema, hai visto qualc… >>
<< No… >>
lo interruppe Spencer,
con voce mostruosamente calma ed
uno
sguardo spaventosamente vacuo.
Socchiuse gli occhi e lo guardò, concentrato. Per un attimo
sembrò fare fatica
a metterlo a fuoco.
<<
Nessuno…non c’era
proprio…nessuno. >>
Amareggiato.
Derek Morgan l’aveva appena strappato da uno dei ricordi che
aveva di Gideon.
Per un istante lo odiò.
Poi si spaventò di quel sentimento e percepì il
bisogno di distogliere lo
sguardo dal viso attento e smarrito del nero.
<<
Ho “sussultato” perché
mi hai fatto male. Mi stai facendo
male. >>
puntualizzò, guardando
con aria eloquente la mano di Morgan ancora serrata attorno al suo
gomito. Era
un miracolo che la tazza non gli fosse volata via di mano.
Derek guardò a sua volta la mano con intensità,
come se si stesse chiedendo
come fosse finita lì e stesse tentando di ricostruirne gli
ultimi movimenti.
Poi sembrò arrivare ad una conclusione e alzò
lentamente gli occhi scuri verso
di lui.
<<
Hai sussultato anche prima che
ti afferrassi per riportarti
sulla Terra. >>
scandì
lentamente.
Spencer inclinò il capo, fissandolo con aria curiosamente
riflessiva, quasi
aspettasse qualcosa.
Morgan era un perfetto esempio di Maschio
Alfa.
Come tale, non amava essere contraddetto, pur essendo perfettamente in
grado di
ammettere i propri sbagli.
Si trattava di istinto.
Riconobbe in lui tutti i segni dell’individuo dominante:
sbatteva poco le
palpebre – o, addirittura, non lo faceva proprio, se era in
corso un confronto -, parlava con
voce tonante e
di volume leggermente più alto rispetto alla norma e, sempre
in qualità di
autorità superiore, si sentiva libero di violare a
piacimento lo spazio vitale
dei “subordinati”.
La cosa “buffa” era che non ne era consapevole.
Si trattava di atteggiamenti per lo più istintivi, quasi primitivi.
Gran parte delle relazioni sociali tra animali si basava su una rigida
gerarchia di questo tipo e facilmente si era potuto osservare la
diversità comportamentale
di un individuo alfa e di uno sottomesso.
Derek
sembrò non comprendere quel
silenzio prolungato, ma intuì che c’era qualcosa
che non andava, in quel
collega. Lo osservò muoversi leggermente, dondolando sui
piedi, come per
riattivare la circolazione sanguigna nelle gambe. Non fece altro, ma in
quel
modo si rese improvvisamente conto di stargli ancora stringendo il
braccio.
<<
Scusa…non volevo farti
male. Mi sono preoccupato. >> allentò
la presa fino ad annullarla
totalmente.
Reid, per l’ennesima volta, non rispose, troppo impegnato
com’era a guardare
fisso Morgan, domandandosi per quale ragione si stesse giustificando.
Non lo faceva mai. Quasi mai.
Cosa avrebbe potuto rispondere, di solito?
“Non ti facevo così
delicato” oppure “La
prossima volta mi metto i guanti” e
avrebbe riso…o avrebbe semplicemente evitato il problema
cercando di capire
cosa fosse successo.
Ma adesso ci sono cose più importanti, su cui concentrarsi.
<< Hai capito
subito che il biglietto era mio, vero? >> la
voce bassa di Derek catturò di
nuovo la sua attenzione.
<<
Sì… >>
<< Quanti secondi
ci hai impiegato per capirlo? >>
rise, l’altro, cercando di tenere a
bada l’imbarazzo che percepiva dentro di sé.
<<
Una decina… >>
rispose Spencer,
seriamente <<
Ho
visto poche volte la tua scrittura, quindi ci ho messo un po’
di più. >>
soggiunse, grattando la
ceramica della tazza con le unghie. Ancora una volta sembrò
ricordarsi di
averla ancora in mano e se la portò alle labbra,
sorseggiando un altro po’ di
thè.
Derek decise di lasciar perdere quel discorso.
Esitò.
Abbassò lo sguardo e lo rialzò, puntandolo sul
biglietto abbandonato sulle
pagine del libro aperto.
Era ora. Doveva farlo.
<< Cosa…cosa ne
pensi? >>
si sentiva
incredibilmente stupido. Dannazione, normalmente non aveva alcun
problema a
rapportarsi con qualcuno.
Non aveva alcun problema a rapportarsi con una donna.
Comprese che stava proprio lì, il problema.
Le donne si seducono.
Si corteggiano.
Con gli sguardi, con un tocco leggero, con parole gentili e sorrisi
accattivanti. Avevano bisogno di sentirsi al sicuro.
Capite.
Spencer Reid non era una donna.
Spencer Reid non era nemmeno bravo a rapportarsi con le persone.
Conosceva i modelli comportamentali in teoria.
Sorrideva sempre, quando veniva presentato a qualcuno, faceva un cenno
di
saluto e ammorbidiva i tratti del volto quando gli veniva rivolta la
parola.
Ma non sorrideva mai veramente. I
suoi erano tutti sorrisi di circostanza.
Il cenno di saluto era istantaneo, ma sostituiva la stretta di mano (se
una
persona saluta già con un semplice gesto, viene istintivo
salutarla a sua volta
allo stesso modo).
Il fatto di avere quasi sempre un’espressione mite
– quasi mansueta
– sul volto, era data, probabilmente, da una intima
decisione di non far trasparire troppo le proprie emozioni.
No, con lui non avrebbe potuto applicare tecniche particolari.
Infatti era partito con lo scrivere un biglietto – che,
avesse potuto, lo
avrebbe preso, appallottolato ed ingoiato in modo da farne sparire le
tracce -,
cosa che non aveva mai fatto.
<< Morgan… >>
la voce di Reid gli
sembrò, ancora una volta, incredibilmente fragile.
Percepì un lieve brivido
sulle braccia, nell’ascoltare la pronuncia del suo cognome.
Tendeva a chiudere
la voce sulla prima “o”, accarezzava appena la
“r”, senza darsi la pena di
definirla troppo, e le ultime tre lettere le pronunciava gutturalmente.
Derek lo guardò, avvertendo un improvviso dolore al cuore.
Quanto può far male l’amore?
<< Ma…tutte
quelle donne… >> continuò,
Spencer, esitante.
<<
Ehi, non c’entra niente
con questa storia! >>
affermò in tono più brusco di quanto
in realtà non
volesse. Appena se ne rese conto aprì la bocca per
aggiungere qualcos’altro, in
maniera più dolce, ma lì per lì non
gli venne in mente nulla.
Cazzo, Reid, come fai a non accorgerti di quanto io ti desideri?
Un pensiero sorprendente.
Si sentì preso in contropiede dalla sua stessa mente.
Lo desiderava davvero?
Il cuore gli mandò una fitta
potente.
Il più giovane sorrise, abbassando lo sguardo e arricciando
le labbra, come
faceva quando sentiva qualcosa di stupido o incredibilmente
sbagliato.
<<
Come
puoi dire che non c’entra nulla? >>
si interruppe un
istante e la sua espressione si illuminò improvvisamente,
come se gli fosse
tornato alla mente qualcosa di estrema importanza.
<<
Reid, non comincia… >>
Troppo tardi.
<<
Non essere in grado di
stabilire a chi dedicare le proprie mire – se a maschi o a
femmine – è sinonimo
di disagio e di mal convivenza con
la
propria identità sessuale. Come
l’eterosessualità,
l’omosessualità deriva da
fattori biologici, ambientali, sociali e culturali complessi,
che conducono ad una preferenza pressoché inevitabile,
nella scelta del partner
sessuale. Per il 4-5% della popolazione non si tratta nemmeno di
scelta.
Inoltre, un’attività sessuale frequente
con
molti partner, spesso occasionali, è indice di una diminuita
capacità di
sostenere e consolidare un eventuale rapporto di coppia. >>
Derek non si sforzò nemmeno di bloccarlo. Si
limitò ad appoggiare la sinistra
sul piano della scrivania, sostenendosi ad essa con ostentata
rassegnazione.
Gli occhi scuri vagarono per un istante in giro, per
l’ufficio, ascoltando,
oltre alla voce di Reid - già di per sé difficile
da ignorare -, anche il
picchiettare della pioggia contro i vetri.
Non cercò neanche di seguire il discorso, in un certo senso.
O meglio: lo
seguiva passivamente, come quando si ascolta una lezione. Sapeva
perfettamente
che il collega stava ripetendo parola per
parola ciò che aveva letto su un vecchio libro
sconosciuto, chissà quanto
tempo prima.
La cosa gli faceva venire i brividi, in parte.
Al ragazzino piaceva molto condividere la sua conoscenza, questo lo
sapeva, ma
non aveva mai capito se lo facesse perché voleva sentirsi
dire che era bravo, o
solo per dimostrare a se stesso – nel caso in cui avesse
trovato qualcuno
disposto a stargli dietro – che non era poi così alieno come la gente gli aveva fatto
credere fino a quel momento.
In quei momenti, però, non si controllava e, nella foga di
parlare, accelerava
e, di conseguenza, accorciava gli spazi tra le parole e le pause tra le
frasi.
Tra l’altro, in genere, lo faceva con persone nuove
che, ovviamente,
non avevano nessuna speranza di capire anche solo un quarto del sermone
che
tirava su – tutto da solo! -.
Comunque non aveva scollegato del tutto l’udito e, per
questo, focalizzò lo
sguardo su Reid non appena sentì pronunciare la parola
“omosessualità”.
Lo guardò, vitreo.
Per la prima volta si rese conto delle reali implicazioni che tutta
quella
situazione recava con sé.
Aprì la bocca per parlare, ma non riuscì a dire
nulla fino a quando l’altro non
tacque per riprendere fiato.
<<
Omosessualità, Reid? >>
articolò a fatica, guardandolo
fisso.
Spencer ricambiò con la stessa, significativa,
espressione di chi era convinto di star parlando con il muro, ma poi,
ad un
tratto, “Il Muro” aveva deciso di rispondergli.
Grattò di nuovo la ceramica della tazza con le unghie,
elaborando rapidamente
una risposta.
<<
“Omosessualità”
è un
termine che deriva dal… >>
<< So che cos’è,
Reid! >>
lo interruppe
bruscamente l’altro, cercando di frenare la stizza naturale che
gli corrodeva
l’anima.
Era furioso.
Si sporse verso di lui, pur sapendo che avrebbe interpretato
– giustamente -, quel
gesto come un
atteggiamento di minaccia. In un certo senso voleva
che lo interpretasse così.
<<
…Non è così che stanno
le cose. >>
sussurrò, fissandolo
negli occhi con un’espressione che non dava adito a
fraintendimenti. Non voleva
più sentir parlare di quella storia.
Ma Spencer non sembrava essere di quella opinione.
Lo osservò per qualche secondo, senza aprire bocca e Derek
fu pronto a giurare di aver visto
una strana
scintilla, in quegli occhi verde scuro.
<<
…Non…stanno così? >>
ripetè, quasi atono.
<<
No. Te l’ho detto…è una
questione diversa. >>
<< … >>
scrutò il nero per un
istante <<
in che senso? >>
chiese,
poi,
lentamente.
Socchiuse gli occhi, concentrato.
Cadde il silenzio, tra di loro. Aleggiò nella stanza come un
fantasma.
Morgan cercava disperatamente qualcosa da dire.
“In che senso?”,
gli aveva chiesto.
Non lo sapeva.
Aveva bisogno di tempo per
elaborare
una risposta.
Ma il tempo non ce lo aveva.
Non perché Reid non glielo avrebbe
concesso…tutt’altro. Nonostante fosse un
ragazzo in grado di elaborare le informazioni ricevute in maniera
più
efficiente di un computer - e, di conseguenza, la
“conversazione” era
un’interazione sociale che, nella sua mente, aveva tempi
accelerati che
dovevano essere per forza rallentati a beneficio delle altre persone
– era
dotato di una grande pazienza che solo la psicologia poteva dare.
No…il tempo gli mancava perché sapeva, percepiva
sulla pelle che, ad ogni secondo che passava, Reid gli stava
scivolando
via.
Si stava allontanando, pur senza muoversi di un centimetro.
Non poteva permettergli di andarsene.
Il dolore che stava provando in
quel
momento era troppo forte da poter anche solo concepire l’idea
di lasciarne
scivolare via la causa.
Spencer rimase immobile, a fissarlo, domandandosi, al tempo stesso,
come fosse
finito in quella situazione.
Ancora una volta si sorprese di non sentire nulla.
E, ancora una volta, la voce di Gideon smussò
la barriera mentale che separava la razionalità
dall’irrazionalità,
la realtà dei fatti dal
desiderio bruciante di avere
accanto una
persona che non c’era più.
“Non
sapere cosa
si prova è diverso dal non sentire
nulla…”
Con un
dolore sordo al petto ed il respiro spezzato, cercò di
compiere un passo
indietro, quasi nel tentativo di allontanarsi fisicamente
da quei ricordi e di ripristinare la propria difesa
psicologica.
Non riuscì a farlo.
Derek Morgan interpretò quel misero movimento come un
distacco sia fisico che
emotivo e reagì di conseguenza, protendendosi di colpo verso
il più giovane con
la sensazione martellante di dover fare assolutamente qualcosa per
buttare giù
quel muro invisibile che si stava creando.
Come si distrugge un muro invisibile?
Fece la prima cosa che gli suggerì
l’istinto.
Accorciò ulteriormente la distanza con una tale decisione da
trasmettere a Reid
l’intenzione di volerlo buttare a terra.
Il giovane profiler tentò di indietreggiare ulteriormente,
con uno scatto quasi
anomalo, ma si incartò nelle gambe della poltrona,
rischiando di crollare sul
pavimento.
Dalle labbra gli uscì un semplice sussulto di sorpresa, ma,
prima che Morgan
potesse fare qualcosa per tenerlo in piedi, staccò la destra
dalla tazza e la
sbatté sulla scrivania, producendo lo schianto secco di ossa
che impattano
contro una superficie dura.
Derek, senza quasi rendersene conto, allungò la destra,
approfittando della
momentanea instabilità dell’altro, e gli
strappò letteralmente di
mano quella dannata tazza da thè, con l’esaltante
sensazione di aver appena sgretolato una parte di quel muro.
Lo
aveva privato del suo schermo.
Reid
si raddrizzò, tenendo la mano sospesa per aria, come se
volesse
prolungare l’illusione di star stringendo qualcosa.
Poi guardò Morgan dritto negli occhi, irrigidendo la
mascella, osservandolo
mentre sbatteva la tazza sulla scrivania, irritato da nonsisacosa,
facendo cadere delle gocce sul piano di legno.
<<
Se
non ti piace il thè,
tanto vale non berlo, no? >>
<< Non penso che
ti debba interessare quello che mi piace o meno. >>
<<
Rientra
nel mio
interesse, se cerchi di erigere una barriera tra me e te. >>
<<
Con
tutto il rispetto,
neanche questi sono affari tuoi… >>
Derek
percepì con
piacere il tremito esitante nella voce di Reid.
Remissivo
com’era era chiaro che non avrebbe potuto sostenere a lungo
un
confronto, specialmente se si sentiva aggredito sia fisicamente che
verbalmente.
<<
Pensi
davvero che ti
stia mentendo? Sei davvero convinto
che avrei scritto questa roba a chiunque?! >>
ringhiò,
avvicinandosi di un
ulteriore passo, senza mai allontanare lo sguardo dal viso del collega.
Spencer
indietreggiò ancora, questa volta con più
cautela, allontanando, con un
lieve pressione della gamba, la poltrona, che scivolò via di
qualche
centimetro, silenziosa, sulle rotelle evidentemente ben oliate.
<<
Io…
>>
boccheggiò
per un
attimo, incapace di articolare qualcosa di sensato.
La
realtà era che non riusciva a pensare. Morgan non era mai
stato così
aggressivo, nei suoi confronti.
Lo era stato con
alcuni sospettati di omicidio, ma mai con lui.
Non aveva mai
cercato di…dominarlo in
quel modo.
<<
Che
cosa stai cercando
di ottenere, Morgan…? >>
domandò,
flebile, quando avvertì il piano della
scrivania premere contro la zona lombare, fermando obbligatoriamente il
suo
allontanamento.
<<
Che
cosa… >>
cominciò
l’altro, per
poi interrompersi e distogliere lo sguardo, stizzito.
Rimase in
silenzio, mordendosi le labbra e puntandosi le mani contro i fianchi,
riflettendo intensamente.
Riportò
lo sguardo su Reid, osservandolo.
La scrivania era
ad angolo e lui aveva chiaramente fatto in modo di bloccarci
contro il collega più giovane.
E’ davvero
così che si discute?
Si
sentì in colpa.
Spencer
cominciava ad inviare i classici segnali di chi è sotto
stress: non
soffermava lo sguardo sul suo volto per più di qualche
istante, teneva le mani
sollevate, unite all’altezza della bocca dello stomaco, in
parte per
riabilitare la barriera che una volta era costituita dalla tazza, in
parte per
scaricare l’ansia tirandosi e torcendosi le dita.
Stava approfittando della sua debolezza?
<< Reid…vorrei
solo che tu mi…ascoltassi. >>
Reid
si concentrò sul
monitor spento del computer e Morgan abbassò la testa per
poter richiamare la
sua attenzione e far sì che ricambiasse il suo sguardo.
<<
Vorrei
che tu mi
ascoltassi davvero. >>
Fece
un momento di
silenzio, attendendo di ricevere un segno di qualunque tipo, di assenso
o di
diniego. L’altro non fece nulla, si limitò a
fissarlo.
Deglutì
e riprese a parlare, avvertendo il battito cardiaco accelerare di
colpo.
<<
Non
ti sto prendendo in
giro. Non lo avrei fatto per nessuno. >>
Stava
parlando del
biglietto.
<<
Il
fatto è che…quello
che provo stando con te…non l’ho mai provato per
nessun altro. >>
si
interruppe,
sentendosi sempre più idiota ogni secondo che passava <<
…Mai! >>
ribadì
con più forza.
Il viso di
Spencer, a quelle parole, ebbe una contrazione tanto lieve quanto
involontaria,
che sparì mezzo secondo dopo.
Morgan non
riuscì a darci un significato. Era successo troppo in
fretta.
<<
Senti,
lo so che ti
sembrano frasi stereotipate…lo so, credimi,
perché in questo momento mi sento
tanto in imbarazzo che potrei prendere la rincorsa e scagliarmi contro
quel
vetro che vedi là e buttarmi di sotto… >>
riprese
fiato, leccandosi le labbra,
innervosito.
Fece vagare gli
occhi scuri per la stanza, quasi in cerca di aiuto <<
…Il
fatto è che…non posso farlo.
Perché…vorrei davvero che
tu capissi quello che provo. Il problema è che… >>
sospirò,
rilassando le spalle e
allargando le braccia, come in segno di
resa <<
…non
ci riesco. >>
Ebbene
sì, non riusciva
a far trasparire i propri sentimenti.
Con le donne era
diverso.
“un’attività
sessuale frequente con molti
partner, spesso occasionali, è indice di una diminuita
capacità di sostenere e
consolidare un eventuale rapporto di coppia”
Le
parole che Reid aveva pronunciato solo pochi minuti prima gli
rimbombarono in testa, assumendo nuove sfumature, nuovi significati ad ogni secondo che
passava.
Partner occasionali.
Le donne che
aveva incontrato e conosciuto – ovviamente in senso biblico
– erano
tutte occasionali.
Il modo di
rapportarsi doveva essere necessariamente differente.
<<
Non…non
sei una donna… >>
sussurrò
lentamente, guardandolo
dritto in faccia con aria quasi perplessa.
Spencer lo
fissò, stropicciandosi le dita. Per un attimo non diede
minimo segno
di averlo sentito.
Poi distolse lo
sguardo dal collega e inarcò leggermente un sopracciglio,
come
per dire “Andiamo bene”.
<<
…ma…
>>
Derek
fece per
aggiungere qualcosa, ma la voce gli si bloccò.
<< Dev’essere sconvolgente… >>
sussurrò
improvvisamente, Reid.
Il nero lo
guardò.
Sconvolgente
cosa?
Accorgersi di
star parlando con un maschio anziché con una femmina?
<<
So che sei un maschio. >>
ci
tenne a sottolineare, subito, Derek <<
Cioè…
>>
boccheggiò
per un
istante, guardando l’altro, come a cercare ispirazione in
lui. Strizzò gli
occhi e scosse la testa, ben conscio di star facendo una figura non
molto
bella.
Il più
giovane, intanto, scivolò impercettibilmente verso sinistra,
allontanandosi dall’angolo della scrivania che gli stava
letteralmente martoriando
i reni.
Si rendeva conto
del fatto che Derek voleva esprimere un…sentimento – forse
– che andava ben oltre la sua concezione di
“maschio Alfa”.
Quella era una
dichiarazione in piena regola, vero?
Ma perché?
Più lo
guardava, più si rendeva conto che ci potevano essere tante,
troppe spiegazioni per quel
comportamento.
Deglutì
e abbassò lo sguardo, prima di prendere fiato e parlare.
<< Secondo degli
studi a impronta sociobiologica, il
meccanismo della selezione naturale ha permesso e favorito la
diffusione
strategica di tutti quei comportamenti specifici
e idonei a
favorire il processo riproduttivo. Tutti questi atteggiamenti
rientrano nella definizione di “Pluralismo
sessuale”.
I sessuologi ne hanno individuato cinque forme principali… >>
<<
Reid,
ti prego… >>
Derek
sospirò, sconsolato.
Ovviamente il ragazzino non gli
diede
il benché minimo ascolto – forse non lo sentì
nemmeno
– e continuò a sopraffare il silenzio della stanza
con quella voce
acuta e fragile, sciorinando vocaboli e termini fin troppo tecnici per poter essere
assimilati e appresi nel giro di un
nanosecondo.
<< Nella prima
forma – la più frequente – sono state
individuate alcune particolari tipologie di pluralismo
sessuale, convenzionalmente
indicate con nomi derivati da alcuni celebri personaggi e… >>
la
voce gli si smorzò
perché, notoriamente, i polmoni avevano
bisogno di ossigeno, di tanto in tanto.
Morgan
– che intanto si era di nuovo appoggiato alla scrivania
– cercò di
approfittarne per farlo tacere <<
Reid,
non mi interessa una lezione
di sessuologia presa da uno di quegli assurdi volumi che ti leggi
quotidianamente.
>>
Il
tono utilizzato in
quel frangente, di norma, sarebbe dovuto bastare a tappargli la bocca,
ma evidentemente, Spencer aveva qualcosa
di
importante da dire, perché sollevò
impercettibilmente il mento, allargò gli
occhi e accelerò ulteriormente la cadenza del parlato.
Dato che non
aveva più la tazza in mano era ben libero di gesticolare,
quindi
sollevò le mani e le tenne sospese per aria,
all’altezza dello sterno, come se
le avesse appoggiate ad una balaustra invisibile, rilassò le
dita e unì i
polpastrelli dei pollici con i rispettivi anulari, come faceva sempre.
Sembrava un
direttore d’orchestra in tensione.
<< Il “pluralismo
sessuale” caratterizzato dalla tendenza ad approfittare di qualsiasi occasione per
intraprendere avventure erotiche con
qualsiasi donna capiti a tiro, da poter sedurre
senza
alcun sentimento affettivo, viene chiamato “Casanovismo” o “Complesso di
Casanova”.
La persona che ne è affetta ha l’apparenza di un
uomo normale e,
spesso, ha una buona posizione sociale. E’ un maschio
poligamo, cronicamente
infedele, con una condotta di vita caratterizzata da una
compulsività patologica al “tradimento sessuale” e
alla “promiscuità”. >>
Normalmente,
Derek, faceva in modo di scollegare il cervello dopo le prime tre
parole, ma questa volta non lo fece.
Fu quel
“qualsiasi
occasione”
a
fargli drizzare le orecchie.
“Da poter sedurre senza
alcun sentimento
affettivo”.
Man mano che le
parole di Spencer gli ridondavano in testa, cominciò a
comprendere quello che l’altro stava tentando di fargli
capire, attraverso le
righe.
“Promiscuità”.
Morgan
aggrottò le sopracciglia, raddrizzandosi e cercando di
tenere a bada il
sentimento di collera che stava nascendo in lui.
<<
Reid,
mi stai
insultando? >>
commentò
a voce bassa, pericolosa.
Il più
giovane reagì istantaneamente.
<<
..Affatto!
Il
“Complesso di Casanova” è definito dalla
scienza come una vera sindrome psicopatologica, una vera e
propria malattia dell’anima, dalla prognosi incerta, che
può instaurarsi in
ogni tipo di personalità e può associarsi a varie
turbe psichiatriche. >>
quasi
si mangiò le
ultime parole, nell’ansia di spiegarsi meglio.
Quando
terminò la frase, gli occhi verde scuro sbirciarono il
collega, nel
tentativo di leggerne dei segnali non verbali che gli potessero
indicare il
livello di irritazione.
Morgan non
mollò la presa.
<<
Ti
sembro affetto dal
“Complesso di Casanova”? >>
mosse
un piede, spostando il peso del corpo in avanti,
come in procinto di avvicinarsi. Reid, in risposta, irrigidì
i muscoli delle
gambe e del busto, spingendosi leggermente indietro, tentando, forse,
di farsi
inglobare dalla scrivania.
<<
No,
per niente. >>
replicò,
quindi, in uno
slancio di istantanea sincerità <<
O,
se lo fossi, si tratterebbe
comunque di una forma molto, molto lieve. >>
piegò
gli angoli delle labbra verso
l’alto, in un sorrisetto nervoso che aveva la sola funzione
di sfogare l’ansia
che la vicinanza del collega gli faceva provare.
Morgan lo
guardò fisso, stringendo i denti, irrigidendo la linea della
mascella.
Stava cominciando
ad innervosirsi. Spencer non stava facilitando le cose.
<<
…Reid,
dove vuoi andare
a parare? >>
domandò,
infine, stancamente.
Il giovane
profiler lo guardò, sfarfallando le ciglia per un istante,
come se
gli fosse entrato qualcosa in un occhio.
<< Quello
che…intendo
dire… >>
ricominciò,
stranamente
esitante. Mosse le dita nell’aria, come se stesse tirando le
corde di un’arpa
invisibile <<
è
che, talvolta, questi soggetti, vengono inevitabilmente
attratti
da quello che non…possono avere. Da tutto ciò che
vedono fuori
dalla loro portata. Hanno tendenze un po’ narcisistiche e
quando posseggono
l’oggetto del loro
desiderio…poi…non… >>
si
interruppe e deglutì <<
…non
se ne fanno più
nulla. >>
concluse
a fatica.
Derek
aprì la bocca per parlare.
<<
…
>>
La
richiuse, mentre il
suo cervello cercava di comprendere quello
che l’altro aveva appena cercato di suggerirgli.
<<
Che
cosa…vorresti dire?
>>
scandì
lentamente.
Spencer si mosse,
a disagio, senza, tuttavia, spostarsi (tanto, anche se avesse
voluto non avrebbe potuto muoversi).
Abbassò
appena le braccia e inspirò a fondo, prima di decidersi a
chiarire.
<< Questi
individui…sono abili seduttori. Riescono quasi sempre ad
ottenere tutto quello
che vogliono… >>
si
fermò ed inspirò di nuovo, abbassando lo sguardo,
puntandolo all’altezza del
petto di Derek <<
…a
volte, però, proprio per il fatto che ottengono tutto senza
il minimo
sforzo…si…annoiano. >>
si
stava chiaramente sforzando di trovare le parole
giuste.
Assottigliò
la voce, rendendola quasi leggera e suadente, stringendosi le mani
l’una nell’altra <<
…e
puntano…soggetti che reputano
“difficili” da…ottenere. Hanno grandi prospettive, ma, una
volta raggiunto il loro obiettivo…è
più
la delusione che altro, ad attenderli…e passano a
qualcun’altro.
Fondamentalmente, quello che cercano, non è
nient’altro che l’eccitazione…della
caccia… >>
pronunciò
l’ultima
parola con uno strano fremito nella voce e sollevò lo
sguardo, gettando
un’occhiata al viso dell’altro, che era rimasto
muto e immobile per tutto il
tempo.
<<
Reid…
>>
Spencer si
spostò una ciocca di capelli da davanti al viso, per poi
tornare a
stropicciarsi le mani.
<<
…Fammi
capire… >>
la
voce di Morgan
sembrava atona. Suonava incredibilmente piatta,
nel silenzio di quella stanza.
Reid si
innervosì, perché non sapeva come interpretare
quel tono.
Per meglio
dire…c’erano troppe variabili da
interpretare.
Ma quando Derek
Morgan sollevò lo sguardo, non avrebbe avuto bisogno di
nemmeno
una, delle sue cinque lauree, per riuscire a cogliere, anche solo in
minima
parte, quanto fosse furioso.
Aprì
la bocca, più per istinto alla difesa che per vera
volontà di prendere la
parola, ma l’altro fu più svelto.
<<
…Secondo
te io mi sto
divertendo? E’ questo che credi, mh? Che mi diverta
a stare
qui, alle dieci di sera, a parlare con te di argomenti più che imbarazzanti? >>
socchiuse
gli occhi,
affilandoli, senza abbandonare mai il viso del collega più
giovane che aveva
l’espressione di uno che avrebbe voluto trovarsi davvero ovunque, tranne che
lì <<
Ti
sto dicendo che…che penso che tu mi piaccia. Cazzo, hai idea di
quanto
sia difficile dire una cosa del
genere? >>
il
tono si alzò,
ribollente di collera repressa.
Si
riscoprì a provare impulsi violenti verso quel ragazzino
saccente che pensava
di sapere tutto, di lui,
interpretando i fatti della sua esistenza scremandoli attraverso il
punto di
vista di qualche libro astruso, trovato chissà dove.
<< Io non… >>
cominciò
a
giustificarsi, l’altro, senza guardarlo in faccia.
La tensione del
suo corpicino esile era palpabile.
<<
Tu volevi dire esattamente quello
che hai detto, Reid! >>
Derek
non lo lasciò
parlare.
Lo
guardò, ben sapendo che se si fosse fatto ulteriormente
più vicino, Spencer
avrebbe cercato di “prendere il volo”, come aveva
fatto prima, vicino alla zona
Bar.
Non gli
importava.
<<
Con
tutto il rispetto, ragazzino…ma
comincio seriamente a dubitare della tua presunta intelligenza.
“Ottengono
tutto senza il minimo sforzo”?
Come puoi…parlare in questi termini, pur
sapendo…pur sapendo quello che ho
dovuto passare nella mia infanzia?! >>
più
parlava, più la rabbia si faceva
sentire e più il tono di voce si alzava.
Non permise a
Reid di replicare.
<<
Cos’è,
hai paura che ti
scopi e poi ti getti, via,
Reid? E’
di questo che hai paura, eh? Saresti tu l’obiettivo irraggiungibile? >>
notò
con sadico piacere
l’irritazione che si dipinse sul viso del giovane, alla frase
“hai paura che ti
scopi”.
Evidentemente,
per lui, la sfera sessuale era un tabù e, inoltre, non
apprezzava l’utilizzo di termini volgari. Erano
più questi due fattori,
piuttosto che l’evidente ironia, a
dargli fastidio.
<<
Era
questo che
intendevi dire, vero? >>
lo
incalzò, guardandolo fisso e abbassando appena il
tono di voce, facendogli intuire che era ora di rispondere.
Spencer
sollevò lentamente gli occhi, ritrovandosi a fissare quelli
di Derek.
L’aveva visto così arrabbiato in poche, pochissime
occasioni.
Cominciò
a sentirsi male.
La gola gli si
chiuse e la respirazione divenne quasi difficoltosa.
Il panico gli
irrigidì il corpo.
Aprì
la bocca per parlare, ma non gli uscì nulla, se non un
flebile sospiro.
E poi, improvvisamente, avvertì un
dolore sordo al petto.
Al cuore.
E capì
che le parole di Morgan avevano scavato e distrutto le sue difese,
raggiungendo il punto più doloroso e vitale.
Non me lo merito…
No, non se lo
meritava.
<< Reid,
rispondimi! >>
Derek insisté ulteriormente e Spencer percepì che
la barriera nella sua mente
si stava disfacendo di nuovo.
Era seduto su una sedia,
accanto
alla scrivania del Distretto di Polizia di Modesto, in California.
“Uff…non
fa che dare calci, oggi!”
JJ
stava seduta vicino a lui,
accarezzandosi il ventre prominente con le mani.
Il sorriso addolcito che permeava sulle sue labbra e il movimento
delicato
delle dita, suggerirono a Spencer, che non si trattava di una vera
lamentela.
<<
Nel terzo trimestre c’è una media di trenta
movimenti fetali all’ora. Scalcia
per sgranchirsi le gambe e rinforzare i muscoli. >>
spiegò
in tono pratico, rispondendo ad una domanda mai stata posta.
JJ lo guardò, scettica.
“Hai
mai sentito un bambino scalciare?”
Una domanda che sapeva un
po’ di
ironia. Era l’unica, della squadra, che non si faceva
imbambolare dai suoi
tecnicismi e andava dritta al punto.
“Hai mai sentito un bambino scalciare per davvero? Non nei
libri di testo.
Nella realtà.” Era da interpretare
così,quella domanda.
Senza attendere risposta, afferrò la mano del ragazzo e, con
delicata fermezza,
gliela fece appoggiare sulla pancia, verso il lato destro.
“Lo
senti?”
Spencer ricacciò indietro
l’imbarazzo che percepiva nel toccare una donna in quel modo
– non era abituato
a simili contatti – e, un po’ irrigidito, si
concentrò sulla propria mano. Non
era passato nemmeno un secondo, che avvertì un colpetto
piuttosto esiguo,
proprio sotto il palmo, che ebbe la capacità di fargli
saltare il cuore in
gola. Subito dopo ce ne fu un altro, localizzato poco più in
basso. Erano al
tempo stesso leggeri e incredibilmente secchi.
<< La
cosa non ti spaventa..? >>
domandò,
timoroso. Nello stesso momento in cui pronunciò quella frase
si rese conto che,
sì, a lui spaventava, ma non sapeva definirne bene il
motivo.
“No,
per niente. Perché, a te, invece, spaventa?”
JJ lo guardò,
in parte perplessa, in
parte divertita, perché sapeva che stava per assistere
all’ennesima stranezza
del Dottor Reid.
Infatti, lui, ritraendo la mano e gettando un’occhiata
guardinga e sospettosa
al pancione – quasi avesse timore di vederlo trasferirsi
dalla bionda mamma a
lui -, ribatté, in tono più basso <<
Sì,
da morire. >>
Spencer
sbatté le palpebre e il ricordo si dissolse improvvisamente,
permettendogli un
nuovo contatto con la realtà. Sentiva le tempie pulsare e
una strana pressione
alla testa, come se qualcuno o qualcosa gliela stesse comprimendo da
tutti i
lati.
<<
Io…
>>
mormorò,
esitante, con
una tonalità della voce stranamente vuota.
Si sentiva come se a parlare fosse qualcun altro.
Rilassò impercettibilmente le spalle, portando le mani
indietro, afferrando i
bordi del piano a cui era appoggiato, perché non era certo
di poter stare in
piedi autonomamente. Si leccò le labbra e scosse appena la
testa, in parte per
schiarirsi le idee, in parte perché non sapeva cosa
rispondere a Morgan.
<<
…Io
penso che tu abbia
le idee un po’…confuse. L’ultimo periodo
è stato…piuttosto duro, per tutti
noi…forse…ne hai risentito più di
quanto tu stesso potessi ritenere possibile. >>
L’ultimo periodo
è stato duro per tutti.
Cos’è successo, Spencer?
No, non voleva ricordare.
A una fitta della testa, si ritrovò a strizzare gli occhi
commettendo,
probabilmente, l’errore più grande che potesse
fare in quel momento.
Ruppe di nuovo il contatto con la realtà.
Emily Prentiss attraversò l’open
space in pochi, decisi, passi, avvicinandosi alla propria scrivania,
sfilandosi
la borsa dalla spalla e lasciandola cadere sul piano, senza nemmeno
troppa
delicatezza.
Spencer Reid, seduto alla scrivania accanto, oltre il
separé, sollevò la testa
con uno scatto troppo repentino per poter essere considerato naturale.
Emily lo fissò, più sorpresa che mortificata,
domandandosi il motivo di tanta
tensione, dentro al corpo di un ragazzo così giovane.
“Scusami.”
Disse,
infine, tenendosi le mani
l’una nell’altra.
<< Pensavo
fossi là… >>
si
giustificò con voce fiacca il giovane profiler, accennando
alla zona Bar, dove
c’era Morgan. Emily continuò a guardarlo fisso,con
l’aria fin troppo attenta di
chi ha già colto molti segnali, ma è incerta se
parlare o meno per paura di
risultare invadente.
“Stai
bene?”
Domandò,
infine.
<<
Sì,
io…io… >> mormorò
l’altro un po’ troppo precipitosamente. Per
un’infinitesimale frazione di
secondo sembrò voler dire qualcosa, ma poi cambiò
strada <<
…ci dev’essere una connessione tra loro. Garcia ha
cercato sui registri
telefonici, ma finora non ha trovato niente. >>
“Hai
saltato sulla sedia.”
Gli fece notare la donna
che, come
JJ, era ben in grado di vedere oltre i miseri tentativi di un
adolescente –
almeno per lei – di nascondersi agli occhi e al giudizio
altrui.
Spencer esitò, tenendo gli occhi inchiodati al fascicolo,
per poi muoversi
sulla sedia e dondolare la testa, come fa chi ha qualcosa da dire e fa
fatica a
tenerselo dentro.
<<
E’ che…ultimamente soffro di questi mal di testa
molto intensi.. >> sussurrò,
infine, riluttante, girando la testa verso di lei, fissandola con gli
occhi
grandi, da cerbiatto, come se non sapesse che reazione aspettarsi.
Emily
corrucciò lo sguardo.
“Sei
andato dal dottore?”
Si
informò subito.
Spencer pensò che sembrava un po’ una mamma e
forse era per questo che con lei
aveva ceduto subito.
<<
Sì, da diversi. Nessuno è riuscito a giungere ad
una conclusione. >>
Non
era esattamente così. Ma non se la sentì di
aggiungere altro…anche perché, ne
era certo, Emily avrebbe fatto subito il collegamento con la
schizofrenia di
sua madre.
“Mi
dispiace…”
La mora sembrava
preoccupata ed era
chiaro che stava scegliendo con cura le parole, domandandosi se fosse
meglio
affrontare direttamente l’argomento oppure di lasciar
perdere.
Decise di optare per la seconda opzione, conscia che la prima avrebbe
fatto
andare Spencer sulla difensiva.
"L’hai
detto a qualcuno?”
Si diede una rapida
occhiata
attorno, come per abbracciare con lo sguardo i colleghi di Quantico,
mettendoli, così, sulla lista di potenziali eletti scelti
dal ragazzino.
“A
te.”
Non era preparata a quella risposta.
Spencer la fissò a lungo, con sguardo quasi penetrante,
quasi si rendesse conto
della portata di quella semplice affermazione e volesse valutare
analiticamente
le reazioni dell’amica.
Emily si sentì a disagio, incerta se essere lusingata o
spaventata.
La prima perché, a quanto pare, era l’unica a
rientrare nelle preferenze di
Spencer. La seconda perché non era sicura di essere in grado
di portare avanti
quel tipo di responsabilità.
“…Non
lo dirò a nessuno.”
Lo rassicurò,
infine, domandandosi
la ragione per la quale si sentisse così in dovere di
tenerlo sotto la sua ala.
Concluse che, essendo donna, aveva un naturale istinto alla
maternità. E
Spencer sarebbe stato in grado di tirare fuori la maternità
anche da un sasso.
“…Lo
so.”
Le risposte con semplicità, dopo uno
o due secondi di pausa. In quel momento la sua voce sembrò
quasi vellutata,
come se avesse sospirato, nel parlare. Forse si era davvero tolto una
piccola
parte di quel peso fin troppo gravoso, per poter essere sopportato da
quelle
esili spalle.
Emily Prentiss annuì, contenta, in parte, di essere riuscita
a superare il test
a cui Spencer l’aveva sottoposta.
<< Reid? >>
<< Se ne sono
andati. >>
proruppe il giovane,
ritrovandosi a fissare il pavimento con aria totalmente assente.
Derek Morgan sembrò non cogliere il senso di
quell’affermazione che, a lui,
sembrava tanto chiara.
Derek Morgan era un tipo pratico, a cui
piaceva arrivare subito al sodo della questione.
<<
Che stai dicendo, Reid?
>>
sospirò, trattenendo a
stento l’istinto di afferrare l’altro per le spalle
e scuoterlo fino a convincerlo
a sputare fuori una risposta decente, possibilmente pertinente
all’argomento.
<<
Ti vuoi spiegare, una
buona volta?! >>
scattò
subito dopo, allargando il braccio destro verso l’esterno e
tenendo l’altra
mano piantata sul fianco, come per dire “io sono qui, davanti
a te, non c’è
bisogno di guardare altrove per trovare risposte”.
Spencer sollevò lentamente lo sguardo, portandolo verso il
petto di lui. Non se
la sentiva di guardarlo in faccia.
Era molto vicino.
Fisicamente parlando era così vicino che, se si
fosse proteso in avanti di
qualche centimetro, avrebbe sicuramente potuto percepire
l’odore di quella
pelle ambrata.
<<
… >>
Socchiuse le labbra,
senza articolare nulla.
Derek sembrava insofferente, ma rimase perfettamente immobile, sebbene
l’ira
fuoriuscisse da ogni poro. Spencer pensò che lo avrebbe
picchiato, se andava
avanti così. Anzi, forse avrebbe già dovuto
farlo.
Ma se Morgan era ancora lì, piantato davanti a lui, e non
aveva optato per la
scelta più semplice – ovvero, imboccare la porta e
andarsene -, voleva dire
che…che voleva davvero
qualcosa,
da lui.
Voleva risposte.
E lui gliele avrebbe date.
<< …Tu…cosa mi
vuoi dire? >>
mormorò
semplicemente, con voce soffocata dall’intensità
emotiva risvegliata da quei
ricordi.
Derek fece cadere il braccio lungo il fianco e lo studiò in
volto, come per
cercare gli ultimi rimasugli di intelligenza rimasti.
Come sarebbe a dire: cosa mi vuoi dire?
Gli era sembrato di esser stato abbastanza chiaro, nel biglietto.
<< …Non amo
ripetermi, Reid. >>
sibilò con lentezza, ben sapendo che
l’altro non aveva
bisogno di sentirsi ripetere cose che la sua memoria eidetica aveva
già
memorizzato più che bene.
Spencer annuì impercettibilmente, stringendo le labbra, come
se avesse già
previsto quella risposta.
Sbatté le palpebre, prima di riprendere.
<<
Quindi…tu…mi…mi vuoi? >> domandò
flebilmente, per niente
convinto. Staccò le mani dalla scrivania e le
portò sul davanti, all’altezza
dello stomaco, tornando a tormentarsi le lunghe dita.
Derek rimase impietrito, a quella domanda così diretta.
Era una domanda brutta, quella.
Perché non aveva idea di come rispondere.
Forse, in un’altra occasione, si sarebbe messo a ridere, nel
notare l’imbarazzo
di Reid.
In quel preciso momento, però, provava uno strano senso di
angoscia.
<<
…Reid, non scherzare… >>
tentò di sviare, dando
poca importanza a quella parte di conversazione.
Ma la reazione del collega fu istantanea: sollevò di colpo
lo sguardo, senza
smettere di tirarsi le dita della sinistra con la destra, e lo
fissò con occhi
allargati, dalle pupille dilatate. Lo sguardo che gli lanciò
avrebbe spaccato
in due un blocco di marmo.
Durò molto, molto poco.
Un istante dopo, Spencer era tornato ad abbassare lo sguardo, in
maniera quasi colpevole, ma Morgan
aveva continuato a
percepire in sé la scarica statica di
quell’occhiata.
Preso in contropiede, osservò il profilo del più
giovane, rimanendo sorpreso
nel constatare che, sì, forse l’altro non aveva
sbagliato di tanto il colpo.
Forse lo voleva. Ma aveva bisogno di tempo per capirlo.
<<
…intendi… >>
rimase in silenzio un
attimo, per cercare le parole adatte. Non ne trovò e quindi
si limitò a
sospirare, scuotere la testa e rispondere << Se
intendi sessualmente…non
lo so. >>
Spencer annuì
immediatamente, a quella risposta, facendo sfumare sul viso
un’espressione
ponderata che aveva sempre quando stava riflettendo intensamente su
qualcosa.
Mosse le dita come se stesse girando un anello invisibile attorno
all’anulare
sinistro.
<<
Come pensavo. >>
mormorò a bassa voce.
Derek dovette sforzarsi per sentirlo.
<<
Cos… >>
cominciò, confuso,
cercando spiegazioni a quella domanda.
<<
Ti capisco, sai? E’
normale…non provare attrazione verso di
me…cioè…fossi in te, probabilmente,
direi la stessa cosa. >> lo
interruppe Spencer, quasi precipitosamente.
E l’altro colse una strana amarezza, in quella frase.
<<
Reid, questo non è
vero… >>
si sentì stupido ad
avergli dato quella risposta, ma non sarebbe mai stato in grado di
spiegargli
che, in realtà, non voleva nemmeno pensarci,
all’attrazione fisica. Pensarci significava rendere la cosa parzialmente reale. Parlarne, poi,
l’avrebbe resa definitivamente
reale.
E lui non era pronto, per questo.
<<
Sì, sì, le solite cose:
non sminuirti, sei troppo categorico, bla
bla bla bla… >> biascicò
l’altro, gesticolando per aria, come per
scacciare mosche fastidiose.
Derek lo fissò con gli occhi sgranati. Non aveva mai visto Reid fargli il verso.
Non pensava fosse capace di quel tipo di ironia.
<<
Sai cosa penso? >>
riattaccò l’altro
all’improvviso, sollevando lo sguardo e raddrizzandosi contro
la scrivania –
gli si era addormentata una parte del fondoschiena -, cercando, al
tempo
stesso, di non sfiorare l’altro << Penso
che chiunque abbia occhi per
guardare e possegga un cervello in grado di interpretare
gli impulsi visivi, possa facilmente giungere alle tue stesse
conclusioni
che, anche se non vuoi rivelare, per buona educazione o che altro
– non mi
interessa -, sono le stesse a cui giungo io ogni volta che mi capita di
guardarmi allo specchio. >> sbatté
le palpebre e sorrise quasi dolcemente,
di fronte all’espressione basita di Derek.
<<
Cosa? Pensi che non sia
in grado di farmi un’autoanalisi? >> domandò
di nuovo, fortemente
ironico.
Aspro.
<< … >>
Derek aprì e chiuse la
bocca senza riuscire a connettere il cervello e parlare.
Spencer aveva già mostrato un certo…caratterino,
in determinate situazioni…ma mai con lui.
Aveva avuto qualche problema con Prentiss, certo, ma era in un periodo
particolare della sua vita e lei era la più attaccabile
perché nuova.
<< Ora, la mia
domanda, Morgan, è solo una. >> lo
guardò fisso negli occhi,
mostrandogli l’indice, come per sottolineare che
l’intera questione si basava
su quell’unica domanda.
<<
Quando? >>
Il nero lo guardò con ostentata confusione.
Spencer gli diede il tempo di riprendersi. Poteva ben capire che
vederlo
scattare così, dopo che si era costruito la fama di mite per eccellenza, creava degli
scompensi.
<<
Quando…? Cosa, quando? >>
domandò, infine, Derek,
cercando di soffocare il più possibile
l’esitazione nella voce. Non riusciva a
capire dove l’altro volesse andare a parare. Mantenne lo
sguardo su quel viso pallido,
pulito, caratterizzato da tratti leggermente infantili, induriti dalla
determinazione del momento.
Si rese conto di quanto Spencer sembrasse
giovane. Ancora più giovane della sua
età. Aveva ventisette anni, ma, per
lui, ne avrebbe sempre dimostrati ventiquattro.
Il ragazzino addolcì i lineamenti, come se fosse rimasto
intenerito dal
disorientamento di Derek.
<<
La mia domanda è: quanto
tempo ci impiegherai, tu, ad
andartene? >>
Il tono di voce quasi mellifluo ed il leggero sorriso nato sulle
labbra, ebbero
la capacità di dare un significato particolarmente
minaccioso, alla domanda.
Andarsene?
Perchè avrebbe dovuto andarsene? Dove?
<<
Sinceramente, non
capisco dove vuoi arrivare… >> sospirò,
il collega, cominciando a
sentirsi veramente stanco.
<<
Se ne vanno tutti,
Morgan. Tutti. Senza eccezione. >>
il sorriso di Spencer
si allargò ulteriormente.
<<
Reid, di chi stai
parlando? Perché dovrei andarmene? >>
Derek fissò il sorriso dell’altro, sentendosi in
parte assoggettato ad esso.
Pensò che non aveva mai visto un sorriso più strano.
Statico.
<< Se ne vanno
tutti e tu non fai eccezione, Derek
Morgan. >>
continuò
l’altro.
Il modo in cui marcò il suo nome gli fece venire in mente
Garcia.
<<
Non ti attraggo
fisicamente e, fidati quando ti
dico
che non ti attiro nemmeno mentalmente. >> esitò
un istante, prima di
continuare.
Il sorriso si spense di colpo. Brutto
segno.
<<
E’ solo un capriccio.
Vuoi quello che non puoi avere e lo vuoi subito.
Per questo mi hai scritto quel biglietto? Per renderti più
convincente? Non
sono una ragazzina sprovveduta che crolla ai tuoi piedi non appena mi
mostri il
tuo sorriso. >>
un
fiume di parole cominciò ad uscire dalle labbra del profiler
che, man mano che
parlava, sembrava alterarsi sempre di più.
Derek, dal canto suo, lo fissava come se all’improvviso gli
fossero spuntate
delle antenne sulla testa, ben conscio del fatto che se Spencer gli
fosse
saltato addosso, offrendosi su un piatto d’argento, si
sarebbe sentito di gran lunga meno
sconvolto.
Almeno, in una situazione come quella, avrebbe saputo reagire.
Era convinto di essersi perso un pezzo, comunque.
Come aveva fatto, Reid, a passare da uno stato di calma
pacifica ad uno di incazzatura
galattica nel giro di poco più di una manciata di
secondi?
Non sapeva cosa dire, ma sapeva che doveva assolutamente intervenire
prima che
la faccenda degenerasse. Almeno, con le donne era così: se
si sentivano sicure
e cominciavano a prendere piede nessuno era più in grado di
fermarle.
<<
Aspetta…che… >>
cominciò, sollevando le
mani, come per farsi scudo da quelle parole.
Ma Spencer non sembrava essere propenso a lasciarlo parlare, anzi,
sollevò
addirittura la voce e portò di nuovo indietro le mani,
poggiandole con un tonfo
alla scrivania.
<<
Ma quanto tempo
resisteresti, con me? Quanto tempo ci metteresti a
scappare? >>
fece
una pausa, aprendo e chiudendo la bocca come se, improvvisamente, gli
fosse
sparita la voce <<
E anche se tu volessi restare con me…te ne
andresti…spariresti
anche tu.. >>
la
voce gli si incrinò improvvisamente e abbassò il
viso <<
Non… >>
<< MALEDIZIONE,
SPENCER! >>
Il ringhio minaccioso e l’improvviso fracasso della tazza di
thé che si
spaccava contro il pavimento, ebbero il potere di annichilire del tutto
il
ragazzino.
Il cuore gli balzò in gola con una tale violenza da fargli
temere un infarto.
La vista gli si annebbiò, le ginocchia gli cedettero di
schianto, tanto che fu
costretto a far forza sulla scrivania, per rimanere in piedi.
Nella sua mente rimbombava un solo e unico pensiero: Derek
si è arrabbiato. Stavolta sul serio.
Non riuscì a guardarlo in faccia e si
concentrò a cercare di rallentare la
respirazione senza, per altro, riuscirci.
Cercò di deglutire.
Anche quello fu difficoltoso, ma solo perché sentiva uno
strano groppo fermo
nell’esofago. Gli dava l’impressione di aver
ingoiato una manciata di
fazzoletti di carta.
Spostò lo sguardo verso sinistra e lì, per terra,
non troppo distante dal suo
piede, c’erano i resti della tazza, insieme ad una pozza
semitrasparente di
liquido ambrato. Si accorse di vedere sfocato e sbatté le
palpebre,
accorgendosi solo in un secondo momento che non era il panico ad
offuscargli la
vista…bensì le lacrime.
<< Adesso parlo
io e tu aprirai bene le orecchie, ragazzino! >>
la voce aggressiva di
Derek gli aggredì nuovamente l’udito, facendogli
socchiudere gli occhi, in
segno di automatica remissività. Ebbe cura di tenere
giù la testa e, sebbene la
tentazione di pulirsi via le lacrime dagli occhi fosse forte,
rinunciò a farlo,
semplicemente perché non riusciva a muoversi. Ogni suo arto,
ogni suo muscolo
era come intorpidito dalla paura.
<<
Se credi che per me sia
stato facile scrivere un biglietto simile, ti sbagli di
grosso, mio caro! Pensi che sia solo un ragazzo viziato che si diverte a mirare prede
impossibili per farle cadere ai suoi piedi e poi buttarle via?! Mi
credi davvero capace di una cosa
simile? Hai
proprio sbagliato persona, ragazzino!
Pensi che io sia immaturo a reagire così? Beh, allora
conosco qualcun altro che
mi può fare un’ottima concorrenza. Scendi da quel dannato piedistallo su cui sei salito e
vedi di aprire gli occhi e
focalizzare l’attenzione oltre le mura del tuo piccolo mondo
e allora – solo allora
– ti accorgerai che la
realtà che ti circonda è composta da persone che hanno sofferto e soffrono
come, e, forse, più di te! >>
Le parole di Derek erano fredde. Dure. Severe.
Con un sussulto al cuore, Spencer si rese conto solo in quel momento
che, se
mai Derek avesse provato davvero
qualcosa
per lui, quel qualcosa, di
qualunque
natura fosse, era sicuramente sparito.
Spazzato via.
Ed era stato lui.
Era tutta colpa sua.
Il nodo alla gola divenne tanto intenso da fargli pensare che non se ne
sarebbe
mai più liberato.
La pressione alle tempie aumentò.
Il silenzio si estese tra di loro.
Un silenzio brutto. Di attesa.
Un attesa che, si sapeva, avrebbe portato inevitabilmente alla distruzione.
Sia Spencer che Derek sembravano non sapere più cosa dire.
Cosa aggiungere.
Come spiegarsi.
Era chiaro che non sarebbero mai riusciti a capirsi.
E ora, il vuoto li divideva.
Non si sentiva nemmeno più il ticchettio della pioggia
contro il vetro.
Il nero aveva il cuore in tumulto.
Moriva dalla voglia di fargli
capire
quello che realmente provava a quel ragazzo diffidente che aveva
davanti, ma
non sapeva come fare. Avesse potuto, avrebbe trasferito ogni singolo
sentimento
nel cuore dell’altro, pur di fargli anche solo vagamente intuire qual era la portata del legame
che lo aveva spinto ad agire
in quel modo così poco da lui.
Era frustrato.
Ed era anche furioso.
Di quella furia che deriva dalla delusione.
Spencer, tra tutti, era quello che lo conosceva meglio e se ne era
uscito con
quelle espressioni infelici nei suoi confronti.
Come poteva pensare cose simili,
di
lui?
Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto prenderlo a schiaffi, in quel
momento.
Mentre osservava il capo chino dell’altro, si rese conto che,
sì, aveva sbagliato.
Aveva sbagliato tutto, dall’inizio alla fine.
Aveva interpretato male quelle emozioni che gli ribollivano dentro.
Non provava niente, per Spencer Reid.
<<
…lasciamo perdere…penso
che sia un bene per entrambi… >> commentò
lentamente, a voce bassa,
molto più pacata rispetto a prima, come se tutta
l’ira che provava si fosse
concentrata e neutralizzata nei semplici gesti di spaccare quella tazza
e di
investire l’altro di parole.
Gli occhi scuri non abbandonarono mai il collega più
giovane.
Lo vide rimanere immobile per diversi secondi, aggrappato alla
scrivania come
un naufrago al proprio legno.
Poi Spencer sembrò recepire le parole che aveva detto e
sollevò appena la
testa, evitando con un accuratezza invidiabile il suo sguardo.
Alzò la sinistra,
staccandola dalla scrivania quasi con sforzo, e se la portò
al viso, come per
grattarsi un occhio, riavviarsi la frangia, o…
…asciugare delle lacrime.
Alla fine, il ragazzino alzò completamente lo sguardo e lo
fissò più o meno
apertamente, tirandosi indietro le ciocche castane con la stessa mano.
Rimase
immobile per un istante, con la mano sulla testa e i capelli tirati
indietro.
Derek ebbe una chiara visione del suo volto.
Un sorriso opaco e un << Ok…
>>
stiracchiato,
misero fine a quel
discorso. Al quel breve, seppur intenso,
capitolo della loro vita.
E, in un attimo, i pochi centimetri che li separavano erano divenuti miglia.
Derek osservò l’altro sfilarsi da quel piccolo
interstizio che aveva occupato
fino a quel momento, scavalcando con un’insolita e silenziosa
grazia i pezzi di
ceramica frantumati.
Era la cosa più giusta.
Non poteva andare diversamente.
Spostò lo sguardo verso la scrivania vicina a
quella di Reid.
Una volta era di Emily Prentiss.
Si ricordava chiaramente di quella che era stata una collega e
un’amica.
Una profiler più che in gamba, che aveva nascosto per anni
più di quanto tutti
loro potessero sospettare.
Gli ultimi momenti trascorsi con lei erano impressi a fuoco nella
memoria di
Morgan.
Che fine ha fatto, Derek?
Era morta.
Alzò gli occhi, trovandosi a guardare anche gli uffici messi
in fila, di
Jennifer Jerau, Aaron Hotchner e David Rossi.
Quello di Jennifer Jerau – detta JJ – era vuoto.
Perché?
Era stata trasferita.
Era stata costretta a lasciarli.
E l’ufficio di David Rossi di chi
era,
prima?
Era stato di Jason Gideon, il mentore di Spencer.
Il mentore di un po’ tutti, a dire il vero.
Si volse a guardare la schiena di Spencer, che si stava chinando in
avanti,
davanti alla scrivania, così vicino a lui che avrebbe potuto
sfiorarlo muovendo
il braccio di pochi centimetri.
Lo vide chiudere il libro con il biglietto infilato in mezzo. Poi lo
osservò
raddrizzarsi e, senza guardarlo, girarsi con il chiaro intento di
allontanarsi.
Spencer aveva pianto, alla morte di
Emily.
Aveva ceduto sotto il peso della consapevolezza di aver perso
l’ennesimo
sostegno e si era letteralmente sciolto.
Si rese improvvisamente conto che, come non avrebbe mai
dimenticato le
ultime parole scambiate con Emily, allo stesso modo non avrebbe mai
dimenticato
la sensazione che aveva provato nel vedere Spencer abbracciare JJ, alla
ricerca
anche solo del misero, antico, bagliore di sicurezza che lei riusciva
sempre ad
infondergli quando lavorava con loro. E non avrebbe mai dimenticato
quelle
lacrime trasparenti che gli scivolarono giù, lungo le guance
scavate.
Spencer si girò verso l’uscita.
Quella giornata era finita, finalmente.
Una giornata lunga, stressante e
poco
fruttuosa, in un certo senso. Si sentiva svuotato.
Mosse un paio di passi verso la porta a vetri che lo avrebbe condotto
all’ascensore,
ma si fermò è ritornò indietro, verso
la scrivania.
Si appoggiò con una mano al piano di legno e si
piegò ad afferrare la tracolla
della borsa che si portava sempre appresso, che era rimasta per tutto
il giorno
seminascosta vicino al cestino.
Si rendeva perfettamente conto di dare l’impressione di uno
che si muoveva con
l’imbarazzo di chi avrebbe voluto essere da tutta altra
parte, piuttosto che
lì.
In quel momento niente lo avrebbe
messo più a disagio che stare nella stessa stanza con Derek.
Si sentiva male.
Mortificato e ferito.
Decise che, prima di uscire, si sarebbe fermato un momento al
distributore
di bevande per prendere una bottiglia
d’acqua…magari sarebbe riuscito a buttare
giù quel nodo che gli serrava la gola insieme a tutta
l’amarezza che quella
giornata gli aveva messo dentro.
Si raddrizzò e si appese la borsa alla spalla destra.
Allungò la mano, con
l’impulso di spegnere la luce della scrivania, ma si
trattenne, non sapendo
cosa volesse fare il collega.
Chi occhi verde scuro gli caddero sul libro, chiuso, sopra i fascicoli.
Lo prese.
“Prova
ancora.
Fallisci ancora.
Fallisci meglio.”
Lo sguardo
guizzò in alto, oltre la salita, verso l’ufficio
di David Rossi che, una volta,
era stato di Jason Gideon. Per un attimo gli parve di vedere la sua
sagoma
sulla soglia, che gli sorrideva rassicurante.
Tirò su col naso e si girò verso Derek che,
immobile, teneva lo sguardo fisso
sui frammenti di tazza per terra, come se in essi potesse trovare la
speranza
di ricostruire qualcosa.
Qualcosa di buono.
Un momento, un frammento,
una vita.
I pugni serrati lungo i fianchi comunicavano un senso di rabbiosa
rassegnazione. E orgoglio.
In ogni caso, Spencer sapeva che non appena avesse varcato quella
soglia a
vetri, tutto sarebbe tornato come prima e la sua famiglia
sarebbe rimasta integra e protetta.
Guardando Morgan e i frammenti di ceramica, si sentì orribile. Si sentì come un distruttore.
“Avevi
ragione. Non serve un’arma, per uccidere.”
No.
Molto spesso bastano solo le parole.
Azioni.
Gesti.
Sguardi.
Persino il silenzio.
Talvolta erano proprio le cose non fatte, che uccidevano.
E se il sangue era l’unico sfogo di una ferita fisica, le
lacrime erano l’unica
soluzione per lenire il grido silenzioso dell’anima.
Derek volse la
testa e seguì con lo sguardo la figura di Reid che si
allontanava.
Si staccò dalla scrivania e, semplicemente, gli
andò dietro, raggiungendolo nel
giro di due passi.
“Non
sapere cosa si prova è diverso dal non sentire
nulla…”
Allungò la mano e lo afferrò per il braccio
destro, all’altezza del gomito.
Con uno strattone, nemmeno tanto forte, lo convinse subito a girarsi
verso di
lui e la borsa gli cascò giù dalla spalla,
fermandosi sulla mano di Morgan che,
senza commentare, la prese e la sfilò dal braccio
dell’altro, facendola cadere
a terra con un tonfo secco, senza troppo riguardo.
Spencer lo guardò.
Sorpreso.
Triste.
Allarmato.
Gli occhi, seminascosti dalle ciocche di capelli che ricadevano davanti
al
viso, erano resi languidi da lacrime represse che, probabilmente, mai
avrebbero
trovato sfogo.
Con un gesto lento, quasi calcolato,
Derek passò la sinistra tra le ciocche castane, tirandole
indietro con estrema
calma, scoprendo con lentezza ogni centimetro di quel viso.
Un bel viso, realizzò
in quel
momento.
Lo osservò.
Lo analizzò con una tale accuratezza da mettere a disagio il
giovane profiler
che, insicuro, tentò di indietreggiare di un passo.
Tornò a stringerlo per il braccio, in modo da impedirglielo,
mentre affondava
gli occhi neri in quelli più chiari di lui.
<<
Non piangere… >>
bisbigliò, quasi un
sospiro che si dissolse istantaneamente, raggiungendo a stento le
orecchie dell’altro.
<<
Non lo faccio… >>
si sentì sussurrare, in
risposta.
Derek fece scivolare via la mano dai capelli, scendendo ad
accarezzargli
delicatamente la guancia incavata.
<<
Ma vorresti. >>
sfiorò
con il
polpastrello del pollice le ciglia nere, bagnate di frammenti di
lacrime trattenuti
e imprigionati. Catturò una singola gocciolina salata, che
si disperse subito,
a contatto con la sua pelle, quasi fosse stata assorbita.
Scese, con le dita, ad accarezzare la linea delicata del naso,
accorgendosi
solo in quel momento di quanto fosse fine.
Perse qualche secondo ad osservarlo e, alla fine, arrivò
alle labbra.
Delicate. Rosate. Di certo non molto carnose, ma perfette
nella loro armonia.
Erano belle…
Derek non seppe dare un senso, a quello che provava.
Ma, in quel momento, comprese che non aveva importanza nemmeno quello.
Come si bacia un uomo?
Osservò quella bocca, critico.
Ci passò sopra il pollice, guardandola sbiancare
là dove toccava.
Spencer non si mosse, ma Morgan poté facilmente percepire il
battito cardiaco
accelerare, grazie alle altre dita piazzata in prossimità
della giugulare.
Notò che le labbra non si ricolorivano immediatamente, come
facevano quelle di
quasi tutte le donne che aveva incontrato e conosciuto.
Queste facevano fatica a tornare del loro colore originario, come se
non ci
fosse abbastanza sangue nel corpo.
Queste erano diverse.
“Un giorno
capirai che cosa ti ha lasciato dentro.”
Ma come si bacia un uomo?,
si ritrovò a chiedersi per l’ennesima volta.
Sarà diverso che baciare una donna?
Senza sapere la risposta, rinsaldò la presa sul braccio
tirandolo
impercettibilmente verso di sé.
Passò di nuovo il pollice sulle labbra e sorrise appena.
Una donna avrebbe già saputo cosa
fare.
Una donna avrebbe tirato fuori la punta della lingua, in
risposta al suo
tocco.
Un invito.
Spencer, invece, sembrava impietrito.
Teneva le labbra leggermente socchiuse - più per respirare
meglio, che per
provocazione – e lo fissava con gli occhi grandi come
piattini da caffè.
Era dotato proprio dello sguardo da cerbiatto smarrito.
Aveva la netta sensazione che, se avesse cercato di baciarlo, sarebbe
svenuto.
Ma non gli importava nemmeno di quello.
Il ragazzino era incerto, riguardo alle intenzioni del collega.
Una parte di lui lo stava mettendo in guardia e gli stava suggerendo
che non
era un atteggiamento normale, quello.
Mantenne gli occhi fissi su Derek, cercando di regolare la respirazione
senza
andare in iperventilazione. L’altro sembrava completamente
assorto, lontano
mille miglia: dava l’impressione di star nuotando in una
miriade di pensieri
viscosi che lo tenevano imprigionato.
Spencer avvertiva chiaramente la presa sul braccio –
abbastanza salda da
convincerlo ad abolire ogni tentativo di allontanamento – e,
se già di per sé
la riteneva imbarazzante, non era nulla,
se paragonata alla sensazione di disagio che gli trasmetteva quel
singolo dito
sulla bocca.
Cominciò a sentire caldo alla faccia e si domandò
se stesse davvero arrossendo
come una ragazzina o se si trattasse solo un’illusione.
Agisci prima che sia troppo tardi!
<<
Ehm…Mo-Morgan… >>
cominciò, con una voce
così flebile che non era nemmeno sicuro di aver realmente
parlato. In ogni
caso, non aveva la più pallida idea di come andare avanti.
Derek, dal canto suo, lo ignorò sfacciatamente,
forse perché troppo impegnato a registrare la sensazione
delle labbra che si
muovevano sotto il polpastrello.
Spencer si prefisse un nuovo proposito: cercare di parlare senza
muovere troppo
la bocca.
Tentò di inventarsi qualcos’altro da dire, ma
l’altro lo distrasse cominciando
a tastargli le labbra con decisione, ma con aria quasi guardinga, come
se si
aspettasse una reazione simil violenta.
Ne rimase infastidito.
Non erano mica pongo!
Se non fosse stato sull’orlo di un infarto, probabilmente
avrebbe riso.
Vedere Morgan che giocava con la sua bocca come se non ne avesse mai
vista una
prima di quel momento, doveva essere uno spettacolo decisamente
simpatico.
Avrebbe potuto anche prenderlo in giro a vita.
Ma la cosa meno simpatica, in quel momento, era il
chiaro presentimento che gli stesse sfuggendo di mano la
situazione.
Doveva fare qualcosa.
Contrasse il viso in una smorfia quando l’altro gli
pressò con poca delicatezza
il labbro inferiore.
<<
Ahia…! >>
protestò, rauco a causa
del groppo ancora presente in gola che, nel frattempo, sembrava aver
deciso che
stava troppo bene lì per levare le tende.
Un lampo di irritazione gli irrigidì i tratti, mentre
cercava di ritrarre la
testa, portando la bocca fuori dalle grinfie del nero.
L’atteggiamento di Derek era ambiguo, certo, ma aveva anche
una spiegazione che
a lui non piaceva: stava cercando di prendere coraggio.
La definizione corretta era: stava
temporeggiando.
Ma sembrava sempre più sicuro ad ogni secondo che
passava.
<< Morgan,
basta. Devo andare. >>
cercò di essere deciso, e tentò di
indietreggiare di un
passo ma, non appena il collega percepì
quest’intenzione, la stretta al braccio
si fece, se possibile, ancora più salda e lo
attirò verso di sé, tanto vicino
da lasciarlo senza fiato.
L’unica cosa che gli venne da pensare fu che il suo adorato spazio vitale, ormai, era andato a farsi
decisamente benedire.
<<
Mi fai male… >>
tentò ancora,
rilassando il braccio senza più tentare di liberarsi. Forse,
in questo modo,
l’altro avrebbe allentato la morsa.
Derek sembrò non sentire nemmeno una parola.
Non ce la faceva.
Non recepiva.
<< Non puoi
andartene… >> biascicò,
invece, facendo scivolare la mano lungo la guancia liscia del
più giovane.
<<
Sì…anzi…devo…
>>
Spencer strattonò improvvisamente,
cercando di liberare il braccio, senza risultati.
Si stava agitando e l’altro ne comprendeva il motivo.
Sembrava ansioso di scappare.
Probabilmente era terrorizzato. Ma non da lui. Non da quello che
avrebbe potuto
fargli.
Era la prospettiva di veder cambiare
il loro rapporto, a fargli paura.
Sospirò, guardando quello che, per lui, era ancora un ragazzino.
Strano ma vero, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla sua bocca
per più
di qualche secondo. Sembrava ipnotizzato.
Osservò il viso pallido e provato da un dolore a stento
trattenuto…e capì
cosa doveva fare.
Abbassò lo sguardo sul libro che l’altro teneva
ancora in mano.
Lo afferrò e glielo tirò via, per poi lasciarlo
cadere a terra, come la borsa.
Senza riguardo.
Il libro si aprì su delle pagine a caso e il biglietto,
scritto da Derek
stesso, scivolò lateralmente di qualche centimetro,
lasciando intravedere di sé
solo un triangolino candido.
Spencer guardò il volume sul pavimento con espressione a
metà tra l’allibito e
lo sconcertato. Era chiaro che il suo cervello – che di
solito era dotato di
una fluidità di pensiero fuori dal comune – si era
inceppato.
<<
Scusami… >>
gli
sussurrò Derek all’orecchio.
Spencer volse lentamente lo sguardo verso di lui, senza, tuttavia,
mostrargli
il viso intero, ma continuando a tenerlo ruotato di qualche grado verso
destra.
<<
…. >>
intuiva che quello
“scusami” era riferito, sì, alla
situazione di prima, ma anche a qualcos’altro <<
...per cosa..? >>
bisbigliò, esitante, in
risposta.
La risposta arrivò subito dopo.
La mano di Derek si spostò dalla guancia alla gola, con
delicata scioltezza, e
applicò una pressione lieve, ma decisa, verso
l’alto, in modo da fargli
sollevare appena il viso.
<<
Mor… >>
Derek inclinò la testa verso sinistra e azzerò la
distanza che separava i loro
volti.
Spencer non si rese conto immediatamente di quello che stava
succedendo.
Sapeva solo che, ad un tratto, il viso di Morgan era così
vicino che poteva
tranquillamente percepire l’odore maschile della sua pelle.
Socchiuse gli occhi, cercò di parlare e, paradossalmente,
fu solo in quel momento che si rese improvvisamente conto di avere la
bocca…impegnata.
Ordinò alle proprie gambe di muoversi: niente.
Provò con le braccia: niente.
Il cuore cominciò a pulsargli così forte da
fargli male e poté
percepire il sangue scorrere in ogni singola vena e
arteria del corpo, informicolando le estremità degli arti.
La cosa peggiore erano i pensieri.
Non riusciva a concludere nulla di sensato.
Non era nemmeno sicuro di star pensando qualcosa – il che,
già di per sé, era grave
-.
In conclusione: Derek Morgan lo stava baciando
e lui non aveva la benché minima
idea
di cosa fare.
Derek, dal canto suo, riteneva di essere ben
lontano dal bacio vero e proprio, come lo intendeva lui.
La vicinanza a Spencer gli trasmise una sorta di scarica elettrica in
tutto il
corpo che gli rese difficile trattenersi dallo stringerlo a
sé con più forza.
Si accorse che il ragazzino non aveva odori.
Per meglio dire, era come se la sua pelle non avesse mai conosciuto un
profumo.
Era completamente naturale.
Mosse molto lentamente le labbra sulle sue, schiudendole appena e
richiudendole, con il solo scopo di assaporarle, e intanto
inspirò a fondo.
Sì, aveva un odore fragile, forse
leggermente alterato da quello del detersivo usato per lavare la
camicia.
Non ne era sicuro, ma avvertì chiaramente il
bisogno di sentire Spencer in ogni
sua parte.
Per sopraffare quell’impulso che, di certo, avrebbe avuto
esiti a dir poco disastrosi,
premette più forte le labbra
contro quelle dell’altro, concentrandosi con tutte le forze
su quello che
sentiva.
Paragonò le sensazioni a quello che aveva provato tante volte con delle esponenti del
sesso femminile.
Qual era la prima differenza che gli veniva in mente?
L’assenza di rossetto, lucidalabbra e burro di cacao vari.
Questo, a sua volta, cosa implicava?
L’assenza del gusto dolciastro e
pastoso,
tipico di quei prodotti.
Sì, perché, di norma, un maschio,
quando baciava una donna tentava sempre
di “mangiarsi” letteralmente il rossetto per poter
arrivare al reale gusto
delle labbra.
Ovviamente erano tutte vane speranze, specialmente perché
alcuni rossetti
sembravano esser fatti proprio per resistere agli assalti maschili.
Le labbra di Spencer non erano così.
A dire il vero, le labbra di Spencer non avevano assolutamente nulla di speciale.
Ma erano belle.
Più belle e saporite di tutte le labbra che aveva avuto modo
di assaggiare e
guardare fino a quel momento.
Non avevano un gusto particolare, ma erano addolcite, probabilmente,
dal thè
zuccherato che aveva bevuto prima.
Si trattenne dal sorridere e mosse le dita in alto, verso la guancia,
seguendo
la linea netta della mascella.
Solo a quel punto si rese conto che Spencer sembrava impietrito.
Non aveva praticamente fatto caso al fatto che non aveva nemmeno mosso
le
labbra - a parte all’inizio, per la sorpresa probabilmente -
e che, tutt’ora,
le aveva rigide.
Ogni muscolo di quell’esile corpo sembrava essere sul punto
di spezzarsi, a
causa della tensione.
…forse, in effetti, aveva anche smesso di respirare da un
po’.
Conscio del fatto che, se non si fosse fermato, di lì a
breve si sarebbe
trovato a sostenere il peso morto dell’altro,
assaporò per un’ultima volta
quella bocca immobile e si distaccò lentamente, riaprendo
gli occhi.
Fu come svegliarsi da un sogno.
Spencer, però, non sembrò pensarla allo stesso
modo, perché, non appena l’altro
si staccò, lo guardò a lungo, in maniera inquietantemente
fissa.
Non si era mosso di un millimetro.
Derek cercò in tutti i modi di rimanere serio.
<<
…respira. >>
gli suggerì, dandogli
una stretta al braccio, nel tentativo di riscuoterlo dal suo stato
catatonico.
E Spencer lo fece.
Come il vecchio motore di un mezzo di trasporto, che ha bisogno di
essere
incoraggiato a partire, così, il ragazzino,
boccheggiò tre, quattro volte, per
poi inspirare a fondo ed espirare subito.
Ripeté quel processo di ossigenazione per qualche istante,
mentre i polmoni
cercavano di riprendersi.
A quel punto, Morgan rise e si beccò, in risposta,
un’occhiata risentita.
La furia che aveva percepito fino a pochi attimi prima sembrava essersi
letteralmente dissolta nel nulla. Quel bacio aveva avuto il potere
di…alleggerirlo, in un
certo senso.
<<
Perché…? >>
sussurrò Reid.
Derek lo guardò in volto, tornando serio.
<<
Perchè…questo bacio…?
Devi essere più confuso del previsto… >> la
voce di Spencer tremava impercettibilmente.
Che cosa devo fare?, urlava la sua
mente, in continuazione.
<<
Non sono confuso…e
penso che tu lo sappia. Anzi…penso che tu stia cercando di
rifiutarmi perché
hai paura di quello che potrebbe
succedere se ti lasciassi andare. >>
Il ragazzino distolse
lo sguardo, allontanandosi dalla mano di Derek che gli accarezzava la
guancia.
<<
… >>
per un attimo sembrò
non sapere cosa dire << …devo
proteggere la mia famiglia, Derek…non puoi
chiedermi questo. >>
soggiunse, infine, con voce flebile.
L’aveva chiamato Derek,
esattamente
come lui l’aveva chiamato Spencer quando
si era arrabbiato.
<<
Non farei nulla che
possa nuocerti… >>
sussurrò il nero.
Nulla che possa nuocerti.
Non me ne andrò. Non mi allontanerò da te,
credimi.
Spencer sollevò lo sguardo, lentamente.
Sorrise e una lacrima gli scivolò lungo la guancia sinistra.
Derek realizzò in quel momento che quello era il sorriso
più triste che avesse
mai visto, durante
tutti i suoi trenta e passa anni di vita.
E realizzò anche quanto gli
facesse
male vederlo piangere di nuovo.
Una lacrima di puro dolore.
Lo stava uccidendo lentamente.
Gli occhi di Spencer sembravano particolarmente scuri, in
quel momento. Ma
il messaggio che cercavano di inviare era chiaro come il sole e
bruciante come
fiamma viva.
Smettila, ti prego.
Lo stava implorando di smetterla, perché la
sofferenza che avvertiva nel
doverlo rifiutare aveva la capacità di fargli sanguinare
il cuore.
Derek Morgan capì.
Aprì la bocca per parlare, ma si trovò la gola
tanto chiusa che a stento
riusciva a respirare…e poi, comunque, non avrebbe saputo
cosa dire.
Abbassò lo sguardo, rendendosi conto di stare ancora
stringendo il gomito del
più giovane. Allentò del tutto la presa e
risalì lungo il braccio fino alla
spalla, per poi tornare giù, in una lenta carezza.
Vorrei poter fare qualcosa.
Ma non poteva fare nulla.
Nulla, se non fargli sentire la sua vicinanza.
Con la sinistra tornò ad accarezzargli il viso emaciato e
pallido.
Sembrava decisamente provato.
Gli deterse via la lacrima che, tuttavia, fu presto sostituita da altre
due.
Non aveva espressione, Spencer.
Pareva piangere dolore puro, senza contrarre in alcun modo i
lineamenti, come
se si limitasse a lacrimare.
Dio, quanto gli faceva male vederlo così.
Morgan distolse le sue attenzioni dal braccio e gli fece scivolare la
mano
dietro la schiena, con lentezza, attirandolo a sé.
La distanza che li teneva separati svanì e i loro corpi
entrarono in contatto.
Quindi…tu…mi…mi
vuoi?
La domanda che gli
aveva posto prima Spencer gli rimbombò in testa.
Solo allora si rese conto che avrebbe voluto rispondere
“Sì, da morire”.
L’attrazione mentale, prima o poi, si riflette sempre su
quella fisica.
Gli accarezzò la guancia, bagnandosi le dita di
altre gocce salate.
Poi reclinò la testa verso sinistra e gli fece scivolare la
mano tra i capelli
lunghi, in modo da non farlo fuggire.
Nessun bacio scambiato con una donna l’aveva mai fatto
sentire così triste, angosciato e realizzato
nello
stesso momento.
Dischiuse le labbra e assaggiò per la seconda volta quelle
di Spencer.
Questa volta non lo avrebbe lasciato
andare.
Un brivido gli corse lungo la schiena nel momento in cui
cominciò ad applicare
una leggera pressione, tentando di schiudere la bocca
dell’altro con la sua. Ma
Spencer sembrava essersi di nuovo irrigidito.
Lo sentì cercare di ritrarre la testa e aumentò
appena la pressione sulla nuca,
senza esagerare.
Applicò una forza di contrasto sufficiente a trasmettergli
un senso di possessività,
ma non abbastanza da farlo
sentire obbligato o costretto,
senza via di fuga.
No, non ti farò scappare.
Poi percepì la mano del ragazzino stringersi in maniera
sorprendentemente salda attorno al
braccio con cui gli
aveva circondato la vita sottile, quasi come se fosse lì
lì per piantarci le
unghie.
A quel punto, si distaccò a malincuore da quella bocca,
riaprendo gli occhi.
Spencer lo fissò a sua volta, con il respiro corto e uno
sguardo strano. A metà
tra la rassegnazione, la stanchezza e l’astio.
Mosse le labbra come per parlare, ma non gli uscì nulla, in
un primo momento.
Poi sembrò tirare fuori un sospiro che, solo dopo essere
stato emesso sembrò
concretizzarsi in una parola che a Morgan parve essere “aspetta…”.
Non ne era sicuro e non voleva accertarsene.
No che non aspetto…
Rinsaldò la presa attorno alla vita, stringendoselo addosso,
trasmettendogli
con più chiarezza il senso
dell’impossibilità della fuga.
Poi lo baciò di nuovo.
E, questa volta, Spencer rispose immediatamente.
Infatti, non appena Derek applicò una leggera pressione, lui
socchiuse
diligentemente le labbra, esitante.
Il nero si trattenne di nuovo dal sorridere.
Pensò, con amarezza, che era il bacio più inesperto
che avesse mai sentito in vita sua.
Nonostante Spencer avesse già baciato Lyla – anche
se non era mai stato
accertato era chiaro come il sole quello che era successo –
dava la netta
impressione di essere totalmente vergine sotto ogni
punto di vista.
Derek mise a tacere il tumulto nel suo cuore e inspirò a
fondo il delicato
odore del più giovane, prima di approfittare di quel misero
accesso che gli
veniva dato.
Sapeva che quelle erano fasi cruciali.
Anche se, razionalmente, sapeva che non ci dovevano essere particolari
differenze nel baciare un maschio, anziché una femmina, un
lieve senso di
inadeguatezza continuava a restargli attaccato addosso, come una patina
oleosa.
In secondo luogo, era conscio del fatto di star stringendo tra le
braccia uno
degli individui più…fobici,
insicuri e remissivi
che esistevano sulla faccia della Terra e che, come tale,
cambiava idea alla stregua del bello e del brutto tempo in alta
montagna e, se
ora sembrava essere parzialmente
collaborativo, nel caso in cui si fosse sentito
“aggredito” non avrebbe avuto
remore a dimostrarsi totalmente
recalcitrante.
Non fu facile mettere a tacere tutti i dubbi e le esitazioni.
Ma andò avanti comunque ed insinuò –
con, davvero, tutta la delicatezza
di cui era capace – la lingua oltre le labbra
umide di Spencer che, per un attimo, tremò e aprì
la bocca di mezzo centimetro in
più.
Derek apprezzò lo sforzo, ma decise comunque di prendere in
mano la situazione.
Aumentò di poco la pressione sulla nuca, camuffando il gesto
con una carezza, e
spinse le labbra contro quelle del ragazzino, modellandoci sopra le sue
mentre
approfondiva il bacio, forzando un po’ la mano, certo, ma
sempre con delicatezza
e una certa dose di fermezza che avrebbero potuto, ipoteticamente,
sbloccare
l’altro.
Quando arrivò a sfiorare la lingua di Spencer gli
sembrò ingiusto che non
ci fosse nessuno, lì presente, pronto a
consegnargli un Oscar più che
meritato.
Ma la sensazione di trionfo – data dal puro orgoglio virile -
si dissolse
abbastanza in fretta, sostituita dalla netta percezione di star per
toccare il
cielo con un dito, nel glorioso
momento in cui il suo partner decise che era effettivamente venuto il
tempo di rispondere al bacio.
Gli venne quasi voglia di piangere e non solo per la gioia, ma anche
per
sfogare la tensione accumulata fino a quel momento.
Il groppo che percepiva in gola si strinse improvvisamente, rendendogli
difficile la respirazione.
Un bacio significa molte cose.
Amore
Accoglienza
Assolutezza
Dedizione
Trasporto…
…ma poteva significare anche:
Angoscia
Nostalgia
Dolore
Disperazione
Addio.
Derek Morgan, in
quel momento, stava dicendo “addio” a molte
sfaccettature della sua vita.
Al modo di pensare.
Al modo di sentirsi, come uomo.
Al modo di vedere un collega: non più come un ragazzino da
proteggere, ma come
una creatura da amare.
Non avrebbe detto addio alla sua eterosessualità,
però. Perché era fermamente convinto
che l’attrazione che provava
verso l’altro fosse unica.
Per quanto
avesse provato a cercare, non l’avrebbe ritrovata in
nessun’altra persona,
maschio o femmina che fosse.
Non si soffermò volutamente a pensare che cosa implicasse
quell’ultima presa di
coscienza.
Non gli interessava.
Ma nulla di quello che apprese in quel momento fu in grado di
addolorarlo
quanto la consapevolezza di ciò a cui stava dicendo addio il
suo partner.
Spencer Reid stava dicendo addio ad una sola cosa:
A
lui.
A Derek Morgan
Una
pugnalata dritta al cuore avrebbe fatto di gran lunga meno male.
Con un gesto improvviso si staccò dalle labbra del
più giovane, allontanando il
viso solo di pochi centimetri. Una distanza sufficiente per
permettergli di
guardarlo dritto negli occhi ancora umidi di lacrime.
<<
Non andartene…per
favore… >>
sussurrò. La sua voce,
solitamente ferma e forte, gli sembrò pateticamente fragile,
in quel momento.
Brutalmente spezzata dalla sofferenza e calpestata
dall’ineluttabilità del
destino.
<<
Se te ne vai…non… >>
continuò a fatica,
mantenendo il tono molto basso, assecondando il senso di
intimità che la
semioscurità dell’ufficio donava loro. A stento
percepì la supplica insita
dentro le sue stesse parole.
Spencer cambiò espressione, mentre lo fissava.
Ad un tratto sembrò turbato.
Lo vide sollevare lentamente la mano destra, portandogliela vicino al
volto.
Esitò e lo sentì trattenere il respiro, come se
non fosse sicuro di volerlo
toccare.
Dopo qualche interminabile istante, Derek percepì il tocco
delicato dei
polpastrelli sulla guancia.
Una carezza.
Poi, Spencer, mosse il pollice, strisciandolo lentamente
lungo lo zigomo e
il nero avvertì la sensazione di qualcosa di umido spalmato
sulla guancia.
Capì di stare piangendo.
Il groppo in gola divenne troppo stretto per poterlo trattenere ancora.
Con un sospiro, sbatté le palpebre e lasciò
andare le lacrime.
<<
Sei…sei un figlio di
puttana… >>
sussurrò, con voce
intrisa di una furia tanto dolorosa da trasmettergli una sensazione di
morte
imminente.
<<
Ssshh… >>
Spencer gli accarezzò
le labbra, come per impedire all’insulto di uscire e sporcare
l’aria che li
separava.
Derek percepì il gusto salato delle proprie lacrime e, colto
da un istinto
irrefrenabile, tolse la mano da dietro la nuca e gli afferrò
rudemente il polso,
portandoselo alle labbra.
Non seppe cogliere nemmeno lui il senso di quel gesto, ma Spencer non
reagì
minimamente quando gli leccò la pelle, avido,
a partire dal polso stesso, fino ad arrivare alla punta delle dita
affusolate.
Sulla lingua percepì il gusto forte
che,
di solito, hanno le mani.
Preferì non pensare a quanti batteri si fosse appena
ingoiato e, nello stesso
momento, comprese che, in effetti, non avrebbe davvero potuto
fregargliene di meno.
Il polso è una delle zone in cui si poteva percepire meglio
l’odore della pelle
di una persona, insieme all’incavo del collo. E non
perché erano punti in cui
ci si spruzzava il profumo.
Reid avrebbe saputo dare una spiegazione scientifica a questo fenomeno.
Lui no.
Lui sapeva che era così e basta.
Strinse lapresa così forte da – ne
era
certo – fargli male, ma Spencer
continuò ad osservarlo con aria quasi accondiscendente.
<<
Ti
odio… >> bisbigliò,
rabbioso, cercando in tutti i modi di provocare una reazione qualsiasi.
Ma Spencer sorrise, malinconico e rassegnato.
Per la terza volta, Derek, ebbe l’impressione che le sue
parole fossero state
già previste.
<<
Lo so… >>
si sentì
rispondere.
Mosso da una rabbia cieca, strinse ulteriormente la presa sul polso e
attorno
alla vita, tirandoselo addosso, mozzandogli letteralmente il respiro
– questa
volta non per la vicinanza, ma per ragioni prettamente
fisiche -.
Bruciò tutti i centimetri che li separavano e si
avventò di nuovo sulle sue
labbra, gettando al vento ogni delicatezza, con l’intento,
anzi, di fargli male. Di fargli
provare un briciolo
di quel dolore che gli stava infliggendo così gratuitamente.
Prese possesso di quella bocca con prepotenza, spingendo la lingua
contro la
sua, fregandosene del fatto che l’altro potesse non
apprezzare un tale
trasporto.
A dire il vero, Spencer non fece proprio nulla. Cioè, nulla
di quello che si
sarebbe aspettato.
Infatti lo assecondò.
Lo aveva fatto da quando aveva unito con la forza le loro labbra.
Aveva aperto istantaneamente la bocca e non aveva nemmeno cercato di
allontanarsi. Le labbra erano stranamente morbide, così come
il resto del
corpo.
Si stava lasciando assaggiare un’ultima volta.
Una forma di pietà?
Oppure una forma di autolesionismo?
Forse non era così importante saperlo.
Derek lo baciò con l’urgenza di chi sa di avere
una sola occasione per
trasmettere un messaggio, la foga di chi è certo che non ci
riuscirà e la
tristezza data dalla consapevolezza che quella sarebbe stata
l’ultima volta in
cui avrebbe potuto stringere a sé, in quel modo, Spencer
Reid.
Si smarrì
in quelle labbra, in quella
lingua, in quella purezza che solo lui poteva emanare.
Cercò di carpire, afferrare e interiorizzare il
più possibile, di quel giovane
profiler.
Ma poi, come ogni cosa, anche il suo tempo giunse al termine e fu
costretto a staccarsi
per puro istinto di sopravvivenza.
Gli bruciavano i polmoni e aveva un dolore sordo al cuore.
Non appena si fu allontanato di qualche centimetro, inspirò
avidamente ed
espirò subito, esattamente come aveva fatto il collega,
quelle che sembravano ore prima.
Spencer, per un momento, sembrò far fatica a stare in piedi,
forse anche perché
gli si era oscurata la vista per l’abbassamento di pressione
e la penuria di
ossigeno.
Derek avrebbe preferito morire, in
quel bacio.
D’altronde, se avesse dovuto scegliere la morte fisica o la morte dell’anima,
avrebbe scelto la prima, senza pensarci due volte.
Strizzò gli occhi e abbassò la testa, permettendo
ad altre lacrime di rigargli
le guance.
Da
quanto tempo non piangeva?
Spencer
gli toccò di nuovo il viso, con entrambe le mani, stavolta.
Gli accarezzò le guance, percorrendo la pelle mulatta con
una dolcezza e
un’innocenza disarmante.
Alle lacrime di Morgan reagì piangendo a sua volta, come
prima, senza mutare
espressione.
Anzi, quando riuscì a catturare lo sguardo
dell’altro, sorrise di nuovo, incoraggiante.
“Possiamo farcela”, sembrava voler comunicare.
Poi fece un passo indietro.
E un altro.
Troppo tardi, Derek, si accorse di aver allentato la presa e di averlo
lasciato
andare.
Svuotato di ogni energia, osservò Spencer chinarsi con
cautela e afferrare la
tracolla, tirandosela sulla spalla.
Poi prese anche il libro.
Infine si raddrizzò e lo guardò.
“…E
quando succederà…sono tre le cose che devi
sapere”
Spencer distolse lo
sguardo da Morgan, trasmettendo un senso di assoluta definitività.
Poi cominciò ad avanzare.
Derek avrebbe voluto fare molte
cose,
in quel momento.
Ma non ne fece nessuna.
E Spencer gli passò accanto con la stessa indifferenza con
cui si oltrepassa la
soglia di una porta.
“Hai
fatto quello che dovevi…”
<< Reid? >>
Il più giovane si fermò
in prossimità della porta vetri, rimanendo immobile, senza
voltarsi a
guardarlo.
Derek rimase a sua volta di schiena, il capo chino e le mani strette a
pugno,
sul suo corpo ancora l’odore di Spencer e, in bocca, il gusto
delle sue labbra.
Tutto inutile…
Strinse i denti e serrò gli occhi.
<<
Vai a fare in culo,
Reid. >>
Spencer esitò, portandosi la mano agli occhi e asciugandosi
altre lacrime,
impedendo loro di definire meglio il solco che avevano fatto le sorelle.
<<
Buonanotte, Morgan… >>
“…e
tante brave persone sono vive, per questo”
Quella voce esitante e rotta bloccò il ragazzino con la mano appoggiata alla maniglia della porta a vetri.
<< …Sì..? >> sussurrò al vuoto che li separava.
<< …Voglio che tu sappia che non smetterò di darti la caccia e tormentarti, fino a quando tu – per sopravvivenza o perché ne sarai davvero convinto, non mi interessa – non sputerai fuori quel dannato “sì” che hai impigliato in gola. >>
<< …… >>
<< Lo sai che io mantengo sempre le mie promesse, vero? >>
<< …Lo so, Derek. >>
Quando Spencer Reid spinse la porta a vetri, inoltrandosi nel corridoio illuminato, verso l’ascensore, aveva le labbra incurvate in un sorriso vacuo, ma sereno.
Finalmente, quella sera era giunta al termine.
Se ne sarebbero tornati a casa entrambi, lui e Derek.
Ognuno con il proprio dolore e la propria speranza, nel cuore.
Entrambi con la stessa identica voragine nel petto.
Spencer premette il tasto del piano terra e osservò le porte dell’ascensore chiudersi lentamente, come un sipario che scende a concludere lo spettacolo, frapponendosi tra sogno e realtà, con il solo e unico scopo di riportare al presente gli spettatori.
Lui si sentiva un po’ così e decise che la sensazione gli piaceva.
Avrebbe pensato a quel giorno come si pensa ad un momento particolare della propria vita in cui si è obbligati a scegliere.
Avrebbe passato il tempo a domandarsi “E se invece…?”
E, infine, avrebbe sorriso, nostalgico, pensando che, in fin dei conti, andava bene così.
Ripensò
a Gideon e decise che era giunto il momento di mettere la parola fine anche al suo ricordo.
Sarebbe stato doloroso.
Ma, alla fine, ce l’avrebbe fatta.
<<
Qual è la terza? >>
Mormorò
lo Spencer Reid ventiquattrenne, seduto sul sedile vicino al
finestrino, con le
gambe strette e le spalle leggermente incurvate in avanti. Gli occhi
grandi,
resi scuri dalla luce notturna diffusa sul jet, erano incollati alla
figura di
Jason Gideon, come se da quelle labbra stanche potesse colare la
verità più
pura.
Gideon osservò il volto momentaneamente sfigurato di quel
ragazzino.
Si accorse che era troppo giovane per poter vedere quello che vedevano
loro.
Ma, nello stesso momento, si rese conto che era più forte di
quello che si
potesse immaginare.
Non ebbe alcuna esitazione nel pronunciare la terza cosa che
l’altro avrebbe
dovuto ricordare a vita.
“Sono
fiero di te.”
The
End
Commento dell’Autrice:
Eccomi di nuovo
qua u.u
Allora, le frasi centralizzate, scritte in uno stile differente, sono
spezzoni
di telefilm, presi dai seguenti episodi:
1)
Il
Profilo dell’Assassino(Jason Gideon)
2)
L’uomo
nel mirino(Jason Gideon)
3)
La
sete del Viaggiatore (Jennifer Jerau)
4)
Valhalla
(Emily Prentiss)
Può
sembrare un finale ambiguo.
La verità è che, mentre scrivevo, ho trovato la
risposta alla domanda che ho
scritto all’inizio: non così.
Spencer Reid e Derek Morgan sono molto diversi e, sebbene le
possibilità di
capirsi siano scarse, non sono azzerate del tutto, secondo me.
Solo…non potevano capirsi, in questo
modo, come l’ho descritto io.
Ma ho lasciato la porta aperta perché, nella vita, non si sa
mai xD
Ringrazio sentitamente chiunque abbia anche solo letto e mi scuso
ancora per la
lunghezza della storia/poema.
Elisa