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Autore: Neal C_    22/05/2011    0 recensioni
[LE BACCANTI]
" Beato chi, protetto dagli dei, conoscendo i misteri divini conduce una vita pura e confonde nel tiaso l'anima, posseduto da Bacco sui monti tra sacre cerimonie"
(vv. 72-77.)
Penteo, figlio di Cadmo, racconta ogni istante che lo avvicina alla morte, ignaro di tutto, sicuro di poter sconfiggere con la forza un Dio che lui ritiene falso, empio e corruttore della sua città.
Ha una missione, quella di estirpare un cancro che dilaga fra le donne e gli animali di Tebe e, credendo di avere la vittoria in pugno, cadrà nella follia e nel crudele inganno di Dioniso.
[PENTEO POV]
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I Atto
I Scena

Questa mattina, al primo levare dell’alba, la luce di Febo è stata accompagnata da orribili urla stridule. Erano agghiaccianti versi di donne che venivano da fuori, eppure i loro echi attraversavano il palazzo reale di Tebe.

Qualcuno  urla il nome di mia madre, delle mie sorelle; sento  passi pesanti che battono sul pavimento di pietra e lo scalpiccio dei servi che si agitano.
Cosa starà succedendo? Cosa sono questi urli? E perché tanta agitazione?
Mi agito appena e il letto in ulivo scricchiola. Finalmente un suono familiare.
Sento che il vecchio Cadmo ha bisogno di me, e alla curiosità si aggiunge la preoccupazione. O forse è semplicemente il senso del dovere di un nipote verso il proprio nonno e vecchio.
Avvoltomi nei familiari veli del chitone, esco nel cortile su cui affacciano le camere del palazzo e, sotto al colonnato vedo uno dei nostri servi più giovani e prestanti ansimare come un malato che si aggrappa alla vita, prima di perderne per sempre il soffio.
In tutto il palazzo iniziano il lamento delle schiave, i loro cori, le preghiere agli dei, e i canti più sacri a cui presto si aggiungono i latrati dei nostri cani, Reso e Frigio.  Proprio quest’ultimo era un dono, portatoci da stranieri della costa frigia, per me e mia madre. Glielo inviava sua sorella Sèmele che poi era scomparsa senza lasciare traccia.
A lungo avevamo aspettato un suo messaggio, avevamo inviato dei messi che l’avevano cercata in tutto il paese. Poi un giorno uno di loro si era presentato alla reggia, tremando come una foglia, pallido come un cadavere. Un’aquila gli era venuta in sogno, mentre volteggiava libera per i cieli, e si era sollevata tanto in alto fino a sfiorare le nubi dorate che sovrastavano campi e distese verdeggianti, non certo gli aridi terreni della nostra Ellade. Ma l’aquila aveva osato troppo: un lampo e un tuono erano scaturite dalla nuvola più grande incenerendo il volatile.
Ancora più angoscioso per il nostro messo era stato il grande serpente che era poi apparso, colpito a sua volta dalla collera divina, e, come il suo ventre, era stato squarciato anche lo scudo di Cadmo.
Ricordo l’angoscia di mio nonno che subito aveva mandato a chiamare Tiresia che in quel momento stava riposando e, non osando svegliarlo, aveva pazientato a lungo, ordinando nel frattempo di tributare i dovuti onori al padre degli uomini e degli dei perché il suo responso fosse favorevole.
Quando finalmente Tiresia arrivò, mio nonno aveva raggiunto un tale grado di agitazione che, soprassedendo su ognuno dei cerimoniali che avrebbe dovuto tributare al Dio Febo e al suo vate, incitò subito il messo a raccontare il sogno.
Questi dovette rivivere l’angoscia, poiché finì per raccontarlo ancora più animatamente di quanto non avesse già fatto con il padre di mia madre. Gli mancò la voce ad un certo punto e dovetti prendergli dell’acqua.
In quel momento mi ritrovai a pensare all’ironia della sorte. Io, Penteo, discendente del fondatore di Tebe, che offrivo da bere ad un figlio di nessuno. Anche lui dovette pensarlo, poiché quando incrociai il suo sguardo e gli porsi una coppa d’acqua, questi chinò il capo abbassando gli occhi e mormorò con la voce arrochita dalla sete: “Grazie, padrone”
Tiresia intanto era intento  ad osservare il cielo e, a fine racconto, sembrava ancora più assorto nel contemplare le nubi che filtravano i raggi di Febo nel nostro cortile.
“Il messaggio degli dei per te, Cadmo, è tanto chiaro quanto sventurato. Come tu offendesti gli dei e trafiggesti la loro serpe, adesso il tuo casato verrà trafitto.* [1] Tuo nipote…” indicò me, ancora giovinetto, con non più di quindici anni alle spalle,  e che fino a quel momento avevo vissuto la mia sedicesima estate con spensieratezza.
“…è lui quello scudo, poiché tu ormai sei vecchio e niente più rappresenti per gli dei. La corona passerà presto al tuo discendente e allora sarà lui ad essere colpito. Così come l’aquila e forse tua figlia, sono stati preda del lampo del padre degli uomini e degli dei.”
Il mio signore rimase molto scosso da quella profezia, tanto che si inginocchiò ai piedi di Tiresia, afferrandolo per la veste e lo pregò di porre rimedio, di ingraziarsi gli dei perché proteggessero suo nipote, me, dal suo vaticinio. Io non sapevo proprio cosa dire, ma mi sembrò giusto chinare anche io il capo, in attesa. Ovviamente nessuno poteva pensare di raggiungere gli dei nell’alto del loro universo lontano.
Non ho mai vissuto con angoscia eppure non me ne dimenticavo mai ed ero pronto a tutto.
Non mi sarei mai arreso senza combattere, non sarei fuggito come un disertore ma mi sarei ricoperto di gloria come spettava ad un eroe ed a un figlio di re.


II Scena


Ebbene, ritornando a questa mattina, nel cortile, raggiungo quel servo, Pelio, un bel ragazzo, scuro di carnagione, dai riccioli neri e dagli occhi intensi. Era asciutto e ben formato ma aveva deboli addominali che forse non erano mai stati allenati; a lui non servivano di certo, lui che faceva il servo e tutt’al più il contadino.
“Pelio, cosa succede in città? Perché tanto movimento?”
Questi mi corre incontro, come se cercasse protezione:
“Ah, padrone,  sono le donne. Alcune di loro che urlano come delle ossesse, piangono e si strappano i capelli. Lanciano delle urla strazianti. Cosa sia capitato loro non si sa ma barcollano come ubriache eppure ciascuno dei loro mariti hanno più volte riferito che non hanno bevuto neppure un goccio.”
Mi acciglio, decisamente perplesso e non riesco a  non pensare alla profezia di dieci anni prima.
Devo rimanere assorto per un bel po’ poiché il servo mi richiama con urgenza:
“Signore, mio signore! Sappi che le abbiamo prese e il vecchio Cadmo ha chiesto di vederle. Dovresti raggiungerlo.”
Annuisco e mi avvio per il cortile, a passo lesto. Cosa mio nonno pensi di fare con quelle povere sventurate, non ne ho idea.
Attraverso tutto il cortile e raggiungo l’ingresso monumentale, in pietra, decorato da alcuni bassorilievi che rappresentano due aquile, una con le ali chiuse e una in volo illuminate dai raggi della luce divina. Parecchie volte ho visto i nostri ospiti rimanere ammirati a osservare l’imponenza di quelle architetture che risalgono alla fondazione della gloriosa Tebe, partorita dalla profezia dell’oracolo di Delfi e dalla vacca che condusse mio nonno alla piana granosa e alla fonte di Dirce.*[2] Ma proprio in questo momento non ho occhio che per la figura dell’indovino Tiresia, ancora una volta sulla mia strada, forse venuto a darci consiglio.
Rimango assolutamente stupefatto nel vederlo abbigliato come un seguace di quel Dioniso, un nuovo dio sconosciuto.
Ho sentito diverse volte, nel corso del mio ultimo viaggio,  di rituali dedicati ad un falso dio, un demonio che spingeva le donne a danze sfrenate, fiumi di vino e voglie lussuriose.
 E il suo profeta sarebbe un giovinetto dai riccioli biondi, paffuto e roseo, baciato da Afrodite, per la sua bellezza che attira tutte le sventurate nel suo covo malefico per asservirle a questo dio.
 Ecco un altro mistificatore che spaccia questo Dioniso per la progenie di Zeus, nato dalla sua coscia!
Non oso andargli incontro. Non subito. Tiresia ha mandato a chiamare il vecchio Cadmo.
Osservo orripilato mio nonno che avanza, appesantito dall’età, indossando la nebriade, una tunica di pelli maculate di cerbiatto, con in mano un bastone di pino e di edera che avvolge l’intero tronco.*[3]
 È quello il maledetto tirso che vorrei bruciare seduta stante. Ed è proprio il padre di mia madre a brandirlo, ad appoggiarsi a lui e a cercare la sua guida in quei pochi passi che avanza.
Rimango acquattato dietro l’arco dell’entrata che mi protegge alla vista dei presenti e mi sento girare il capo. Appoggio la schiena alla solida pietra per non cadere per terra.
Cosa ci fanno abbigliati in quel modo? Che abbiano perso la testa? In vecchiaia troppo spesso i più saggi  e anziani smarriscono il senno e da allora tocca ai loro figli occuparsi delle loro menti confuse. Ciò che più temo è il momento in cui dovrò rinchiudere il vecchio Cadmo nel palazzo per salvarlo dalla demenza senile che impera.
Ma Tiresia no. La sua non è la follia di un vecchio. Lui è un sacro messaggero di Apollo Sole e perderebbe il senno solo quando il dio lo reclamasse
Mentre cerco disperatamente di pensare sento le loro voci, prima fra tutte quella di mio padre, benevola, di un allegria che mi fa gelare il sangue.
“Mio caro amico, non indugiamo oltre, conducimi al monte Citerone, alziamo i calici in onore del nuovo dio, battiamo per terra il nostro tirso e facciamo si che i nostri canti attraversino i campi di grano della mia città. Voglio che il più grande fra i miei discendenti sia onorato e glorificato. Dioniso, il figlio di Zeus e di mia sorella Semele, troverà in Cadmo il suo più fedele servitore!”
Delira. Devo assolutamente fermarlo. Spero in Tiresia ma rimango ancora più amareggiato dalle sue parole.
“Andiamo! Che queste celebrazioni ci restituiranno la giovinezza perduta. Non ti senti già più arzillo?”
“Mi sento un neonato. Allora dov’è il carro che ci condurrà?”
Non ce ne sono di carri. Ma questo non scoraggerà certo quella canaglia di Tiresia.
“Assolutamente no. Andremo a piedi, danzando e seguendo la guida del dio.”
Il vecchio Cadmo! A piedi! A stento riesco a controllarmi. Potrei strangolare quel vecchietto, ridurlo ad un mucchietto di ossa, qualche brandello di carne e distruggere quelle orribili vesti animali che porta. Anzi, prima possibile gli farò tagliare la lingua perché non sputi sentenze, mai più.
Mi pento di questi pensieri anche se non subito. Non toccherei mai un sacerdote di Apollo.
“Anzi, andremo a piedi e saremo come fratelli. Ciascuno sarà uguale per nascita, per diritti, davanti al dio. Chiunque, anche il più infimo dei servi potrà danzare al suo altare e sarà il più grande degli uomini.”
La cosa mi lascia ancora più orripilato. Anarchia! Ecco cosa blatera Tiresia! Servi che diventano padroni! Non posso sopportare una parola di più.
Mentre avanzo con aria truce, sento il mio volto in fiamme, mi mordo disperatamente il labbro e digrigno i denti. Cerco i tutti i modi di mascherare quanto sono sconvolto. Ormai sono io il re di Tebe, non Cadmo, figlio di Agenore, IO. E con un solo gesto potrei imprigionarli insieme alle baccanti, guardati a vista dalle guardie del carcere.
Ostento sicurezza e la mia voce esce tagliente, velata di disprezzo:
“Cosa vedo! Tiresia, lo scruta prodigi, che si maschera come un buffone e trascina un ingenuo nella più depravata delle orge! ” Scoppio a ridere; ne esce solo un suono aspro e tutt’altro che divertito.
Adesso tutto mi è chiaro. Tiresia alimentava il culto di quel demonio solo per il suo guadagno personale. Lui sarebbe stato lì, come indovino, avrebbe letto il volo degli uccelli, le viscere degli animali per quell’efebico giovanotto che si credeva il portatore di chissà quale verbo divino. E sarebbe stato pagato in moneta sonante.
“Tu, vecchio insolente, che ti accompagni al padre di mia madre solo per i tuoi scopi, che porti la corruzione nella mia città, preparati, perché quanto prima sarai rinchiuso nelle mie prigioni e così saranno disperse tutte le donnicciole che, come bestie scatenate, danzano in quei festini blasfemi.”
L’indovino mi squadrò. Mi ricordò quel giorno della mia fanciullezza in cui aveva svelato la profezia che pendeva sul mio capo come l’ascia del boia durante l’esecuzione.
Ma io sono certo di aver detto quanto è in mio diritto dire. Lui, anche se protetto da Febo, è solo un vecchio, un mio suddito, e non lascerò intimorire dalla sua veneranda età e dai suoi occhi di ghiaccio.
“Giovane, sei uno stupido. E sei un cattivo cittadino perché non hai cervello. Dioniso, che tu non riconosci, sarà il più grande fra gli dei, secondo solo a Demetra, la Madre Terra. Egli invade il tuo essere, ti dona il potere della profezia  e la sua potenza può indurre il guerriero più valoroso a gettare le armi e a fuggire come un coniglio. Non impuntarti così stupidamente. Indici feste in suo onore, riconoscilo davanti al popolo tebano e onoralo, partecipando anche tu alle danze. ”
La mia rabbia aumenta ogni secondo che passa. Sono io a passare per stupido, inetto, incapace di governare, inutilmente crudele e addirittura empio contro un dio che non è altro che un impostore.
“Ragazzo mio, ascolta la saggezza di Tiresia. Stai sragionando. E se proprio non puoi convincerti dell’esistenza di questo Dioniso, fingi che esista e diffondi la notizia. Racconterai di come la sorella di tua madre ha messo alla luce il più potente e glorioso fra i figli di Zeus e nobiliterai la nostra casata. ”
Questo è il colmo. Così mi sarei dimostrato sacrilego, avrei bestemmiato e mi sarei ricoperto di un onore che non mi spettava. Fisso negli occhi il vecchio Cadmo mentre questi si avvicina, benevolo, sembra un padre che si prodiga per il figlioletto capriccioso, giudicato troppo giovane per capire. Ci sono già passato e non lo posso sopportare. Ritiro il braccio, sgarbato, e il vecchio fa un passo indietro sostenendosi sul tirso.
“Allontanati, vecchio, potresti infettarmi con la tua stoltezza.  Piuttosto manderò i miei uomini a distruggere gli altari che profanano i miei boschi, a disperdere i suoi fedeli e a catturare il loro diabolico messaggero. Verrà condotto alla mia reggia e sarà condannato alla lapidazione per la sua empietà e le sue lussurie a danno delle nostre donne.”
Vedo Tiresia protendersi in avanti e tirare via mia nonno per la tunica. Il suo sguardo è terribilmente serio e scorgo anche un lampo di paura che illumina lo sguardo solitamente grigio. Sembra improvvisamente più attempato, si stringe ancora di più al suo bastone come se si aggrappasse all’ultima delle sue certezze.
“Vieni via, amico mio. È pazzo, ormai è in delirio. Sciagurato! Che tu non ti debba mai pentire di quello che hai appena detto!”
Leggere la paura nei suoi occhi mi aveva inquietato non poco e ci ho messo diverso tempo a convincermi che non era altro che una sceneggiata. Li ho lasciati andare che barcollavano, si appoggiavano l’uno all’altro, ogni tanto tiravano su le pelli che scivolavano dalle spalle curve e penzolavano come animali lasciati a seccare al sole.
Che andassero pure! Io ho comunicato il mio ordine, le guardie cittadine ne saranno venute presto  a conoscenza e mi porteranno lo straniero biondo. La sua morte servirà da esempio a tutti coloro che oseranno rivoltarsi contro gli dei e contro di me, Penteo, figlio di Agàve, di mio padre Echìone e signore di Tebe.


Note a piè di pagina

*[1] Si riferisce al mito di Cadmo, a cui attinge Euripide nello scrivere la sua tragedia, in cui  Cadmo, per obbedire all’oracolo di Apollo e fondare Tebe, deve uccidere il serpente di Ares che custodisce quei luoghi. Io ho interpretato questa uccisione del serpente da parte di Cadmo come un peccato di hyubris, cioè l’aver voluto scavalcare il dio Ares anche se guidato dall’oracolo di Apollo e quindi mi sono liberamente inventata il retroscena. Per saperne di più:  http://volta.valdelsa.net/thiasos/baccanti/leggenda-cadmo.htm  

*[2] Si riferisce ancora al mito di Cadmo e della fondazione di Tebe, secondo cui Cadmo fu guidato da una vacca in quella piana granosa  “dove l’acqua del bel fiume si sparge per le terre di Dirce” [traduzione di un passo del coro delle Fenicie di Euripide]

*[3] Il bastone è il Tirso, accessorio caratteristico dei seguaci di Dioniso che era un po’ la “bacchetta magica” dell’epoca, simbolo della magica forza della natura, e accompagnatore nelle frenetiche danze nelle quali si usava “scuotere il tirso.”  Per saperne di più:
http://volta.valdelsa.net/thiasos/baccanti/framesaggi.htm

 
Angolo dell’autrice

Iniziamo con un avvertimento!

Questa ff non era per niente programmata.
Non cosa mi ha preso ma da quando ho sentito la meravigliosa spiegazione del mio prof di greco non ho fatto altro che pensare allo straordinario personaggio di Penteo e alla fine DOVEVO buttarla giù.
Quello che forse avrei dovuto evitare di fare è decidere di pubblicarla <.<
Questa volta lo faccio per testare il campo e vi avverto che non aggiornerò con la mia solita frequenza, cioè un capitolo a settimana, anche perché maggio è un mese crudele, elezioni o non elezioni (anzi direi che con le elezioni è addirittura peggio).
Ma a Giugno mi darò da fare ù.ù
Per gli amanti di Euripide e della Tragedia,  purtroppo non c’è chissà quale  grande cultura dietro quindi perdonatemi gli errori.  Anzi, se me li faceste notare vi bacerei in fronte!
Quello che vi posso assicurare è che leggo e rileggo le Baccanti quando imposto i miei dialoghi e che sono il più fedeli possibili a quelli della traduzione di Filippo Maria Pontani dall’originale. Per il resto è piuttosto romanzato e attinge anche ad alcuni miti che precedono l’opera di Euripide, miti che lui stesso probabilmente conosceva e ha utilizzato nelle sue opere (e nelle note vi segnalo le mie fonti già che ci siamo...non vorrei sbagliarmi <.<).
Ci si vede gente, leggete e recensite numerosi! ;)

Misa

  
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