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Autore: Roxe    22/05/2011    8 recensioni
Ogni frase che iniziava con ‘io e Mary’ spostava qualcosa dentro di lui. In una direzione che non riusciva a controllare.
Un movimento nervoso ed imprevedibile, sul quale la mente non aveva alcuna giurisdizione.
E questo era in qualche modo terribilmente spaventoso, perché per la prima volta sentiva premere sulla parete della coscienza qualcosa di diverso dal pensiero razionale, che tentava d’infilarsi tra le maglie della ragione per emergere in superficie.

[ Pairing: Sherlock-John-Mary ] [ Pre-slash ] [ Rivality ]
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

PreScriptum Nell’impianto originario della fic non volevo raccontarlo, e quindi non l’ho raccontato. Però avete ragione voi, era davvero un peccato saltare l’incontro di John e Holmes dopo la sua corsa per le strade di Londra. Soprattutto se la scena c’è.
La storia principale non poteva che andare così per come l’avevo concepita. John doveva restare a metà della strada, là dove lo avevamo trovato all’inizio, e non andava detto niente di più prima del capitolo finale, per non far cadere la tensione.
Però la scena c’è.
E allora mi sono detta, perché non scriverla?
L’idea iniziale era tentare una flashfic, ma mi sono dovuta arrendere a me stessa quando ho realizzato che SOLO lo schema del capitolo era di 443 parole…
Devo rassegnarmi alla mia natura, non c’è nient’altro da fare. Sopportatemi.

WARNING Non commettete l’errore di considerare questa ‘giunta’ un seguito diretto del capitolo 4. Non lo è.
Il tono ed il clima sono del tutto differenti, e la tensione che ho creato nella storia principale si è riversata ed esaurita interamente nel capitolo 5, che è e resta il finale di questa fic.
Ciò che state per leggere rispecchia esattamente il titolo che ha: è un episodio extra. Un di più.
Una di quelle scene che al cinema ti mettono dopo i titoli di coda, come chicca finale.

Inciso Il titolo di questa fic -nonchè la sua versione tradotta all'interno della storia- vanno lette ispirandosi alla frase che pronuncia John nel telefilm quando Sherlock si mette a sparare al muro. (se non ve la ricordate andate a rivederla. Merita.) 

 

 

 

What the fuck happened here?!

 

 

 

 

John continuava a correre.

Nonostante la fatica. Nonostante i muscoli quasi pietrificati dall’acido lattico. Nonostante l’aria che gli scartavetrava la gola, entrando a raffiche attraverso la bocca spalancata in una smorfia grottesca.
Nonostante il sudore, che si asciugava spietatamente sulla pelle, assicurandogli una piacevole broncopolmonite primaverile, di quelle che ti sdraiano a letto per due settimane, imbottito di Amoxicillina e acido clavulanico.

Eppure lui continuava a correre.

Perchè mancava troppo poco per fermarsi adesso.

Ancora una curva e avrebbe visto quelle grandi finestre, con le tende tirate ed il riflesso del sole sul vetro.

Non appena girò l’angolo alzò d’istinto la testa, senza rallentare, cercando con gli occhi la vistosa insegna dello Speedy’s.
La possibilità che il 221B fosse evaporato nelle ultime ventiquattr’ore era piuttosto remota, eppure quando intercettò da lontano quella familiare sagoma di legno nero su intonaco bianco John si sentì stranamente rassicurato.
Lo sguardo salì verso l’alto, per controllare che anche il primo piano fosse esattamente là dove lo aveva lasciato, quando d’un tratto gli parve di cogliere un movimento dietro la finestra situata sopra il tendone del bar. Qualcosa si spostò sotto il riverbero della luce con un sussulto improvviso, come se la casa rispondesse alla sua occhiata con un confuso scivolare d’ombra e di stoffa.

Ma forse si era sbagliato.
Un riflesso e nient’altro, probabilmente.

Troppo poco sangue al cervello. Senza dubbio.

Con un battito di ciglia scacciò quel miraggio e tornò a guardare dritto davanti a sé, verso la meta, ormai ad una manciata di passi.
Non rallentò neanche negli ultimi metri, proiettando direttamente sul portone tutto il suo slancio attraverso le braccia tese in avanti, mentre il corpo si arrestava di scatto, abbandonando la testa tra le spalle.

Non si aspettava che l’anta cedesse sotto la sua spinta, ma le gambe ancora gonfie d’adrenalina recuperarono prontamente l’equilibrio, e John non perse tempo prezioso a chiedersi come mai la porta fosse aperta. S’infilò nell’inatteso pertugio, andando ad appoggiarsi con la spalla alla parete del corridoio e lasciando che la bocca continuasse ad ingurgitare fastidiose manciate d’ossigeno, scandendo il ritmo del suo respiro.

Sentì i muscoli rilassarsi, mentre gli occhi si abituavano alla penombra di quell’androne scuro, indovinando la sagoma familiare delle scale di fronte a lui.

Allora serrò le palpebre per un istante, cercando di controllare l’affanno.

Al diavolo.
Per calmare quel fiatone avrebbe dovuto restare disteso sul pavimento per una settimana.
E John non poteva più aspettare.

Con una mossa energica si staccò dal muro, spendendo gli ultimi residui d’adrenalina nel divorarsi quella manciata di gradini a due a due. Per la prima volta.

La porta dell’appartamento era socchiusa.
E lui non esitò.

L’inerzia di quella corsa irrazionale continuava a spingerlo in avanti, incalzato da un’urgenza ormai del tutto insopportabile, che si sarebbe placata solo varcando quella soglia.

Afferrò la maniglia e spalancò l’uscio con forza, mentre con l’altra mano si aggrappava allo stipite, piegando goffamente il busto verso il basso nel tentativo di comprimere la milza dolorante e nascondere gli scomposti movimenti del petto.
Per la faccia invece non c’era niente da fare.
La sporse coraggiosamente all’interno della stanza. Ansante, sudata, in uno stato pietoso.

 

La prima cosa che vide, nonostante tutto, fu lui.

 

Placidamente adagiato sulla poltrona nera, con le gambe incrociate ed il busto rilassato all’indietro, gli occhi bassi sul pesante libro posato sulle ginocchia, sostenuto tra le dita con sorprendente leggerezza.
Non un solo muscolo del suo corpo era in tensione. Neanche l’ombra di una qualsiasi espressione su quel volto impassibile che sembrava fissare le pagine aperte davanti a sé come fossero trasparenti, prive di qualsiasi contenuto.

Avvertendo il rumore della porta che si apriva Sherlock sollevò lentamente la testa, puntando su John uno sguardo calmo e leggermente sorpreso. Come se non si aspettasse di vederlo.

Come se fosse uscito da quella stanza da non più di cinque minuti.

Eppure per un attimo, solo un brevissimo istante, a Watson parve di scorgere nei suoi occhi un minuscolo frammento di panico. Un sussulto di quell’angoscia provocata dall’accostarsi di un evento disastroso che sembrava imminente, e invece imprevedibilmente tarda ad arrivare, alimentando l’ansia dell’attesa.

Troppo poco sangue al cervello, decisamente.

John ricambiò quello sguardo tranquillo appena qualche secondo.
Poi non poté più fare a meno di vederlo.

Il caos.

I suoi occhi furono calamitati dalle macerie che circondavano la placida figura di Holmes.

Con la bocca spalancata, le pupille dilatate, senza poter smettere di ansimare, percorse i miseri resti di quella che il giorno prima era una stanza.
Disordinata, dispersiva e sovrappopolata, ma pur sempre una stanza.
Procedette attraverso l’ecatombe di volumi smembrati sul pavimento, soffermandosi sull’implosione della libreria, e sul crollo strutturale della pila interminabile di libri un tempo edificata sul panchetto a fianco del camino, e ora sparpagliata come un mazzo di carte ai piedi di Sherlock.
Appena qualche centimetro sano d’appartamento davanti alla finestra, e poi riconobbe pezzo per pezzo l’intero contenuto della scrivania accatastato in una massa informe accanto al divano, miracolosamente illeso.
Il computer invece non era sopravvissuto alla tragedia. Il suo scontro frontale con il muro aveva lasciato un vistoso segno nero sull’intonaco sotto la finestra.

E sopra quelle rovine, una miriade di fogli bianchi.
Sparsi per tutto l’appartamento come le schegge impazzite di un unico oggetto, andato in mille pezzi all’impatto col suolo.

Chiuse gli occhi e li riaprì più volte, mentre contemplava quell’ambiente un tempo familiare, che ora giaceva inerte ed irriconoscibile, sbriciolato sotto i colpi di un evento catastrofico d’immane portata.

Forse si era verificata una scossa sussultoria del decimo grado della scala Richter con epicentro sotto il 221B, che aveva miracolosamente lasciato intatte le pareti.
Oppure un elicottero del soccorso stradale era stato costretto a stazionare per un’ora di fronte alle finestre spalancate, diffondendo all’interno dell’abitazione un vento costante di circa 70 nodi.
Magari era venuta a mancare la gravità per alcuni minuti, in quella zona di Londra.
Ma sembrava più che altro che qualcuno si fosse divertito a prendere la stanza tra le dita, rovesciarla a testa in giù e scuoterla leggermente, per poi rimetterla al suo posto senza provocare ulteriori danni.

John prese un gran respiro. Per poterlo dire tutto d’un fiato.

 

- Che cazzo è successo qua dentro?!

 

Continuò a vagare ancora un istante tra le particelle del soggiorno esplose qua e là sul pavimento, per poi tornare a posare gli occhi sul legittimo proprietario, alla ricerca di una risposta che tardava ad arrivare.

Holmes non si era scomposto. Non si era mosso.
Continuava ad osservarlo dalla poltrona, dopo aver sollevato leggermente il volume in una posizione meno faticosa per le mani, e scosse appena la testa, fissando il suo sguardo quieto in quegli occhi spalancati ed allibiti.

- Niente d’importante.

Un tono pacato, appena annoiato. Che sotto la veste dell’indifferenza lasciava intravedere una durezza che non ammetteva repliche.
Né ulteriori spiegazioni.

Avrebbe potuto chiederlo ancora.
Ma la risposta sarebbe stata la stessa.

 

Non era successo niente d’importante. Evidentemente.

 

Staccandosi dalla maniglia e sollevando il busto in posizione eretta John riuscì addirittura ad emettere un sonoro sbuffo di rassegnazione tra una boccata d’aria e l’altra, constatando con piacere che stava a poco a poco recuperando il controllo dei suoi polmoni nonostante i postumi imponenti della veloce traversata.

Facilitati da quella nuova prospettiva, i suoi occhi caddero sul libro che Holmes teneva tra le dita, la cui copertina era adesso perfettamente visibile. E la domanda sorse avventata quanto spontanea, giusto un po’ impastata dal fiatone.

- Perchè stai leggendo un libro al contrario?...

- Oh…

Tradendo un impercettibile moto di sorpresa e disappunto Sherlock abbassò lo sguardo sul grosso volume d’astronomia appoggiato sulle sue ginocchia, chiaramente rovesciato, ed a Watson parve che lo vedesse per la prima volta.
Eppure la sua espressione rimase perfettamente calma mentre sollevava ancora la testa tornando a guardarlo.

- Non è poi così difficile, sai?

John sospirò di nuovo, concedendo ad un sorriso leggero d’incurvargli le labbra, mentre si lasciava invadere da quell’intensa e pacifica sensazione di familiarità che si espandeva adagio in ogni fibra del suo essere.

Era davvero uscito da quella stanza da appena cinque minuti.

 

Continuarono a guardarsi in silenzio, per alcuni secondi.
Finché Holmes non esordì con voce posata, senza nemmeno abbassare lo sguardo.

- Hai un bottone slacciato.

- Oh!

Watson si piegò di scatto verso il cavallo dei pantaloni, mentre le sue mani si precipitavano con imbarazzo a chiudere bottega, litigando con quell’asola ribelle che d’un tratto s’era fatta terribilmente stretta.
E proprio nell’istante in cui decretava la sua vittoria su quei jeans odiosi la voce di Sherlock lo raggiunse ancora una volta, costringendolo a rialzare la testa.

- Sei totalmente spettinato.

Con scrupolosa obbedienza John si passò le dita tra i capelli arruffati, cercando inutilmente di dar loro una forma, dominato da quello sguardo tagliente che riusciva sempre a provocare in lui uno sgradevole, impellente bisogno di giustificarsi. Ogni dannatissima volta.

- Sai… è che stavo-…

Ma Sherlock alzò di scatto la mano, bloccando la sua frase con un gesto secco ed inequivocabile.

 

- Non osare dirmelo.

 

Il tono irritato di quelle parole fu accompagnato da una  lieve smorfia di disgusto. O forse di fastidio.
E senza attendere ulteriori chiarimenti Holmes si mosse all’improvviso, come suo solito, passando da uno stato di quiete assoluta ad una rapida ed incalzante sequenza di azioni.
D’improvviso chiuse il pesante volume tra le mani, lanciandolo con destrezza sulla poltrona rossa. Poi si alzò in piedi con un agile colpo di reni e si diresse a grandi falcate verso il cappotto abbandonato sul divano, evitando abilmente le carcasse di libri sparse lungo il cammino.

- Muoviamoci. C’è del lavoro da fare.

Watson era rimasto a bocca aperta, con quella frase sospesa e fraintesa in bilico sulle labbra, seguendo con gli occhi la sua veloce serie di movimenti, del tutto indifferenti al marasma circostante.

- E questo casino?...

- Lo metteremo a posto più tardi. Ora non c’è tempo.

La prima persona plurale non sfuggì all’attenzione di John, che lanciò uno sguardo eloquente in direzione del suo ottimista ex coinquilino, intento ad aggiustarsi il bavero della giacca.

- MetterEMO?...

Domanda retorica ovviamente.
Ma forse era opportuno ampliare il concetto.

- MetterAI!

Holmes si limitò ad alzare gli occhi al cielo, sbuffando con aria infastidita.

- Come ti pare. Ora andiamo.

Poi s’incamminò verso la porta con passo risoluto, certo d’essere obbedito.
Ma John lo prese in contropiede.

Invece di precederlo sulle scale gli venne improvvisamente incontro, entrando nella stanza e portandosi una mano sulla tasca posteriore dei pantaloni, mentre con l’altra gli faceva un eloquente segno d’attesa.

E Sherlock si fermò.

- Aspetta un attimo, devo fare una cosa importante.

Pronunciando quelle parole John sfilò il cellulare dai jeans e digitò un numero sulla tastiera con rapidità spaventosa, per poi portarlo subito all’orecchio, fissando il vuoto con un’espressione che all’improvviso si era fatta maledettamente seria.

A Holmes non sfuggì il repentino cambiamento d’umore di quel volto teso, che d’un tratto aveva smesso completamente  di ansimare.
Percepì il lievissimo clic che annunciava la pronta risposta di chiunque si trovasse dall’altra parte dell’apparecchio, e vide John inspirare con forza per immagazzinare nei polmoni tutta l’aria che riusciva a trattenere. Prima di urlare.

 

- DOVE DIAVOLO SEI STATA TUTTA LA NOTTE?!?

 

Eh sì.
Era decisamente una cosa importante.

Sherlock rimase stordito dal volume di quell’imprevisto accesso di collera, ed istintivamente indietreggiò di un passo, fissando due occhi sgranati sullo sconosciuto che aveva di fronte, furioso come non lo aveva mai visto.
Non con lei.

Era difficile riconoscere John Watson in quel maschio inferocito che incalzava, e protestava. E borbottava. Come una pentola dimenticata su un fuoco troppo alto quando trabocca di schiuma, scuotendo e sollevando il coperchio con un chiassoso scoppiettio.

Osservando quel volto infiammato dalla rabbia Holmes sentì un accesso di riso incontrollabile risalire lentamente la trachea in direzione della faringe, e fu necessaria tutta la sua prontezza per trattenerlo nell’epiglottide appena qualche istante prima che gli scivolasse sulla lingua, esplodendo in una fragorosa risata.

Non era proprio da lui.

Strinse i denti e mantenne il controllo, infilando di colpo le dita tra i capelli e scompigliandoli con una scossa energica, per poi rovesciare la testa all’indietro, ad occhi chiusi, tentando inutilmente  d’impedire che quel sorriso spudorato sulla sua faccia continuasse ad allargarsi, ed allargarsi ancora, conquistando le sue guance centimetro dopo centimetro.

L’esile voce di Mary fuoriusciva a tratti dall’apparecchio, balbettando probabilmente qualche pessima scusa. E John continuava a non accettarne nessuna, abbaiandole contro con quell’insolito piglio ringhioso.

Sherlock riaprì lentamente gli occhi, tornando ad osservare quella ridicola scenata di tormento.
E per un istante il suo sorriso impertinente si dipinse di un’intensa sfumatura d’amarezza.

Era davvero arrabbiato.

 

Si avvicinò senza fare rumore, fermandosi ad un passo dalla sua schiena.
Watson non si accorse della presenza dietro di lui fino a quando Holmes non si chinò in avanti, piegandosi ad un angolo di circa centodieci gradi, per poter posare il mento sulla sua spalla libera.
Pur avvertendo quel peso improvviso da un lato del collo John continuò imperterrito a borbottare dall’altro, limitandosi a reclinare appena il capo per fare spazio al suo nuovo ingombrante inquilino.

Da quella goffa e scomodissima posizione Sherlock sentì il tessuto di cotone tendersi sotto il mento, ed il calore della pelle attraverso il tessuto, mentre nella testa transitava rapidamente uno dei suoi rari pensieri stupidi.
Anche sudato aveva un buon odore.

Accostò la bocca al suo orecchio e parlò con il suo tono di voce più sensuale. Che non era comunque un granché.

 

- Era qui con me.

 

John non si girò, e non si mosse. Non tentò nemmeno di scrollarselo di dosso.
Lasciò quel fardello sulla clavicola e quelle ciocche scure ad infastidirgli la guancia, limitandosi a rispondere con voce seccata.

- Non dire sciocchezze.

Un tono fermo e deciso, dal quale non traspariva neanche la più pallida traccia di dubbio.

Ma dall’altra parte di Londra una voce delicata e realmente sensuale disse qualcosa che riuscì a sentire solo lui, e Watson sgranò improvvisamente gli occhi.

- Come sarebbe a dire «è vero»?!?

Di scatto si divincolò dal mento di Holmes, voltandosi a fissarlo con uno sguardo incendiario.

Privato del suo punto d’appoggio Sherlock si tirò su rapidamente, scontrandosi con quell’espressione variegata nella quale galleggiavano qua e là grossi pezzi d’incredulità misti a qualche granello di rabbia, una spolverata di shock e giusto un pizzico d’indignazione, il tutto immerso in una densa brodaglia a base di terrore. E gelosia.

Continuava a guardarlo. E non riuscì più a  trattenersi.

Liberò quella risata fragorosa sotto lo sguardo attonito di John, che lo fissava come pietrificato, stringendo convulsamente nella mano il cellulare ancora acceso, dal quale si spandeva nell’aria la risata acuta e cristallina di Mary, solo leggermente alterata dall’altoparlante.

Lo sguardo di Watson prese ad oscillare con estrema lentezza tra Sherlock e il telefono, ancora incerto se doversi sentire infuriato, divertito, disperato, o tutte e tre le cose insieme.

Una sola faccenda gli era decisamente chiara.

- Smettetela di ridere tutti e due! Non è affatto divertente!

Oh sì che lo era.

Mentre contemplava divertito quel volto indignato Holmes recuperò di scatto il suo portamento austero, conficcando gli occhi in quelli di John con il suo ghigno più diabolico.

- Non hai idea quanto.

 

                       Non ne hai idea.

 

Con un’ultima, sonora risata, Sherlock gli diede le spalle, puntando dritto verso la finestra senza il minimo riguardo per gli oggetti sparsi a terra che avevano la sfortuna di trovarsi sulla sua traiettoria.
Si fermò di fronte a quella tenda chiusa, da cui filtrava una luce intensa che mancava da troppo tempo in quella stanza. Ne afferrò i lembi con entrambe le mani e la spalancò con una sola mossa, facendo entrare finalmente il sole.

E Sherlock chiuse gli occhi, assaporando quell’abbagliante calore sulla faccia. Senza smettere di sorridere.

Dietro di lui sentiva John sbraitare contro lo schermo, o contro di lui, o contro il mondo.

Non era importante, dopotutto.

Watson chiuse il telefono con uno scatto violento.
Non era finita. Oh no.
Era appena cominciata.

Aveva interrotto la comunicazione da circa due secondi quando l’apparecchio tornò a vibrare tra le sue mani, emettendo un trillo leggero.

 

                                              Bip Bip

 

Era arrivato un messaggio.

Holmes trattenne il fiato. E nel suo petto qualcosa mancò un battito, provocando un’intensa vampata di calore all’altezza del viso.

 

Che stupido.

 

Non ci aveva pensato.

Di tutte le centinaia di spiegazioni che si era dato vedendolo affacciarsi alla porta con aria sperduta e inconsapevole, quella non gli era proprio venuta in mente.

Ecco perché John era così tranquillo, tutto considerato.
Non aveva ancora ricevuto il secondo messaggio.

Probabilmente c’era stato un sovraccarico sulla linea, o qualche ripetitore fuori uso.
Un difetto di sincronizzazione alla centrale. O un guasto temporaneo.
Oppure niente.

Soltanto il solito, banalissimo ritardo.

Miserabili, ingrate, maledette compagnie telefoniche. Con tutti i soldi che gli dava ogni fottutissimo mese.

Sherlock espirò. Lentamente.
Per la prima volta nella sua vita incapace d’immaginare cosa avrebbe fatto, quando Watson avrebbe finito di leggere.

Ed era eccitante.

 

John abbassò il viso sullo schermo e vide il mittente.

Sherlock

- Ma che diavolo-…

 

                         Mossa scorretta.

 

 

I am lost without you.

 

 

 

 

Note:
1. Lo avete capito? Penso di sì. Però ve lo dico lo stesso, per sicurezza.
Ovviamente all’inizio della fic Holmes è appostato alla finestra, lì dove lo avevamo lasciato alla fine del capitolo 4.
Altrettanto ovviamente quel movimento che John scorge dietro al vetro non è affatto un riflesso, ma Sherlock, che appena lo ha visto spuntare da dietro l’angolo è scattato sulla poltrona afferrando un libro a caso (non proprio a caso per quel che mi riguarda… XD) e facendo solo finta di leggerlo. Perciò il volume era alla rovescia.
Questo è il suo modo di essere agitato, poiché dà per scontato che John abbia già ricevuto entrambi i messaggi, e resta spiazzato nel trovare John relativamente tranquillo quando entra nella stanza (per quanto possa essere tranquillo uno che si è appena fatto 900 metri di corsa per ritrovarsi davanti un appartamento distrutto…).
Io cerco spesso di sottolineare quanta differenza ci sia tra ciò che realmente prova Holmes e ciò che invece traspare dal suo comportamento. Anche la mia prima long di fatto si basava sullo scollamento tra gli eventi come li percepiva John e come invece li intendeva Sherlock.
Qui il divario è volutamente creato da Holmes, che finge indifferenza. Però ci sono molti altri casi in cui lui ritiene di essere chiaro ed in realtà non viene capito affatto, perché i suoi comportamenti sono comunque al di fuori di ogni schema normale.
Ma questo discorso lo approfondirò meglio in nota 6, quindi passiamo oltre.

2. Non vi siete dimenticati vero… che Watson e Holmes non si parlano da dieci giorni…
Da 240 lunghissime ore s’incrociano appena, sfuggendosi e rincorrendosi senza incontrarsi mai. Eppure quando John varca quella soglia e vede Sherlock seduto sulla poltrona quel tempo è come sparito. Cancellato. Mai esistito.
Il dramma shakespeariano che si è consumato nella fic principale riacquista in questo capitolo le sue reali proporzioni: John ha SOLO cambiato casa, niente di più.
Non è morto, né partito per la guerra, non ha preso un appartamento al di là dell’Atlantico né in Australia, ha soltanto traslocato a 900 metri di distanza dal 221B di Baker Street. E non è un evento poi così catastrofico come appariva prima che accadesse.
Tra Holmes e Watson poco è cambiato. Ed i due se ne accorgono all’istante, non appena si ritrovano di nuovo insieme in quella stanza, scivolando senza scossoni nel loro abituale comportamento reciproco.

3. Probabilmente qualcuno di voi si sarà quasi annoiato nel doversi sorbire ben tre descrizioni dell’appartamento di Baker Street, rivedendo ogni volta le stesse cose… Posso però assicurarvi che la ripetitività non è dovuta a mancanza d’immaginazione ma ad una scelta precisa.
L’intenzione era proprio quella di attraversare il soggiorno più famoso d’Inghilterra da tre punti di vista differenti, ma soffermandosi sempre sugli stessi oggetti, per poter avere tre istantanee in qualche modo ‘sovrapponibili’ e confrontabili.
Il primo scatto lo fa John la mattina in cui trasloca, e la sua è la fotografia malinconica di chi sta dicendo addio.
Il secondo scatto è di Holmes, che cerca il suo astuccio in pelle, e la sua è l’immagine della rabbia di chi ha tutto tranne quello di cui ha bisogno.
Il terzo e ultimo scatto è ancora di John, che osserva lo scempio, cercando di ritrovare tra le macerie ciò che solo il giorno prima aveva impresso nella memoria con nostalgia.
Ho pensato che fosse importante ‘fermare’ queste tre immagini successive dell’appartamento, perchè tutto sommato se ci pensate bene è lui il più autentico protagonista di questa storia. L’unico ad essere veramente abbandonato da John.
Il solo a rimanere davvero ‘deserted’ (and devastated) dopo il suo trasloco…

4. Lo scambio di battute legato al plurale/singolare di chi dovrà restaurare l’appartamento distrutto è una citazione alla lontana di un dialogo del telefilm, in cui Watson, fresco fresco del suo primo incontro con Sarah, sbaglia il ‘sesso’ del suo nuovo posto di lavoro, lasciandosi scappare un «Great. She’s great» (Fantastica, lei è fantastica).
Al che Holmes incalza con un «Who?» (Chi?)
John tenta di rispondere «The job.»(Il lavoro) Ma Sherlock puntualizza il genere:
«She?...»(Lei?...)
Il mio non è uno scambio di sesso ma un gioco tra singolare e plurale, che in italiano va necessariamente spostato sul verbo, e per questo non sembra somigliare nemmeno vagamente al dialogo cui è ispirato. Ma se l’avessi scritto in inglese (come era  affiorato nella mia testa) sarebbe stato un:
«We?...»
«You!»

Piccolo Extraquiz.
Secondo voi… chi è che alla fine rimetterà a posto quel casino immane?... Terza persona singolare?
Del resto è colpa sua, anche se non lo sa. E chi è causa del suo mal…

5. Questa nota mi ero bellamente dimenticata d’inserirla nel capitolo 4, quindi colgo l’occasione per piazzarla qui.
Spero con tutto il cuore che abbiate percepito quanto l’uso del cellulare in questa storia sia centrale.
La mia scelta di far passare molte emozioni via etere nasce proprio dal telefilm BBC, che utilizza spessissimo questo apparecchio sia come tramite sia come mezzo d’indagine.
La scena iniziale del primo episodio è un’apoteosi di messaggistica selvaggia, ed ho trovato geniale l’idea di ‘scrivere nell’aria’ le frasi inviate.
Anche i messaggi di questa storia ‘fluttuano nell’aria’. Attraverso il cellulare viaggiano, si fermano, vengono scritti e mai inviati, letti e poi tradotti, modificati e persino bloccati da imprevedibili ritardi. Le emozioni dei tre protagonisti viaggiano da uno schermo all’altro, a volte unendoli quando sono lontani, altre volte allontanandoli quando sono vicini.
Ma in questo capitolo extra succede anche qualcosa di diverso. Finalmente questo benedetto apparecchio svolge il compito per il quale è stato creato, riunendo Mary, John e Sherlock per la prima volta tutti e tre in quel soggiorno, ed eliminando ogni distanza tra loro.
Le tre coppie che si erano alternate nella fic principale (John/Mary, Sherlock/John, Mary/Sherlock) ogni volta che si formavano andavano a creare distanze complesse sia tra i componenti della coppia stessa che con il terzo assente, allargando il vuoto che in fondo li separava tutti allo stesso modo. Ma finalmente con quella telefonata ogni distanza si annulla, ed è come ripartire da zero, iniziando un nuovo round con regole completamente differenti.
Tra l’altro, sempre a proposito di distanze… Non so se qualcuno ci ha fatto caso (e c’entra anche relativamente poco con il discorso del cellulare…) ma Holmes si appoggia alla spalla di Watson esattamente come ha fatto Mary nel primo capitolo, con l’unica differenza che lei è dell’altezza giusta per poter posare il mento lì, mentre Sherlock non solo è più alto di Mary, ma è ben più alto anche di John, il che lo costringe a mettersi in una posa ridicola per riuscire a replicare il gesto della ragazza.
Infine… (e questo c’entra di più) vi pregherei di notare il particolare di Watson letteralmente ‘messo in mezzo’: da un orecchio ha Mary al telefono, dall’altro ha Holmes sulla spalla.
Credete che sia un caso? Tsk.

6. L’ultimo, sleale, ritardatario, imprevedibile messaggio di Holmes è –che ve lo dico a fare?- l’ennesima citazione. Quasi letterale.
Siamo sempre all’inizio del racconto Uno scandalo in Boemia, e se ben ricordate il novello sposino Watson una sera capita ‘per caso’ davanti a Baker Street e decide di fare una visita al suo vecchio amico. Sempre per caso (stavolta davvero) mentre è nell’appartamento di Sherlock bussa alla porta un nuovo cliente, al che Watson tenta di andarsene, ma Holmes lo ferma con la celeberrima frase:
«Stay where you are. I am lost without my Boswell.».
Ma chi è ‘sto Boswell, vi chiederete... L’ex ‘coinquilino’ di Holmes? No.
Tale James Boswell fu uno scrittore britannico del 1700, conosciuto principalmente per i suoi scritti biografici su un certo Samuel Johnson, che sono poi passati alla storia come «la più famosa biografia della letteratura inglese». Boswell seguiva Johnson ovunque andasse, scrivendo le sue gesta, un po’ come fa John con Sherlock. Da qui la dotta citazione di quest’ultimo, che io ho preferito in questo caso ‘tradurre’ nel suo significato più concreto.
La frase messa così è indubbiamente molto forte, diretta e senza scuse. Si potrebbe quasi dire che non è da Holmes essere così esplicito, se non fosse che sono davvero parole sue.
E qui mi ricollego anche alla nota 1, perchè a prescindere da ciò che può apparire da un’impressione superficiale io trovo  che in molte occasioni Sherlock sia piuttosto esplicito con Watson.
A dispetto dei suoi modi scarsamente empatici e della sua totale inesperienza in materia Sherlock mostra di avere le idee molto, molto chiare su quello che vuole. Ed ogni occasione che ha per ribadire il concetto non la perde mai.
Quando Watson gli annuncia il suo matrimonio con Mary si mostra palesemente contrariato. Quando la moglie muore gli chiede esplicitamente di tornare a vivere a Baker Street. Quando John si allontana lo richiama sempre vicino a sé. E parla chiaro. A modo suo.
Ovviamente un uomo come lui non può certo esprimere i sentimenti in maniera ‘normale’, soprattutto perché si trova a gestire qualcosa cui non è abituato e a cui non sa dare un nome preciso, navigando in acque a lui totalmente sconosciute. Per questo spesso risulta poco chiaro, per non dire incomprensibile. Ma comunque non si nasconde, non si tira mai indietro quando è il momento di parlare chiaro, ed è sempre molto schietto su quale sia il ruolo di Watson nella sua vita.
L’unico problema è che John proprio non capisce.
A questo proposito la scena BBC dell’invito a cena è straordinaria. Riesce a trasporre questo lato del loro rapporto in una dimensione estremamente simile all’originale ed allo stesso tempo moderna, condensandola in due semplici battute.
Ve lo riporto parola per parola perché non c’è un modo migliore di dirlo, e m’inchino agli sceneggiatori (traduzione mia personale, quindi correggete pure le magagne):

SHERLOCK: I need to get some air to the brain. We’re going out tonight. (Ho bisogno di dare aria al cervello. Stasera usciamo.)
JOHN: Actually - I’ve got a date. (Veramente… Avrei già un appuntamento.)
SHERLOCK: What? (Che cosa?)
JOHN: It’s where two people who like each other go out and have fun. (Sai, è quando due persone che si piacciono escono insieme e vanno a divertirsi.)
SHERLOCK: That’s what I was suggesting. (Era quello che intendevo.)
JOHN: No it wasn’t. At least I hope not... (No, non credo proprio. O al meno lo spero…)

A parte il livello di slash… che qui raggiunge picchi assai elevati (la qual cosa non può farci che piacere). Ma è talmente attinente all’originale questo loro modo di ‘non capirsi’ su questo tipo di questioni, da lasciarmi totalmente impressionata.
Qui il ‘sottotesto’ di Holmes è piuttosto chiaro: in sostanza gli sta dicendo «Tu mi piaci». Ma Watson non coglie il punto, e di fatto gli risponde senza volere «Tu invece no»… XD
Questo  è di fatto il tipo d’incomprensione che spesso capita tra questi due personaggi (ovviamente in altri modi e con altri mezzi, più ‘ottocenteschi’). John non si rende assolutamente conto della posizione dominante che occupa nella vita dell’amico, se non verso la fine, quando ormai la cosa è talmente chiara da non poter essere più fraintesa. E a tal proposito mi viene in mente di nuovo l’incipit di Uno scandalo in Boemia, in cui Watson descrive il loro incontro dopo tanto tempo esordendo con un «Era contento- credo- di vedermi»
Ah tu credi?...
Complimenti per l’acuto spirito deduttivo.
Figlio mio ma più che DIRTELO... cosa deve fare questo pover'uomo?

 

 

Avrei preferito di gran lunga
postare questo extra a ridosso dell’ultimo capitolo della fic,
in modo che i ricordi della precedente lettura fossero il più vivi possibile.
Purtroppo non ci sono riuscita, ma spero comunque che la lunga attesa
non vi abbia impedito di godervi appieno questo ‘finale alternativo’.

  
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