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Autore: imeropa    23/05/2011    1 recensioni
Sotto un temporale, chiusa dentro un auto, con la sola compagnia del suo gatto, una ragazza compie riflessioni e ripercorre alla propria infanzia.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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premessa: Questo è un breve racconto che ho scritto un paio di anni fa e che ho ritrovato tra i miei file. 
è la mia prima storia che pubblico in questo sito. Siate clementi :) 
 
Verso il sole, per una volta

Non era ancora notte quando la pioggia cominciò a cadere.
Cadeva fitta fitta, producendo un rumore martellante sul tettuccio della macchina. Ogni secondo corrispondeva a cento battiti di pioggia e ogni volta che il tergicristalli si muoveva da destra verso sinistra e poi da sinistra verso destra, il vetro era di nuovo completamente bagnato, tanto da non riuscir neanche a distinguere la tenue luce  arancione del semaforo che lampeggiava a intermittenza, sospesa in aria sul limite dell'incrocio sommerso dall'oscurità. 
Il caldo all'interno dell'auto era soffocante.
Il cotone ruvido della  maglietta si appiccicava sulla mia pelle madida di sudore, e ogni volta che appoggiavo la schiena sul sedile di finto cuoio le braccia nude si attaccavano alla stoffa e quando poi mi sporgevo in avanti per tentare di vedere al di là della fitta cortina di pioggia, la pelle si staccava dal sedile producendo strani e buffi rumori. 
Alcune gocce di pioggia penetravano all'interno dell'auto attraverso una fessura e colavano poi lungo il finestrino cadendo sui tappetini già zuppi.  
Pioggia, pioggia, pioggia, lampo, pioggia, tuono. 
E ancora.
Pioggia, pioggia, pioggia, lampo, pioggia, tuono.
A volte dopo il lampo passava più tempo prima del tuono, più o meno due, o tre “pioggia”. 
Quando il lampo cadeva più vicino a me il tuono e il lampo arrivavano quasi contemporaneamente. 
Era in questo modo che trascorrevo il tempo durante quei lunghi momenti di solitudine, suddividendo il tempo in pioggia, lampo, tuono. Puntualmente ogni dieci, venti minuti, il cellulare appoggiato sul cruscotto vibrava e si illuminava con una lucina gialla. Inizialmente, quando ancora speravo che quelle chiamate e quei messaggi non fossero della mia cara sorellina che, con toni a volte esasperati e a volte piagnucolosi, mi chiedeva di ragionare, di riflettere, di non fare stupidaggini e di non far penare la mamma che era tanto debole di nervi, prendevo il cellulare speranzosa. Ma dopo parecchie ore, dopo parecchie successioni di pioggia, lampo, tuono, avevo posato il cellulare il più lontano possibile e l'avevo coperto con un cuscino per non udire quel continuo ronzio. 
Erano passate ore da quando aveva cominciato a piovere, e ancora di più da quando avevo spento l'auto davanti al civico 21, eppure non mi ero ancora stancata di aspettare, non mi ero ancora rassegnata. Sapevo che l'unica persona che poteva accompagnarmi nel mio viaggio, che poteva aiutarmi a cambiare vita, come aveva già fatto in passato, doveva trovarsi in quella casa. Ogni tanto gettavo un'occhiata al sedile del passeggero: vi era posata una grande gabbia di vimini al cui interno dormiva un grasso soriano che, a ogni tuono, si rizzava sulle zampe soffiando. Se mai qualcuno si fosse deciso a scendere da quella grande casa bianca e fosse salito in macchina, avrebbe dovuto posare la gabbia sulle gambe, sperando che il gatto non dimenticasse di trovarsi in una gabbietta e non in una lettiera, perché i sedili posteriori erano completamente pieni di valige e zaini. Quelle valige, quel gatto e quell'auto erano le uniche cose che mi erano rimaste. Quasi dodici ore prima avevo realizzato che non possedevo più una casa, né una famiglia. Non che le avessi mai sentite mie, né che gli fossi mai appartenuta. Con la mia famiglia non avevo un buon rapporto, ma neanche cattivo, a dirla tutta non avevamo proprio un rapporto. La sopportavo, o ancora meglio ne ero abituata. Ero abituata a tutti i battibecchi, ero abituata alle critiche su come mi vestivo o sul fatto che ancora non avessi trovato un marito. Ero abituata alle riunioni di famiglia a ogni festività, a ogni onomastico. La mia famiglia era come un raffreddore: il raffreddore è fastidioso, a volte addirittura snervante, ma non è letale e ci sei abituato, ogni anno puntualmente ritorna, ma sai già cosa aspettarti, un bel po' di starnuti, tanti fazzoletti sporchi e via. Però con il raffreddore basta un'aspirina: la butti giù con un po' d'acqua e tutto passa. Io quella mattina avevo preso la mia aspirina. Non ero tornata neanche da tre giorni a casa dei miei genitori per le feste, che me ne ero andata, ero partita, senza dire nulla. Sapevo che se fossi tornata nel mio appartamento in affitto avrei trovato nella segreteria centinaia di messaggi di mia madre, con il cuore infranto, oppure isterica. Comunque non era quello che volevo. Non erano quelli i messaggi che volevo ascoltare e non volevo tornare a casa. Neanche il povero gatto lo voleva, me lo sentivo, ovviamente non si era mai espresso al riguardo, eppure sapevo che neanche lui voleva tornare nel mio monolocale, arredato con mobili colorati, sedie spaiate e con le pareti ricoperte di poster. 
Suonai un'altra volta il clacson, ma avevo deciso che sarebbe stata l'ultima. Anche perché dubitavo che attraverso il rumore della pioggia, che continuava a cadere fitta, si potesse sentire qualcosa.  
Dopo essere partita da casa dei miei avevo girato a lungo, senza meta, senza riuscire a prendere una decisione. Avevo percorso strade mai viste, ma anche strade note, familiari. Le stesse che vent'anni prima percorrevo tenendo per mano mia madre. Mia madre era una vera signora, con i suoi cappelli, le sue pellicce e i suoi tacchi alti, che la rendevano così bella, così alta e che allo stesso tempo rendevano me così bassa e così insignificante. La ammiravo come solo le bambine vanitose e viziate sanno ammirare le donne belle con i cappelli, le pellicce e i tacchi. Comunque era lungo quelle strade che avevo anche cominciato ed imparato ad odiare quegli stessi cappelli, pellicce e tacchi, come solo le bambine vanitose e viziate, che crescono  con un filtro davanti gli occhi che fa apparire il mondo ovattato e rosa, sanno fare quando aprono gli occhi e scoprono un mondo che non conoscevano. Scoprono anche di non voler essere uguali a quella madre che tanto avevano ammirato, forse per paura di non riuscire ad essere all'altezza oppure più semplicemente per essere una persona diversa.  Lungo quella stessa  strada era stato investito il mio primo cane, Archie, come lo chiamavo io, o anche Archibald I, come lo chiamava mia madre. E anche il secondo cane, Archibald II ovviamente, era stato investito da quelle parti. Poi avevo imparato a non farli uscire dal cortile e Archibald III e IV erano vissuti più a lungo, erano resistiti più o meno tre anni, però ho sempre avuto l'impressione che non fossero felici. Entrambi passavano le giornate guardando la lunga e alberata strada oltre il cancello con sguardo speranzoso e malinconico. Così quando Arcibal IV morì avvelenato dai vicini  e arrivò Archibald V lo feci uscire. Anche lui morì investito.  Con lui fu un record. Visse solo cinque mesi. Era quella la vita che conducevo: ero viziata, ignorante e davo tutto per scontato. Moriva un cane e subito veniva sostituito, ovviamente il cane morto avrebbe avuto un dignitoso funerale al quale avrebbero partecipato tutti i domestici e ovviamente il giardiniere. La nascita di una sorellina per me non fu motivo di gelosia, mi dissero che non sarei stata più la pricipessina della casa perchè lo sarebbe diventato lei, ma io sarei stata la regina e come incoronazione mi regalarono una cavallo. Morì anche lui, però non fu investito. Fu così che arrivai ai miei tredici anni, contenta e ingenua. Convinta che la vita sorridesse a tutti come sorrideva a me. Quell'anno fu particolarmente caldo e secco e ci fu anche una grande novità, arrivarono dei nuovi vicini. Venivano dalla periferia ed erano, a detta di mia madre, rozzi e indegni della nostra attenzione. Però la mi attenzione fu catturata dalla bambina. Il giorno che arrivarono era il giorno del mio quattordicesimo compleanno e avevo ricevuto in dono il mio primo profumo. Stavo dando una festa in giardino quando vidi questa BMW scolorita fermarsi davanti al civico 21. In principio notai solo una donna bella quando mia madre, ma lei non indossava tacchi, né pelliccia, né cappelli; indossava una camicia azzurra e dei pantaloni a vita alta. Mia madre non aveva mai indossato i pantaloni, indossava dei fuseaux per fare ginnastica, ma non l'avevo mai vista indossare pantaloni  per uscire di casa. Dopo la donna scese dall'auto una bambina vestita uguale alla madre. Io guardai il mio cappello e il mio vestito e poi guardai mia madre, indossavamo abiti quasi identici. Così capii che quella bambina voleva essere uguale a sua madre, bellissima e altissima, come io avevo sempre desiderato essere uguale alla mia, però in quel momento realizzai che anch'io volevo essere uguale alla sua, con pantaloni a vita alta e camice di lino azzurre. Diventammo amiche e come per magia cominciai ad indossare i pantaloni e non misi mai il profumo che mi avevano regalato. Nei mesi successivi capii anche che si poteva vivere senza uno squadrone di domestici, che i cani potevano vivere più di cinque mesi e che ci si poteva divertire anche stando sedute sotto un albero immaginando mondi lontani e leggendo libri proibiti. L'anno dopo però quella stessa sorte che aveva condotto i nuovi vicini lungo quelle strade, li portò via. Ma era troppo tardi, ormai mi ero convertita, ero cambiata ed ero cresciuta. Ogni inverno aspettavo con ansia l'estate per riabbracciare la mia amica del civico 21. Fu più o meno in quel periodo che cominciai a covare insofferenza per quelle stanze bianche e luminose di quella casa tanto grande ma anche tanto opprimente, per quei gioielli, per quei cappelli e per quelle pellicce. Cominciai a capire che migliaia di visoni morivano per coprire le spalle di mia madre per la quale però il caldo non era mai abbastanza, io invece indossavo un eskimo comprato in una svendita. Il giorno del mio diciottesimo compleanno me ne andai. Fu una scelta coraggiosa e stupida. Segnai una divisione ancora più netta tra me e la mia famiglia, però non seppi mai costruirmi la vita che volevo. Non ero più la regina e ne ero felice, ma non ero nessun altro.
Ricordo quella mattina: mi ero svegliata presto, ma il sole era già alto e nessuna nuvola sporcava il cielo azzurro terso. Ricordo di aver preso dall'armadio alcuni vestiti, quelli che mia madre chiamava stracci e che guardava ogni volta con disapprovazione storcendo il naso, e di averli infilati dentro uno zaino. Ricordo di non aver neanche guardato all'interno dell'armadio mentre lo facevo, per abitudine ormai ero cieca davanti a tutti quegli abiti bianchi e rosa, non tanto diversi da quelli che mi emozionavano da piccola perché facevano la ruota. Per la prima volta diedi un bacio sulla guancia della domestica uscendo di casa. Non salutai mia madre, non era in casa. Era andata al circolo del bridge con le amiche, oppure al club a giocare a tennis, questo voleva dire che in quel momento probabilmente si stava sbattendo il barista del circolo o l'allenatore di tennis, tra un cocktail e l'altro. "Mammina" avrei voluto dirle "sono le nove di mattina, aspetta almeno le dodici per questo". Comunque sia non l'avrei vista prima di cena, quando avremmo brindato a me, la reginetta della casa, e ai miei diciotto anni. 
Zaino in spalla, uscii di casa. Non mi voltai indietro nemmeno una volta. Mi fermai solo quando sentii un flebile miagolio. Non appena vidi il gattino nascosto dentro un cespuglio di rose, lo presi, facendo molta attenzione a non pungermi con le spine ed a non ferire il cucciolo. Ricordo che appena salii in macchina, con il gattino avvolto nella mia camicia, suonai il clacson, su di giri. Non passò che un attimo e la vidi uscire dal civico 21, bellissima, nel suo pigiama estivo, ancora assonnata. Si affacciò al finestrino e fece un versetto contento vedendo il gattino.
"Allora te ne vai?" disse. 
Risposi che si, me ne andavo e che non sarei più tornata. Le dissi anche che volevo che venisse con me, che mi sarebbe mancata.
"Non posso" rispose.
Dissi che aveva cambiato le mia vita, esattamente quattro anni prima, quando ci eravamo guardate con diffidenza, per la prima volta, io nel mio vestito, lei nella sua camicia.
"Oddio ti voglio bene e mi mancherai da morire, lo sai vero?" 
Dissi che lo sapevo. 
"Buon compleanno" mi disse dandomi un leggero bacio sulle labbra.
Misi in moto e me ne andai.
Finalmente avevo la mia indipendenza, la mia libertà. Ma nonostante ciò continuavo a non essere altro che una bambina impaurita e bisognosa di un qualcuno da seguire, fosse una mamma, fosse una vicina di casa. Quell'indipendenza era tanto desiderata quanto fittizia. Non ebbi mai il coraggio di distaccarmi completamente dalla mia famiglia, da mia madre. Dopo i primi mesi di separazione la chiamai, dicendole che in fondo mi macava.
"Anche tu cara." disse. "Vienici a trovare per Natale".
Si, sarei andata a trovarli, quel Natale. E quella Pasqua. E quelli a seguire. 
Quell'autonomia che avevo costruito la sentivo infrangersi ogni volta di più, pezzo per pezzo, quando andavo a trovare i miei genitori, sotto i loro commenti maligni, e anche ogni volta pensavo a quei mondi lontani che in quella lunga e calda estate avevo tanto sognato. 
Ed erano stati proprio quei ricordi quella mattina che mi avevano spinto a lasciare la grande villa di campagna che i miei genitori avevano acquistato poco dopo il mio trasferimento e mi avevano spinto a ripercorrere quelle vie.  
Allora mi resi conto che non stavo aspettando nessuno. Anzi che stavo aspettando Godot: un qualcuno che non sarebbe mai arrivato. A meno che non avessi avuto abbastanza coraggio da accendere il motore e partire verso un nuovo futuro, su una nuova strada. Ma io quel coraggio non lo avevo, e se non ero io ad andare incontro ad una nuova vita, sicuramente non sarebbe stata questa nuova vita che tanto agognavo a venirmi incontro. Così infilai la chiave nel quadro, accesi il motore e feci inversione. Continuava a piovere. Chissà perché avevo l'impressione che se avessi tirato dritto per quella strada inesplorata, se avessi fatto una scelta coraggiosa probabilmente avrebbe smesso di piovere e avrei guidato in direzione di quelle fantastiche nuvole rosa colorate dalla luce di un sole nascente. Invece l'alba in questa mia scelta si fondeva con la notte, senza lasciare traccia del suo passaggio. Arrivava invisibile, accompagnata da un sole nascosto da infinite nuvole nere. E quest'alba non era un'immagine pittoresca, non era nient'altro che una convenzione, un passaggio dalla notte al giorno, dal buio alla luce, che, bagnato da quell'instancabile pioggia, non esisteva. 
Quella mattina tornai a casa, ascoltai tutti i messaggi in segreteria, dal primo all'ultimo, finché la lucina rossa non smise di lampeggiare; levai il silenzioso dal cellulare e lo appoggiai sul tavolo rotondo della cucina. Aprii la gabbia del gatto che zampettò fuori stendendo le zampe e stirando la schiena, immediatamente saltò sul divano e vi si acciambellò sopra lasciando piccole impronte di zampette bagnate dalla pipì sul pavimento. Tolsi il giornale sporco dalla gabbia di vimini e lo buttai, presi dell'aceto e uno straccio e mi misi a pulire il pavimento. Non avevo ancora aperto le finestre, e la casa odorava di chiuso, ma non mi importava. Forse il futuro che mi aspettava, quello che avevo scelto prevedeva il pulire la pipì di gatto all'infinito, ma quella mattina non ne potevo più della pioggia, almeno quel giorno volevo il sole.
  
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