Per la prima volta, sono davvero davvero DAVVERO perplessa sulla
riuscita di una fic. È la prima volta che uso
la prima persona e per l’ennesima volta ho provato a me stessa di non
essere assolutamente capace a fare delle descrizioni di luoghi (e a fare dello humor. Ma è davvero incredibile, non riesco a
inventarmi una battuta divertente che sia una. È imbarazzante). E e e sì, in generale il mio
livello di soddisfazione per questo capitolo è neutro. Per una volta,
affermo esplicitamente che le critiche sono molto ben accette. Ah, e in caso
tra i lettori ci sia qualcuno che ha letto anche altre mie fic
(ne dubito), sappiate che quella RoxasSora
continuerà, è in fase di scrittura, è solo che
quest’anno ho la maturità e quindi non ho mai un cavolo di tempo
per scrivere. Per quanto riguarda l’altra fic LaviAllen, mh. Teoricamente il
terzo capitolo ce l’ho pronto da secoli, ma mi sono un po’
inceppata, per ora non credo proprio che la continuerò. QUESTA INVECE
SÌ. LO GIURO (anche perché ho già predisposto tutto. Semplicemente,
procederà piuttosto lentamente, soprattutto in questo periodo).
(La penultima parte di questo
capitolo mi rattrista. Mi sembra di averla scritta da schifo, quindii scusate, lol. Magari
quando farò il secondo, la riscriverò meglio .-.)
Disclaimer: Non mio. Se lo fosse, mi
impegnerei di più nel disegnare gli ultimi capitoli (cosa diavolo
è successo a quei disegni?)
. C h a p t e r 1 .
~~~
“Scrutando in quella profonda
oscurità, rimasi a lungo, stupito, impaurito,
sospettoso, sognando sogni che nessun mortale mai ha osato sognare.”
(
E d g a r A l l
a n P o e )
~~~
Ha i piedi immersi
nell’acqua.
La risacca schiumosa lambisce
gentilmente le sue caviglie, trascinando avanti e indietro, in un unico
ipnotico movimento, la fine sabbia bianca. Conchiglie rotte, striate
d’ambra, giacciono sparpagliate lungo la riva dell’isola,
semi-nascoste dalla sabbia asciutta, e orecchie di Venere occhieggiano
brillanti nella loro cangiante sfumatura perlacea—dove mi trovo?
I raggi di sole riscaldano
impietosi la piccola spiaggetta, e si riversano
sull’immenso mare color acquamarina che la bagna. Colpiscono la sua
pelle, sono laceranti. Il sole stesso è lacerante, una sfera
incandescente stagliata nell’infinito azzurro limpido del cielo—c’è qualcuno qui?
Nell’aria aleggiano il
calmo suono delle onde che si infrangono a riva e gli stridii di uccelli. La
fresca brezza marina gli smuove la morbida maglia bianca e slargata, che con
difficoltà rimane aggrappata alle sue spalle senza scivolare lungo le
braccia pallide—Voglio tornare a
casa.
Un brivido gli percorre rapido la
schiena, lasciando la pelle d’oca lungo il suo tragitto. Sulla sabbia,
definite come scritte d’inchiostro nero su un foglio bianco, si muovono
fluide le ombre dei gabbiani.
Il cielo è limpido, e
vuoto.
Non sa cosa fare. Rimane
immobile, con i piedi immersi nell’acqua, a guardare le ombre che
scivolano sulla sabbia.
Davanti a lui si stende un bosco
di frassini, così fitto da impedire alla luce di filtrare oltre le
chiome. È una macchia scura fuori luogo in uno scenario da cartolina
estiva – c’è una
penna? Così la firmo, torno a casa, tutto questo può finire
–, una nota stonata in una sinfonia di Beethoven—non
dovrebbe essere lì. Né il bosco, né lui. Spera di non
doversi avvicinare.
Ma il suo corpo, scopre di
lì a poco, ha una volontà propria. Muove un passo avanti, con
incertezza, perché non sembra esserci nessun altro nelle vicinanze,
eppure ha la sensazione che qualcuno lo stia spiando dall’oscurità
del bosco.
Non vuole avvicinarsi, non vuole
entrare. Una vocina da un angolo recondito nella sua testa gli suggerisce,
confermando i suoi timori, che non
dovresti trovarti qui. Ma non ha nessun posto dove andare, intorno a lui
c’è solo sabbia, mare, altra sabbia. Quindi resta fermo
dov’è, e tenta di riflettere, finché non si accorge che la
sua testa sembra essere completamente vuota. Nessun pensiero, nessun idea.
Ma in quel vuoto, sente una
strana presenza. C’è qualcosa acciambellato nel buio, ai margini
della sua mente, che osserva e sussurra, osserva
e sussurra, e continua continua continua – chiudi
quella bocca – un’intelligenza autonoma, un parassita – più di uno, parlano tra loro, potete
stare zitti? – che non
è in grado di controllare. La ignora meglio che può.
Il suo piede sprofonda un poco
nella fanghiglia scura, fuori dall’acqua, fino a che qualcosa di piccolo,
sepolto sotto la sabbia umida, ne sfiora la pianta e—solleva il piede.
Nell’impronta che ha
lasciato vi è adagiato un piccolo pesce pagliaccio – il suo nome
scientifico è amphiprion percula. Non
sa come faccia a saperlo ma non si ferma a riflettere –, gli occhietti
giallastri spalancati e vitrei e le fragili pinne variopinte esanimi. Dev’esserci qualcosa di affascinante e allo stesso
tempo agghiacciante nella vista dell’animale senza vita, perché
altrimenti non potrebbe spiegare come mai non riesce a smettere di fissarlo.
E lo sta ancora osservando quando
questo inizia a sciogliersi lentamente e quella stessa vocina di prima gli
spiega che i pesci non si sciolgono,
ma il pesce è lì davanti e si sta sciogliendo e lui risponde
mentalmente che io credo in quel che
vedo, non dimentico quel che vedo,
e allora si sente stupido, perché sta discutendo con una voce nella sua
testa. Ignora anche quella.
I suoi colori sempre più
iridescenti cominciano a mescolarsi nell’acqua in un turbinio di strisce
bianche e nere e arancioni e – lo scheletro è ancora lì, le
sottili lische appuntite abbandonate, incagliate nella sabbia bollente, ed
è uno strano scheletro, perché sembra fatto di metallo ed ha una
forma innaturale – e il mare è all’improvviso rosso, come il
cielo soprastante – sangue,
sembra un mare di sangue e il sangue cola dal sole in gocce grandi e
rumorose che cadono nell’oceano – e deve esserci un terremoto
perché gli stridii dei gabbiani si perdono in un grido acuto e
straziante – e la voce tenta di spiegargli che i terremoti non gridano ma non
me ne frega niente perché sa che dietro tutto ciò, in questo fottuto mondo incasinato un senso
c’è, deve esserci. Un
qualcosa di importante sta accadendo, gli manca così poco per avere la
spiegazione che sta cercando stretta nel suo pugno, deve solo capire
perché i gabbiani hanno lasciato le loro ombre sulla spiaggia – e
la sabbia comincia a tremare sotto le piante dei suoi piedi, mentre dall’acqua
emergono maestose in un boato fragoroso delle rovine di pietra, macerie di
colonne e archi e soffitti a volta.
E all’improvviso, tutto si
calma.
È appena apparso un intero
mondo in mezzo al mare, fatto di macerie e ricordi, un mondo nato morto, la
traccia di un passato grandioso, o di un qualcosa che avrebbe potuto esserlo, inondato di luce rossa e ombre nere
e—magari c’è qualcuno,
ma non vuole saperlo. Sembra vicino, probabilmente se allungasse una mano
potrebbe toccare le nude pareti di roccia, sentire il raccapricciante dolore
racchiuso in esse— non allunga la mano.
Nel cielo si staglia una
mezzaluna, pallida e argentea, butterata da crateri e dai contorni zigrinati.
La superficie dell’acqua ora è immobile e liscia come una lastra di
vetro e in essa si specchia la luna. Ma il suo riflesso è nero come la
pece, orrendo, e non voglio stare qui,
non voglio, fatemi uscire, fatemi uscire da qui, non voglio vedere—
E dopodiché le sue gambe
prendono a muoversi da sole, lo fanno voltare – non voglio vedere – e lo conducono verso i limiti del bosco
– la voce grida più che mai di non
entrare, e qualcosa si annoda nel suo stomaco alla vista dei grossi tronchi
scuri che ora lo sovrastano, non è sicuro di poter respirare bene— una parte di lui desidera
ritrovare quello scheletro,
dov’è andato? Un’altra lo teme più del bosco
stesso.
In un attimo è davanti
all’entrata del bosco, e non riesce ad arretrare. Le sue gambe tremano, e
sente i polmoni annaspare per nuova aria. La voce gli dice di non voltarti, perché sta succedendo qualcosa in quel mare
rosso e quel qualcosa ha intenzione di avvicinarsi, ma un balenio argentato si
fa scorgere tra gli alberi e attira la sua attenzione – qualcosa si sta avvicinando.
C’è una farfalla,
un’esile farfalla dalle ali rosse, bordate d’argento, che fluttua
tra le chiome e si nasconde alla luce malsana. Sbatte le sue grandi ali, grandi
quasi quanto una sua mano, ma sta ferma, sospesa a mezz’aria, non si
muove di un millimetro.
Libera un lungo sospiro che non
si era accorto di stare trattenendo. Allunga la mano, per raggiungerla, per
toccarla, perché è curiosa, no?, una farfalla così
grande e così bella. Ma quella scivola via più lontana, ancora
più all’interno del bosco buio – non ti seguirò, non entrerò.
Non gli permette di allontanarsi
troppo, le sue gambe ancora tremanti procedono.
Inizia a chiedersi se sia sano di
mente, perché un attimo fa non voleva seguirla. Questa volta, la voce
non commenta. Ne deduce che la risposta sia un no, e una piccola, minuscola
parte di lui, nascosta da qualche parte, trova tutto ciò divertente,
perché persino le voci pensano
che sia pazzo.
Sente quel qualcosa, accoccolato
nel silenzio della sua mente, rispondere alla realizzazione con delle fusa
sommesse.
Un altro passo, e
all’improvviso capisce: quella farfalla è la spiegazione che
cercava, il motivo del suo essere qui, è tutto – e l’unico essere vivente che ha incontrato
finora – e se la lasciasse andare non avrebbe speranza di uscire.
Entra nel bosco.
E, inaspettatamente,
un’abbagliante luce bianca lo avvolge, e una voce profonda si alza, e
sembra provenire da ogni parte intorno a lui.
“Oi, stupido ragazzo, svegliati.”
oOoOoOoOoOo
“Oi,
stupido ragazzo, svegliati,” grugnì la voce roca del mio tutore
dalla porta della stanza.
Un fioco raggio di luce
artificiale, proveniente dal corridoio, mi colpì le palpebre socchiuse,
portandomi automaticamente a strizzarle con più forza del necessario e a
voltarmi velocemente – per quanto le mie capacità motorie ancora
addormentate potessero permetterlo – verso l’altro lato della
stanza.
Cross doveva già star
fumando la sua prima sigaretta del giorno, perché nell’aria chiusa
della camera iniziava ad aleggiare un vago, fastidioso odore di fumo e
nicotina. Si sentì un sommesso click,
e la lampada sul soffitto si accese scacciando la piacevole oscurità che
i miei occhi ancora agognavano.
Rifiutandomi di aprire le
palpebre, mugugnai in risposta parole incomprensibili persino a me stesso,
mentre allungavo alla cieca una mano per afferrare un orlo della coperta e
tirarmela oltre la testa.
Non fu la scelta migliore: in un
attimo sentii le calde coperte abbandonare il mio corpo, strattonate
violentemente da un lato, e il freddo mattutino attaccare la mia pelle nuda,
coperta solo da un paio di boxer scoloriti. Costretto ad aprire gli occhi,
lanciai al colpevole un’occhiata omicida – la quale non dava
risultati concreti, ma soddisfaceva in parte la mia necessità di rendere
chiaro a Cross che il mio unico desiderio della giornata sarebbe stato quello
di vederlo rantolare ai piedi del mio letto in preda a inimmaginabili dolori.
Ovviamente Cross, neppur
minimamente intaccato dall’atmosfera pregna di istinto omicida represso,
esibiva un ghigno strafottente, mantenendo il mozzicone di sigaretta
precariamente in equilibrio a un angolo della bocca.
“Dio santo!” gli ringhiai contro, coprendomi rapidamente gli
occhi con una mano, rifiutandomi di guardare per un secondo di più
quella faccia soddisfatta – realizzai con dolore che c’era
un’alta possibilità che avesse disturbato il mio sonno solo per
puro divertimento. Per questioni di karma, la mattina non si prospettava
felice. Prevedevo catastrofi domestiche nell’arco della giornata.
“Sì, lui è
ciò che vedrai se entro venti secondi non scendi da questo letto e non
mi dai ascolto,” Cross asserì con fare minaccioso, prima di
voltarsi e tornare indietro.
“Ti aspetto in
cucina,” aggiunse, e se ne andò, richiudendo la porta dietro di
sé. I suoi passi risuonarono pesanti nella sua discesa lungo le scale,
mentre si dirigeva al piano terra.
Rimasi immobile, sdraiato sulla
schiena, per qualche secondo, con la netta sensazione nelle ossa di essermi
svegliato più stanco di quanto lo fossi quando ero andato a dormire
– gli incontri ravvicinati con il Maestro di prima mattina potevano dare
quest’effetto. Grazie al cielo erano rari. O almeno, così ravvicinati erano rari. Di solito, la distanza minima
che raggiungevamo tra di noi di mattina era quella tra la cucina e il salotto,
quest’ultimo l’usuale punto di bevute notturne di Cross.
Scoraggiato dalla vita, lasciai
lentamente scivolare la mano dalla fronte e lanciai un’occhiata obliqua
alla sveglia digitale adagiata sul suo comodino, insolitamente silenziosa.
Aggrottai le sopracciglia.
“Sono le sei del mattino! Perché diamine
mi hai svegliato, stupido Maestro?!” gridai esasperato, sapendo che Cross
avrebbe sentito, ma probabilmente non si sarebbe degnato di rispondere. Mi
girai su un fianco e cacciai la testa sotto il cuscino, non trovando la forza
necessaria per alzarmi, spegnere la luce e tornare al mio meritato sonno
– meritato per un motivo di fatto inesistente se non quello di aver
sopportato Cross per l’intera giornata
precedente, che personalmente, ritenevo fosse sufficiente per guadagnare il
sonno di una vita.
“Smettila di lagnarti
inutilmente, e scendi subito, quei dieci secondi stanno passando in
fretta!” arrivò da sotto la voce di Cross, ancor troppo forte per
i miei gusti, seppur attutita da muri e cuscino.
Considerai seriamente
l’idea di ignorare il comando. Erano le sei del mattino, e Cross non mi sopportava, ma pensai, con una voce
interiore spiacevolmente vicina a un pietoso mugolio, che non meritavo un tale
trattamento. Ritornai rapidamente con la mente alla sera prima, cercando di
ricordare se avevo lavato i piatti e pulito la cucina, e il ricordo era
lì, limpido e pulito e simile a quello di ogni sera della mia vita.
Quindi questa non era una punizione. Perciò doveva esserci per forza un
altro motivo, anche se non riuscivo a immaginare quale.
Vinto da una curiosità che
non credevo di possedere – e giurando a me stesso che sarei tornato a
dormire se il motivo non fosse stato valido – con un grugnito rotolai
fino al bordo del letto. Ma la stanchezza residua doveva avermi fatto calcolare
male le distanze perché non ebbi tempo di realizzare l’improvviso
vuoto sotto di me che caddi a terra con un tonfo sordo.
Il dolore attaccò
prontamente la mia spalla e si irradiò lungo il braccio, e mi lasciai
sfuggire un gemito di frustrazione.
‘La
vita ti sorride, oggi, Allen,’
pensai sarcasticamente, e cominciai con fatica a districarmi dal groviglio di
coperte e lenzuola che avevo trascinato giù con me, con un grosso
dispendio di energia fisica.
“Ragazzo, non voglio
passare il resto della mia gloriosa vita aspettando te,” abbaiò di
nuovo Cross dalla cucina.
Con un finale e decisivo
strattone, mi liberai e mi issai faticosamente in piedi. “Fai finta che
tu stia aspettando una delle tue innumerevoli donne. L’attesa ti
risulterà più piacevole,” gli urlai di rimando, mentre
cercavo con lo sguardo la maglietta che avevo usato il giorno prima. I miei
occhi sembravano non riuscire a rimanere aperti. Passai una mano sulla faccia
tentando di scacciare le tracce di sonno residue che mi appesantivano le
palpebre. Quando riaprii gli occhi, adocchiai finalmente la maglietta,
abbandonata per terra ai piedi del letto, tutta arruffata e semi-nascosta tra i
lembi bianchi delle lenzuola.
Da sotto risuonò un
grugnito di divertimento. “Seppure tu abbia le fattezze di una ragazza,
con quel tuo corpo mingherlino e il visetto angelico,” sentii
distintamente una vena ingrossarsi, pulsante, sulla mia fronte, “non lo
sei. E se tu lo fossi, non ti avrei
fatto scomodare dal letto, ma mi sarei unito a te nel momento in cui la porta
fosse stata aperta.” Ci fu una pausa. “Ew, un’immagine di cattivo
gusto. Davvero di cattivo gusto. Ora sento il bisogno di una ragazza vera, con
una quarta e tutto il resto.”
Rabbrividii. “Non
preoccuparti, è un sentimento reciproco. E per quanto ti possa sembrare
inspiegabile, non sono interessato a conoscere i tuoi gusti in fatto di femmine
nel dettaglio.”
Infilatomi la maglietta, aprii la
porta della stanza e percorsi il breve corridoio che precedeva le scale, prima
di trottare giù e infilarmi in cucina, lanciando uno sguardo veloce alle
bottiglie vuote di vodka e gin sparse sul tappeto del salotto che sarebbe
toccato a me riordinare.
“Iniziavo a dubitare che
saresti mai arrivato.” Appoggiato contro il mobile del lavandino, vi era
il mio peggior incubo, con la sua folta criniera di lunghi capelli rossi e uno
sguardo malevolo nei suoi occhi ambrati, dietro le fini lenti dei raffinati
occhiali rettangolari adagiati sul naso. Stranamente già vestito, con
una camicia sobria e pantaloni di pelle neri infilati dentro due alti anfibi
cinghiati dello stesso colore, Cross era intento a versarsi del gin –
probabilmente già il terzo round – nella tazza che teneva in mano,
come fosse latte.
“Stai zitto,”
borbottai stizzito, prima di lanciare un’occhiata critica alla tazza e
alla bottiglia semivuota. “Ma è sano?” chiesi disgustato, “Voglio dire, sono le sei del
mattino.”
Per tutta risposta, Cross
allungò la tazza verso la mia faccia, e io arricciai involontariamente
il naso in una smorfia di disgusto quando il forte odore mi arrivò alle
narici.
“Potrebbero essere le sei e
trenta, ormai, per quanto tempo hai
impiegato ad alzarti,” ribatté Cross con aria di sfida. Ripose con
poca grazia la bottiglia sul tavolo posto al centro della cucina, e alzò
la tazza alle labbra, sorseggiando il gin con gusto, “E dov’è
il rispetto per il tuo Maestro, comunque?”
Mi lasciai cadere su uno degli
sgabelli intorno al tavolo e appoggiai la fronte sulla superficie legnosa
davanti a me, confortevolmente fredda. Stavo rimpiangendo di essermi alzato dal
mio comodo letto, se il sacrificio era stato compiuto davvero solo per questa
interessante conversazione. “Se mai ne ho avuto, è rimasto a
letto. Perché sai, non è abituato a svegliarsi alle sei del mattino.”
Cross sbuffò sprezzante,
“Essere mattiniero per una volta non ti ucciderà, stupido
ragazzo.” La sua mano si stava già allungando verso la bottiglia
di alcool per una nuova razione. “E poi, ti ho svegliato per un
motivo.” Dopo una breve pausa e uno schiocco di labbra, aggiunse con fare
pensieroso, “Oltre, ovviamente, alla pura soddisfazione che mi causa
l’importunarti psicologicamente e fisicamente.”
Ignorando l’ultima parte
– se si era costretti a vivere con Cross, imparare semplicemente ad ignorare certe cose era indispensabile
– sollevai la testa per indirizzargli uno sguardo inquisitorio.
In risposta Cross distolse gli
occhi da me e li puntò sulla finestra alle mie spalle, attraverso cui si
poteva ancora vedere la luna nel cielo blu. La sua espressione si era fatta
più seria. “Devo partire.”
Per qualche motivo, che fosse per
effetto sonoro o per la mia immaginazione, le parole sembrarono rimbombare tra
i muri della piccola cucina, nel silenzio che seguì.
Poi il significato della frase mi
colpì, improvviso come un fulmine, e mi lasciò stupefatto.
Inarcai un sopracciglio.
“Da quando…”
cominciai, fissando il vuoto con fare sinceramente perplesso, “…ti preoccupi di avvisarmi per tempo delle tue
partenze improvvise?”
Cross doveva aver ricevuto in
dono da un qualche dio il potere dell’ubiquità, durante la notte,
perché avrei giurato che un secondo prima il Maestro non si fosse
trovato a un passo da me, con la mano sinistra sollevata e pronta a mollarmi un
sonoro scappellotto.
Diedi la colpa alla infima
spaziosità della cucina.
“Ahi!” esclamai, un
po’ per il dolore un po’ per la sorpresa, “Cosa ho detto
questa volta?!”
“Piccolo moccioso
insolente,” ribatté Cross con un sorrisetto distorto che non
distoglieva l’attenzione dalla vena protuberante sulla tempia. “Io
ti avviso sempre delle mie partenze!” sbottò, allungandosi verso
il piccolo portacenere al centro del tavolo per riprendere la sigaretta
abbandonata precedentemente.
Massaggiandomi il collo
dolorante, lo guardai scettico, perché per un divertente attimo mi era
sembrato sinceramente convinto.
“Lasciare un
biglietto,” iniziai, con lo stesso tono pacato di un adulto che deve
spiegare a un bambino cos’è sbagliato e cos’è giusto,
“con su scritto ‘starò
via per qualche giorno. Non bruciare la
casa e non morire, non vali così tante scartoffie’,”
recitai in un’imitazione a mio parere perfetta della voce raspa del mio
tutore, “non è comunemente considerato un ‘avviso per tempo’!”
Cross alzò gli occhi al
cielo mentre inspirava una boccata di fumo. “Accontentati di quello che
la vita ti dà,” disse filosoficamente.
“Troppo presto per bere
idiozie filosofiche,” commentai con astio, prima di essere colto da una
realizzazione che mi fece sorridere ironicamente, “Quindi è per
questo che ti sei scolato tre quarti della tua riserva di alcool? Paura che tu
non abbia l’occasione di bere in servizio? Che marcisca o che la usi per
lanciare qualche party con gli amici mentre sei via?”
Perché conoscendo il
Maestro, poteva benissimo essere la verità.
“Sei troppo strano per
poter stringere amicizie con qualsiasi umano entro i primi tre mesi di
scuola,” ribatté Cross.
Ow.
Quello aveva fatto male. Principalmente perché era vero – feci
finta di non notare come la mia mano destra fosse andata automaticamente a
stringere il braccio sinistro, quindi la portai rapidamente distesa sul tavolo.
E inoltre questo mi rammentò
la spiacevole verità che quel giorno sarebbe stato il mio primo giorno
nella nuova scuola, in seguito al trasferimento. Ancora, ow.
La valutazione della giornata
stava pian piano sfociando in un drammatico ‘Gialla’.
Uno scomodo silenzio calò
nella cucina, sia perché io era ancora troppo addormentato per poter
trovare una tagliente, o quanto meno logica, battuta di ritorno – ma era
almeno possibile? – e il pensiero del primo giorno di scuola mi aveva
gettato in una spirale di panico interiore che stavo tentando di tenere sotto
controllo, sia perché Cross non era capace di chiedere scusa, o aveva
già la mente intirizzita dall’alcool o semplicemente se ne
sbatteva. Forse il silenzio dava fastidio solo a me, effettivamente.
“Magari no, ha tutte le
qualità per essere una Giornata Arancione…”
borbottai scorato, prima di rendermi conto di aver effettivamente detto
qualcosa che avrei preferito soltanto pensare. Chiusi la bocca con uno scatto e
lanciai un’occhiata a Cross per controllare se mi avesse sentito o meno.
La sua faccia contratta in una smorfia disgustata fu sufficiente a darmi la
risposta.
“Cristo, ragazzo,” Cross mi guardò come se fossi un
alieno, “hai intenzione di continuare a fare quegli stupidi quaderni
colorati delle giornate? Potrei iniziare a preoccuparmi,”
disse con tono sarcastico. “È così patetico.”
Lo guardai torvo. “Per tua
informazione, ho smesso un bel po’ di tempo fa.”
(I suddetti quaderni colorati
erano semplicemente una vecchia abitudine che avevo quand’ero più
giovane in base alla quale ogni giorno coloravo su un apposito quaderno un
quadrato rappresentante il giorno appena trascorso di un particolare colore che
significava un certo andamento della giornata. Nonostante avessi ormai smesso
di farlo, ogni tanto mi veniva spontaneo pensare alla giornata in base alla
breve legenda dei quaderni. Gialla e Arancione, in particolare, significavano
rispettivamente ‘Tendente allo schifo’ e
‘Schifo’.)
E seppur condividessi
l’idea che era un’abitudine per certi versi un po’ triste,
non potevo permettergli di insultare per l’ennesima volta le mie
attività private, per quante strane fossero. Non capivo,
d’altronde, cosa potesse fregargliene a lui di quel che facevo io nel
tempo libero – a meno che non lo passassi a bere i suoi alcolici, devastare il vicinato e picchiare le vecchiette.
Cross chiuse gli occhi stizzito,
e li riaprì in attimo dopo, schiarendosi rumorosamente la voce,
“Stavo dicendo.”
Ah, giusto. La partenza.
“Probabilmente starò
via per tre mesi. Forse di più. Magari quattro. È un caso… importante.”
Sgranai gli occhi. Non mi era
sfuggito il modo in cui Cross si era fermato per soppesare cautamente le sue
parole. Non era da Cross. E ciò mi rendeva inquieto.
Cross non aveva mai spiegato con
precisione che lavoro faceva. Sapevo che in qualche modo collaborava con la
polizia e che il suo ruolo era piuttosto importante, ma fino a quale
estensione, il mio tutore non mi aveva concesso di saperlo. Avevo le mie
personali teorie sulla faccenda, ovviamente. Ma non ne avevo mai discusso con
nessuno, e da quando il mio terzo tentativo – particolarmente insistente
– di interrogare Cross sull’argomento era terminato con uno scontro
verbale quasi sfociato nella lotta libera e il compito di pagare i debiti
alcolici dell’altro entro una settimana, non avevo più osato
chiedere.
Quindi, per quanto tutto questo
fosse misterioso, non era raro che il Maestro se ne andasse per svariati giorni
senza far avere sue notizie, per poi ritornare nel pieno della notte con una
bottiglia di rhum economico in una mano e il reggiseno in raso di una qualche
donna probabilmente incontrata sulla via del ritorno nell’altra.
Non che le sue assenze mi
dispiacessero. Era sempre un piacevole cambiamento non avere
quell’irruento uomo in casa ogni giorno a bere, invitare donne e abusare
verbalmente di me in ogni modo possibile e immaginabile.
Ma comunque, un’assenza
così lunga era piuttosto rara, quattro mesi sembravano un po’
troppo per… qualsiasi cosa lui facesse.
Non che avrei mai ammesso ad
anima viva, tantomeno a Cross, di essere in alcun modo affezionato a lui.
Avevamo un rapporto piuttosto inusuale,
per così dire, e di certo non fondato sull’affetto e il rispetto
reciproco – ogni tanto non ero neanche sicuro che Cross potesse provare
un sentimento come l’‘affetto’. Ma sotto tutti gli insulti e
i maltrattamenti, mi piaceva ingenuamente pensare che avessimo un rapporto
unico e vero, per quanto strano fosse.
(In realtà mi ero chiesto
più volte in passato il motivo per cui avesse deciso di prendermi con
sé, perché se c’era una cosa che era stata messa in chiaro
da Cross stesso fin dall’inizio, era che lui odiava i bambini. Se non il
mondo in generale, escluso il genere femminile. Quindi rimaneva un mistero.
Cross rimaneva un mistero.)
E inoltre, sfortunatamente, era
nella mia natura preoccuparmi. Non tanto per Cross, perché ero sicuro
che lui potesse sfuggire a qualsiasi guaio in cui si sarebbe mai cacciato. Ma… c’era qualcosa, in me, che non sopportava
l’idea di essere abbandonato.
“Quattro mesi?”
chiesi titubante, facendo di tutto per nascondere l’ansia che rischiava
di far tremare la mia voce, “Non è un po’ più del
solito?”
Cross si voltò verso di me
e mi lanciò un’occhiata penetrante al di sopra dei suoi occhiali
rettangolari.
Distolsi lo sguardo, agitandomi
nervosamente sullo sgabello. Mi sentivo come un paziente in una sala
operatoria, pronto ad essere aperto per permettere ai dottori di guardare
all’interno – ogni tanto lo sguardo di Cross dava quella spiacevole
sensazione di essere ispezionato da cima a fondo, senza possibilità di
nascondersi.
Non volevo che capisse come mi
sentivo, non volevo apparire debole in alcun modo.
Inspirando, incrociai le braccia
sul torace con finto fare scocciato. “Non che mi importi di te. Voglio
dire, l’unica cosa che mi preoccupa sono le orde di tuoi amici creditori
che prima o poi riusciranno a rintracciare il nostro nuovo indirizzo e, non
trovandoti, se la prenderanno con me. Sono bravo a battermi, ma non sono un cyborg con pugnali volanti e missili
intelligenti installati nel mio—”
Cross proruppe in una sonora
risata, che assomigliava più un latrato. “Ah, mi ero dimenticato
di quanto fossi una mammoletta, moccioso,” mi
schernì, posando finalmente la tazza nel lavandino, senza smettere di
ghignare.
“Non sono una mammoletta!” protestai, punto sul vivo.
“Ricordi l’ultima volta che è successo? Erano dieci. Qualcuno mi ha colpito in testa e
bum! Mi sono risvegliato in una
strada deserta con dolori su tutto il corpo e non so neanche cosa diavolo sia successo—”
“Non c’è
bisogno di ricordare,” mi interruppe bruscamente Cross, con la schiena
rivolta verso di me, e qualcosa nella sua voce mi suggerì di non
continuare. Non potevo vedere la sua espressione, ma la sua voce era di certo
seria, se non persino… agitata?
No, non poteva essere, doveva essere
stata un’impressione. Anche perché non avrebbe avuto senso. Cross
amava lasciarmi in balia dei creditori, che fosse via per lavoro o meno.
Soprattutto da quando aveva scoperto che ero portato nel racimolare soldi
giocando a poker.
Poteva essere che quel ricordo lo
irritava? Era dispiaciuto perché avevo rischiato di farmi male sul
serio?
…No, assolutamente no. Neanche
sapevo se Cross teneva a me fino al livello di preoccuparsi per una cosa del genere.
“Okay…?”
Non sapevo cosa dire. Rimasi al mio posto, guardandolo e cercando di immaginare
cosa stesse pensando, senza riuscirci.
“Comunque,” la fine
di quello spiacevole silenzio mi fece quasi sospirare di sollievo. Cross si
voltò di nuovo verso di me e mi guardò con un’aria quasi
sofferente, come se quel che doveva dire gli costasse un enorme sforzo, “ti
ho lasciato una carta di credito sul tavolino, in salotto. Il codice è
scritto sul foglietto. Usala con la testa. Se quando torno hai esaurito il
credito, giuro che ti uccido. Quindi trovati un lavoro pomeridiano e guadagnati
da vivere.”
E quella era diventata,
ufficialmente, la mattina delle sorprese.
“Cosa
c’è,” chiese con voce monotona Cross, notando la mia
espressione stupefatta – che personalmente non potevo vedere, ma ero
sicuro che fosse un’espressione abbastanza idiota. Sentivo distintamente
la mia mandibola qualche piano più in giù rispetto al resto della
faccia.
“Tu hai…
una carta di credito? Con del denaro vero dentro?” chiesi con aria ebete,
troppo stupito per calibrare l’intonazione della mia voce.
Cross mi lanciò
un’occhiata velenosa.
“Sì, ragazzo idiota,
e queste tue affermazioni idiote e senza senso mi stanno facendo ripensare alla
mia decisione di lasciarne una in tua custodia. Non vorrei che ogni volta che
la maneggiassi avessi quell’espressione completamente idiota stampata
sulla faccia, perché grida letteralmente ‘sono un idiota, derubatemi’.”
Aggrottai la fronte,
improvvisamente seccato. Aveva usato la parola ‘idiota’ ben quattro volte.
“Non sono un idiota,”
risposi intelligentemente. Forse avrei dovuto elaborare la frase un po’
di più.
Cross inarcò, scettico, un
sopracciglio. “Se quella è la tua unica risposta, ho paura di
doverti contraddire, ragazzo.” Inspirò una boccata di fumo dalla
sua sigaretta ormai lunga pochi centimetri.
“L’hai rubata?”
Il mio tutore mi guardò
minaccioso, e con un movimento rapido soffocò il mozzicone acceso sul
fondo del portacenere. Io non indietreggiai. Alla fine, si decise a
rispondermi. “No.”
“È falsa?”
“No.”
“Quanto c’è
dentro?”
“Quattromila
dollari.”
Sgranai così tanto gli
occhi che per un momento ebbi paura che mi rotolassero fuori dalle orbite.
“Ma che diavolo, Cross? Non mi
hai mai lasciato quattromila dollari!
Da dove spuntano questi soldi? Non ti ho mai visto usare una carta di credito
in vita mia!” gli urlai alzandomi dallo sgabello. C’erano molte
cose che non mi tornavano.
Cross si limitò a
sfoggiare il suo tipico ghigno. “Per quanto ti possa sembrare strano,
ragazzo, il mio lavoro mi fa guadagnare abbastanza da potermi permettere un
piccolo conto di riserva,” spiegò con vaghezza – aumentando
la mia abissale incomprensione –, “Vedilo come il primo, e ultimo,
regalo della tua vita da parte mia, ragazzo. Perché non ci sarò a
Natale.”
La mia rabbia calò
significativamente a quelle parole, sostituita da un senso di freddo e vuoto,
ma non glielo lasciai notare, continuando a lanciargli occhiatacce. Concentrai
la mia attenzione su un altro problema inspiegabile.
“Ma se hai questi conti di
riserva, allora, perché diamine non paghi i tuoi creditori?! Almeno in
parte! Avrei meno cose di cui preoccuparmi, lo sai?!” lo redarguii
ferocemente, puntandogli contro un dito accusatorio.
Cross scrollò le spalle,
con espressione di indifferenza. “Te la cavi sempre così bene. E
non ho voglia di sprecare soldi per ripagare creditori, quando sono diventato
così bravo a sfuggirgli,” commentò con aria fastidiosamente
soddisfatta.
Distolsi lo sguardo, sperando che
la mancanza di contatto visivo placasse in parte la rabbia che mi stava salendo
dentro e minacciava di scoppiare. Non funzionò molto. Strinsi i pugni e
inspirai lentamente, poi la mia mente di scatto ritornò alla questione
iniziale.
“Quand’è che
parti?” chiesi, con finta calma, e un altrettanto finto sorriso
stiracchiato sulle labbra. Speravo notasse fosse finto.
“Dovrei andare ora. Te
l’ho detto che c’era un motivo se ti avevo chiamato così
presto,” rispose Cross in tono piatto, tirando fuori dalle tasche dei
pantaloni una nuova sigaretta e un accendino dorato. Mentre si infilava la
sigaretta in bocca e ne accendeva un’estremità, mi lanciò
un’occhiata pensosa.
“Non smetterà mai di
stupirmi la tua capacità di distribuire sorrisi finti a chiunque tu
incontri, buono o cattivo,” mormorò, con un tono tra lo scherno e
la curiosità, “Sempre stupefacente.”
Lo guardai, senza dire nulla. Non
c’era nulla da dire, in fondo. Sapevamo entrambi che quello era un
argomento che non avremmo mai affrontato seriamente.
Cross mise via il suo accendino,
e scostò una manica della camicia per controllare il suo orologio da polso.
“Okay, penso sia ora,” disse, prima di dirigersi verso il salotto.
Automaticamente, mi alzai dallo
sgabello, e lo seguii a qualche passo di distanza, osservandolo silenziosamente
mentre afferrava la sua borsa da viaggio, appoggiata al bordo del divano, e poi
si fermava davanti al guardaroba, aprendolo e tirando fuori la sua adorata
giacca di pelle nera con gli orli consunti e l’odore di fumo impregnato
indelebilmente nel materiale.
Si diresse verso la porta, e io
gli andai dietro e quando si fermò mi fermai anche io. Aprii la bocca,
intenzionato a dirgli qualcosa, qualsiasi
cosa, prima che se ne andasse, anche un insulto. Ma non mi venne in mente
nulla, quindi la richiusi con uno scatto.
Forse era per quello che Cross
non mi avvisava mai prima di partire. Forse trovare le parole giuste, che
esprimessero il giusto livello di indifferenza e disinteresse, era troppo
difficile. E imbarazzante. Non ero sicuro di esserne capace. Neanche ricordavo
bene l’ultima volta che avevo salutato appropriatamente qualcuno.
Cross aprì la porta di
casa e la fredda brezza autunnale del mattino entrò nella stanza e mi
fece rabbrividire. Mi scostai dall’entrata e mi posizionai a lato della
porta, al riparo dal freddo. Cross si voltò verso di me e mi guardò
dall’alto in basso, con un’espressione indecifrabile dipinta sul
volto. “Beh, ragazzo… ci vediamo,”
disse soltanto.
Io annuii titubante. “Ci
vediamo.”
Il mio tutore sbuffò
impietoso, con aria di scherno, e sogghignò. Gli lanciai
un’occhiataccia, ma lui, come al solito, la ignorò. Sporgendomi
oltre gli stipiti, lo guardai scocciato uscire dalla porta con aria di
superiorità e percorrere con calma il breve vialetto che divideva il
nostro cortile, senza mai voltarsi. Dopodiché raggiunse la sua auto nera
metallizzata, parcheggiata lungo il marciapiede.
Mentre maneggiava con le chiavi,
si voltò. E, nonostante la distanza, potevo vedere chiaramente quel suo
odioso sorriso strafottente stiracchiato sulle sue labbra.
“Un’ultima cosa,
stupido ragazzo,” gridò, mentre scivolava nell’auto,
“non fare il codardo come al
solito e vai a scuola, perché lo saprò se non ci vai. E sai che
sto aspettando l’occasione giusta per mollarti un’altra mazzetta di
de—”
Sbattei chiusa la porta prima che
potesse finire.
“Da quando aspetta
‘occasioni giuste’ per mollarmi i suoi debiti?!” esclamai
inviperito. Rimasi di fronte alla porta per un po’, guardandola torvo,
aspettandomi scioccamente che Cross ripercorresse il cortile e rientrasse solo
per finire il suo discorso.
Ma Cross non ritornò, e da
fuori sentii provenire il rumore di un motore che si accendeva e si allontanava
sulla strada ancora deserta e silenziosa.
Inspirando profondamente, chiusi
gli occhi e mi girai, appoggiando la schiena contro la porta. Sentii tornare
nei muscoli e dietro le palpebre tutta la stanchezza che credevo scomparsa
durante la conversazione. Mi lasciai andare a un lungo sospiro che non mi ero
accorto di aver trattenuto, e infine riaprii gli occhi.
Feci vagare il mio sguardo per
quella casa vuota, ancora per nulla familiare, che ora appariva più buia
e fredda del solito.
Alla fine la mia attenzione cadde
inevitabilmente sulle numerose bottiglie lasciate per terra sul tappeto del
salotto. Feci roteare gli occhi in segno di disprezzo, ma non potei impedire a
un sorrisetto di piazzarsi fastidioso e indesiderato sulle mie labbra.
Lanciai un’occhiata
all’orologio appeso al muro del salotto. Segnava le sei e venticinque.
oOoOoOoOoOo
Non c’erano poi tante cose
che potessi fare a quell’ora, in un’ora di tempo, prima di essere
costretto a prepararmi e andare a scuola ad affrontare la mia ‘prima
giornata di strazi e sofferenze’, come Cross amava chiamarla durante i
giorni passati.
Tornare a letto non era
un’opzione: ero sicuro che non mi sarei mai riaddormentato a questo
punto, con tutto quello che era successo e il tempo per cui ero rimasto
sveglio, nonostante il sonno arretrato ancora facesse pesare le mie palpebre.
Quindi decisi di anticipare la
preparazione per la scuola, prendendomela con calma, in modo da avere meno
tempo per fare altro dopo – se non altro, appunto, per la
difficoltà di trovare a cosa potesse equivalere quell’
‘altro’.
Perciò salii le scale e
entrai nell’ultima porta del corridoio, che dava sul bagno. Chiudendo
– in realtà inutilmente – la porta dietro di me, mi affrettai
ad accendere l’acqua della doccia, sollevando la manovella e girandola in
direzione del pallino rosso. Dopodiché tolsi il braccio dalla doccia,
aspettando che diventasse abbastanza calda.
Iniziai a levarmi la maglietta,
buttandola per terra senza molti riguardi, ma nel gesto il mio sguardo cadde
sul grande specchio sopra il lavandino. Di solito evitavo di specchiarmi a
lungo, c’erano troppe cose nel mio aspetto che trovavo a dir poco
sgradevoli. A partire dai miei capelli, bianchi come la neve, che ricadevano in
ciuffi disordinati in ogni direzione, e la frangia strategicamente posizionata
perché riuscisse a coprire facilmente la parte più grottesca
della strana, lunga cicatrice rossa che mi percorreva il lato destro della
faccia, dalla fronte fino quasi al mento. Scostai di malavoglia alcune ciocche
della frangia, e ispezionai più da vicino quelle cinque precise linee
che formavano il pentacolo inciso sulla mia fronte, come se ormai non le
conoscessi a memoria. Lungo la cicatrice, la pelle era ormai diventata liscia,
essendo una ferita vecchia, ma stranamente si era conservato il malsano rosso
sangue dei suoi primi momenti di vita…
Stringendo le palpebre e
afferrando il lavandino con le mani, mi allontanai di scatto dallo specchio,
respirando affannosamente. Non dovevo pensarci. Nonostante fossero passati
anni, ricordavo ancora alla perfezione quel giorno – il coltello levato
in aria, il sangue, il dolore— non volevo quel ricordo.
Aprii alla cieca il rubinetto, e
mi bagnai il viso con l’acqua fredda, prima di abbassare la manovella e
inspirare con calma, contando fino a dieci…
Solo nel silenzio di quei dieci
secondi mi accorsi del rumore di acqua corrente, e come uno stupido, mi
ricordai che la doccia mi aspettava.
Mi tolsi velocemente anche i boxer,
e mi infilai sotto l’acqua ormai calda. Non so quanto tempo rimasi sotto
il getto della doccia, con gli occhi chiusi e la testa rivolta verso
l’alto, senza pensare a nulla di preciso, soltanto ascoltando il rumore
dello scroscio d’acqua. E quando iniziai lentamente a insaponarmi, feci
finta di non sentire la differenza di ruvidità tra le mie mani.
oOoOoOoOoOo
Appena mi ero alzato quella
mattina avevo realizzato, con sconcertante sicurezza, che quella giornata non
sarebbe stata la mia giornata. E fino a quel momento il mondo, da Cross
all’insolita brezza fredda di quegli ultimi giorni di Ottobre che era
decisa a congelarmi le ossa, sembrava avermi dato ragione.
La Black
Order High School, la
scuola che avrei teoricamente dovuto frequentare per i tre anni successivi, era
piuttosto imponente e massiccia. L’edificio aveva un aspetto moderno, coi
suoi muri bianchi e le lunghe file di finestre larghe disposte regolarmente su
tutte le pareti, a contrassegno di ognuno dei quattro piani. Al centro della
facciata principale si apriva l’entrata, costituita da due grandi porte a
vetri spalancate verso l’esterno. Davanti ad essa, una corta gradinata di
pietra collegava l’edificio alla vasta piazzetta rettangolare che fungeva
da parcheggio della scuola, al centro della quale si ergeva una piccola fontana
bianca, che non mostrava tracce d’acqua, circondata da un’aiuola
circolare senza fiori e disseminata di foglie secche svolazzanti nella lieve
brezza. Una striscia sottile di alti alberi dalle foglie rosse e gialle limitava,
insieme ad un basso muretto in mattoncini rossi, il territorio scolastico
circostante.
Si trovava in una posizione
abbastanza comoda da raggiungere, essendo ai margini della zona commerciale
della città di Kellingstone. Kellingstone era una di quelle classiche città
americane non troppo grandi o conosciute, ma comunque piuttosto vive e
abitabili. La via su cui la scuola si affacciava era poco trafficata, e
ospitava una serie apparentemente infinita di negozietti e bar, in contrasto
con gli alti edifici che qualche kilometro più avanti si ergevano
segnando l’ingresso nel cuore della città.
Non era molto distante da casa
mia, dato che abitavo in una zona residenziale fuori dal centro. Mi bastavano
dieci minuti per raggiungerla in bici.
Ma quei dieci minuti erano stati
sufficienti perché ogni briciolo di forza e coraggio mi abbandonasse,
sempre di più man mano che pedalavo e mi facevo più vicino ad
essa. E ora che mi ci trovavo davanti, in sella alla mia bici, con le mani
guantate serrate quasi convulsamente sui manici del manubrio, trattenevo a
stento il desiderio di voltare la bici e fare marcia indietro –
l’unica cosa che mi impediva di agire erano le parole del Maestro. Non
volevo dargliela vinta, io non ero un
codardo.
Nella maggior parte dei casi,
almeno. Magari non in questo.
La mia mente tornò con
finta disinvoltura a Timcanpy, il fedele gatto di
Cross, che quella mattina avevo salutato appena uscendo di casa, e che con
tutta probabilità mi aspettava, acciambellato sul bracciolo del divano,
speranzoso in un mio prossimo ritorno e in una buona dose di coccole.
Non so per quanto rimasi fermo,
infagottato nel mio cappotto, a ingombrare il marciapiede, percorso da ragazzi
che si dirigevano verso le porte aperte della scuola, la maggior parte
sorpassandomi come se a malapena mi notassero – anche se non mi
sfuggirono le occhiate curiose di un gruppo di studentesse, poco distanti da
me, che parlavano a bassa voce tra di loro e probabilmente si stavano chiedendo
chi fossi e perché avessi i capelli tinti
di bianco. Avrei preferito non notarle.
Mi tirai sulla fronte il
cappuccio grigio della mia felpa, allungandolo il più possibile, e mi
sistemai quasi inconsciamente la frangia, sperando che la cicatrice fosse
abbastanza coperta.
Osservai un’ultima volta la
facciata principale dell’edificio e il flusso di giovani che si dirigeva
lentamente all’interno, chiedendomi se fosse davvero il caso di unirmi a
loro.
Quando la campanella
suonò, e tutti gli studenti ancora fuori si affrettarono su per la
gradinata di pietra, ebbi la mia risposta.
Con un sospiro scesi dalla bici e
la voltai lungo il marciapiede. Avevo visto un parchetto lungo la strada che
avevo percorso, e mi venne la mezza idea di fermarmi là per un
po’, il tempo necessario per auto-convicermi
che lo stavo facendo per Timcanpy.
Camminando a testa bassa e
conducendo la bici al mio fianco, smisi di osservare gli studenti che correvano
e concentrai lo sguardo sulle fessure screpolate del marciapiede, come se
meritassero la mia piena attenzione.
Il Maestro non ne sarebbe stato
contento. Ma a chi importava di cosa pensava il Maestro?
‘Di certo non a me’, pensai tra me e me con un ringhio mentre
camminavo – intanto mi chiedevo se davvero Cross aveva le sue vie per
sapere se ero andato o meno a scuola, e feci una rapida stima della cifra a cui
potessero ammontare attualmente i suoi debiti.
Immerso completamente nei miei
pensieri, sfortunatamente notai solo troppo tardi la persona che mi si
avvicinava con passo spedito e il naso infilato in un blocco di documenti. Prima
che potessi anche solo pensare di scostarmi dalla sua strada, la collisione
frontale era già avvenuta, causando davanti a me un turbinio di fogli.
“Ow!”
esclamai, nonostante non mi fossi fatto poi così male. Era più una… esclamazione istintiva. Aprii gli occhi, che non
mi ero accorto di aver chiuso, e realizzai di aver mollato il manubrio della
bici, che era quindi caduta a terra in un susseguirsi di rumori metallici poco
rassicuranti – era vecchia, e la catena non era mai stata molto stabile,
speravo solo che non fosse caduta di nuovo. Non mi era mai piaciuto
improvvisarmi meccanico. Mi piegai per tirarla su, e solo allora mi ricordai
– sentendomi particolarmente stupido – della persona con cui mi ero
scontrato, trovandomi faccia a faccia con lui.
Davanti a me, piegato a terra e
intento a raccogliere dall’asfalto i fogli che gli erano scivolati dalle
mani, vi era un uomo sulla quarantina, probabilmente di origine asiatica e
dallo stile indubbiamente… eccentrico.
Portava un basco alla francese
color perla, che gli pendeva pericolosamente da un lato, sotto cui spuntavano capelli
neri acconciati in innaturali boccoli all’insù. Sulla punta del
naso erano appollaiati degli occhiali dalla montatura sottile e dalle lenti a
forma di pentagoni schiacciati con la punta rivolta verso il basso, che
tagliavano a metà gli affilati occhi a mandorla dalle iridi scure. Ma la
cosa più insolita era di sicuro il cappotto che indossava, paragonabile
a uno di quelli che nei film di solito usano gli investigatori privati in
servizio: grigio, totalmente anonimo se non per i grossi bottoni neri finemente
elaborati lungo lo spacco centrale, gli arrivava probabilmente fino alle
ginocchia, ed era ricoperto di numerose tasche da cui spuntavano quelli che
sembravano dei portachiavi a forma di piccoli robot di metallo colorati. Tutti
avevano in comune l’inquietante somiglianza fisica con il loro
possessore: dotati di mini-occhiali, basco e bocca dai denti affilati come
rasoi, erano vestiti in modi curiosi e tenevano stretti tra le mani i gadget
più svariati, da una semplice tazza da latte a un trapano grande quanto
l’omino intero.
La cosa strana era che –
l’avrei potuto giurare – alcuni di questi emettevano vapore e
microscopiche scintille.
“Eccentrico,” sentii
sussurrare da una voce maschile, e alzando lo sguardo dagli inquietanti
modellini, notai con stupore che l’uomo di fronte a me aveva ormai finito
di raccogliere i suoi fogli e stava ora guardandomi dritto negli occhi con
un’espressione curiosa dipinta sul volto.
“Ah…”
all’improvviso mi sentii estremamente imbarazzato, e non sapevo neanche
perché. Grattandomi una guancia, mi alzai in piedi, e l’uomo mi
imitò, senza smettere di fissarmi. “Stavo pensando la stessa
cosa.”
Perplesso, il signore
seguì lo sguardo che avevo brevemente lanciato al suo cappotto e,
comprendendo, ridacchiò: “Intendi questi ometti? Non li trovi
amorevoli?”
Rimasi zitto un attimo, cercando
di capire se fosse serio o se si trattasse di una domanda trabocchetto.
Perché quei cosi, qualunque cosa fossero, erano tutto tranne che amorevoli.
“Già…?”
risposi, non sicuro io stesso di aver fatto un’affermazione o una
domanda. E davvero non riuscivo a staccare lo sguardo da quegli omini –
uno cacciò fuori dalla piccola bocca un’alitata di fumo. Quella di
certo non era un prodotto della mia
immaginazione.
“Non è che, per
caso, tu sei Allen Walker?” chiese
all’improvviso il signore.
Lo fissai allibito, annuendo con la
testa. Solo allora, considerando il suo aspetto e i fogli pieni di calcoli
matematici che teneva in mano, mi venne in mente che l’uomo poteva essere
un professore della scuola, magari persino informato del mio arrivo, magari un mio professore, e che sbattendoci contro
avevo firmato la mia condanna giornaliera.
L’uomo sembrò
illuminarsi. “Sono il professor Lee, il tuo futuro professore di
matematica,” mi informò con tono felice, allungando una mano verso
di me.
Ogni tanto odiavo avere ragione.
Gli strinsi la mano con finto
piacere, stiracchiandomi a forza un sorriso sulle labbra, e vagamente
chiedendomi se trovava strano che portassi dei guanti – probabilmente no,
data la stagione in cui ci trovavamo.
“Sono stato ovviamente
informato del tuo arrivo. Anzi, ho parlato personalmente con Marian, essendo un suo amico di vecchia data. Mi ha
avvisato di tenerti d’occhio, eheh! Ti ha
descritto sommariamente ed è per questo che ho potuto riconoscerti.
D’altronde non è difficile, hai un aspetto molto…
peculiare,” si fermò, come se fosse titubante, ma non gli badai.
Avevo smesso di ascoltarlo quando aveva detto di conoscere Cross. Una valanga
di domande mi inondò la mente: come e quando si erano conosciuti? Lee
sapeva qualcosa del lavoro di Cross? Quanto gli aveva raccontato Cross su di
me? (Era lui l’ipotetico informatore di Cross sulle mie eventuali assenze
scolastiche? Se sì, beh, diamine).
“Ah, ma che sciocco!”
esclamò il signor Lee, battendosi il palmo della mano sulla fronte,
“Siamo in ritardo, dovremmo muoverci!” E detto ciò, si
riavviò in direzione della scuola. Ma a quanto pare si aspettava che lo
seguissi, perché, una volta sorpassatomi e notato che non avevo ancora
mosso un muscolo, mi lanciò un’occhiata inquisitoria.
“La scuola è da
quella parte,” mi disse, indicando con un cenno l’odiato edificio.
Vidi il suo sguardo cadere sulla mia bici, notare la direzione verso cui era
voltata, e collegare rapidamente i vari indizi.
Tirai un lungo sospiro e,
ignorando il vago senso di colpa che provai guardando il professore, rimasi
fermo, “Lo so.”
Non era probabilmente la cosa
migliore da dire al professore che aveva appena sventato il mio tentativo di
bigiare il primo giorno di scuola. Non sapevo cosa aspettarmi, ma non ero
sicuro che mi importasse: mi avrebbe portato direttamente in presidenza,
accusandomi davanti al preside di essere un ‘elemento dispari’?
Mi avrebbe lasciato proseguire nella mia direzione, con totale indifferenza?
Oppure—
Fu allora che vidi sul volto del
signor Lee un sorriso che conoscevo bene, ma che non vedevo da molti anni: un
sorriso più eloquente di mille parole, che era al contempo di dispiacere
e di incoraggiamento, come se mi volesse dire ‘lo so che le cose non sono andate bene fino ad ora, ma
migliorerà’. E faceva male
soltanto a guardarlo – quanto gli aveva raccontato Cross?
‘Dove
l’ho già visto? C’è era qualcuno che mi sorrideva
sempre così… ma chi?’
Sgranai gli occhi, stupito dai
miei stessi pensieri. C’era qualcosa che non riuscivo a ricordare?
“Sei arrivato fin qui,
no?” mi chiese con voce calma il professore, riacquistando la mia
attenzione, “Perché tirarsi indietro ora?”
Non sapevo se stesse aspettando
una qualche risposta da me, ma comunque rimasi in silenzio, non trovandone una
adatta. Fissando con sguardo vacuo l’asfalto, realizzai che era vero; ero
arrivato fino a lì, a un passo dalle porte della scuola, a un passo
dall’opportunità di una nuova vita, e ora mi tiravo indietro, solo
perché una volta era andata male – ‘più di una volta, ma non è questo il punto’. Se me ne fossi andato, Cross avrebbe
avuto ragione a darmi del codardo.
Improvvisamente, mi sentii cadere
addosso il peso della mia stupidità, di quel giorno e dei giorni
passati, e mi domandai perché, dopo quello che era successo
nell’altra scuola, fosse diventato così difficile per me accettare
la possibilità che questa volta le cose potessero andare diversamente, meglio. Un’ondata di vergogna per
me stesso mi fece scorrere il sangue verso la faccia, e avvertii le mie guance
avvampare violentemente.
E nello stesso momento sentii una
fitta improvvisa al cervello, un dolore acuto, come se qualcuno lo stesse
perforando con degli aghi—mi strinsi la testa tra le mani e chiusi gli
occhi, tentando di sgombrare la mente. Avevo la sensazione di aver dimenticato
qualcosa di importante, qualcosa di fondamentale che non avrei dovuto
assolutamente dimenticare, e ora quel qualcosa stava cercando di farsi strada
tra i ricordi per risalire in superficie, senza riuscirci, continuando a sprofondare… C’era qualcuno che urlava…
‘Non
guardare!’
“Ti senti bene, Walker?”
E come il dolore era arrivato, in
un attimo sparì. Aprendo gli occhi, alzai lo sguardo, un po’
disorientato, e vidi il professore scrutarmi con un’aria preoccupata.
Scossi la testa.
“Sto bene. Non è
niente.”
Questo bastò perché
il professor Lee ritornasse a sorridermi. “Vieni. Ti accompagnerò
in segreteria,” mi propose.
Annuii, questa volta con
più sicurezza. Voltai la bici, e ci incamminammo insieme verso la
scuola.
Scoprii di non avere il coraggio
di guardare negli occhi il professore, ma sentivo il bisogno di dover
rispondere alla sua domanda precedente. Non capivo come fosse possibile, ma un
semplice sorriso e una frase erano riusciti a riaccendere dentro di me una
piccola fiamma, che nei mesi precedenti si era affievolita fino a spegnersi.
“Ha ragione,
professore,” mormorai a mezza voce, guardando dritto davanti a me.
“Grazie mille.”
E nonostante non lo stessi
guardando, avvertii lo stupore che radiava dal signor Lee. Pochi secondi dopo,
lo udii ridacchiare sommessamente, una risata soddisfatta che mi scaldò,
anche se non ne capivo il motivo. Trattenni a stento un sorriso –
probabilmente il più sincero da mesi.
Lungo la strada che facemmo
insieme, il signor Lee cominciò a parlare con vivacità del
più e del meno – come se nulla fosse successo, e gliene fui grato.
Mi parlò della scuola, della mia futura classe, degli altri professori
che avrei avuto; lo ascoltai solo a metà. Una volta lasciata la bici nel
parcheggio e varcata la soglia delle grandi porte a vetri, immerso nella mia
bolla personale di ansia e rinata speranza, l’unica stupida cosa a cui
riuscivo a pensare era che Timcanpy non mi avrebbe
rivisto fino a tardo pomeriggio, e quello era un vero peccato.
oOoOoOoOoOo
“Lotto
B, secondo piano, la terza porta a destra oltre l’aula di Lingue. Non puoi perderti.”
E invece potevo perdermi, come dimostrava la mia attuale – e appunto
sconosciuta – ubicazione in territorio scolastico.
Stupida segretaria scansafatiche.
Mi aveva indicato una direzione,
che avevo diligentemente seguito, ma a quanto pare mi ero un po’
distratto ripensando all’incontro con il professor Lee, e ad un tratto mi
ero ritrovato in un corridoio immerso nel silenzio in cui non vi era alcuna
traccia di quella dannata ‘aula di Lingue’.
Quindi, riassumendo, ero in un
corridoio di non sapevo quale piano di un altrettanto sconosciuto
‘Lotto’, in spudorato ritardo, con un foglietto firmato dal
professor Lee con su scritti il nome della sezione e un’improvvisata
giustifica per il ritardo.
Ormai non valeva la pena cercare
la mia aula, sarebbe stato troppo imbarazzante entrare a metà ora. Forse
il professore mi avrebbe chiesto con sarcasmo se mi ero perso, e rispondere di
sì, nonostante fosse la pura verità, sarebbe stato esageratamente
umiliante (non presi in considerazione l’idea che potesse essere comprensivo).
Mi guardai intorno un po’
esasperato, sbuffando e imprecando mentalmente contro la mia totale mancanza di
orientamento.
La cosa più intelligente
da fare sarebbe stata ritornare al piano terra e cercare di ricordare la strada
verso la segreteria percorsa con Lee poco prima, e una volta là chiedere
a quella stupida segretaria se poteva darmi indicazioni dettagliate di come
raggiungere la biblioteca – in una scuola così grande doveva pur
esserci una biblioteca da qualche parte – in modo da poterci passare il
resto dell’ora senza dover rimanere a vagare per i corridoi come
un’anima in pena. Come stavo facendo in quel momento.
Ma qualcosa mi disse che sarebbe
stato inutile anche tentare di andare in biblioteca. Avrei potuto chiedere alla
segretaria di accompagnarmi, ma ero convinto che avrebbe ignorato la mia
richiesta nello stesso modo disinteressato con cui mi aveva fornito quelle totalmente scadenti istruzioni su come raggiungere
la mia aula. Seriamente, perché questa scuola era così vuota? Non
avevo incontrato neanche un bidello camminando per scale e corridoi, e a meno
che non fossi andato a imbucarmi in una zona caduta in disuso – cosa che
non era, perché sentivo voci provenire dietro alcune porte –
ciò era parecchio strano.
Colto da un’ondata di
stanchezza psicologica di fronte all’assenza di indicazioni stradali, mi
sedetti per terra, in mezzo al corridoio vuoto, deciso ad occupare i minuti
successivi a recuperare le forze – e perdere ulteriore tempo prima di
dover andare a cercare inevitabilmente la mia classe. Con le gambe incrociate,
chiusi gli occhi e inspirai profondamente.
“Non penso che rimanere
seduti al centro di un corridoio per un’intera ora sia il modo più
sagace per bigiare una lezione,” mi sussurrò divertita una voce
maschile alle mie spalle.
Ancora non sapevo che proprio
quella voce apparteneva alla persona che di lì a qualche mese avrebbe
completamente stravolto la mia vita.