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Autore: Phantom_Miria    24/05/2011    4 recensioni
Alcune persone sono come i caleidoscopi. Sei convinto di sapere tutto di loro, di averli inquadrati, in ogni loro singola sfaccettatura, quando basta una piccola svolta - una frase, un'azione, uno sguardo - e ti rendi dolorosamente conto del fatto che non hai mai compreso nulla di più dell'apparenza.
“‘L’interpretazione dei sogni’ l’ho trovato un libro interessante, ma di dubbio gusto. Dammi retta, Freud era un pro nell’arte delle seghe mentali. Se hai un sogno che ti ha colpito ma non riesci a interpretare, rivolgiti a uno psicologo. O, scelta che ti consiglio, al sottoscritto tuo fedele amico geniale, che possiede una cultura spropositata in ogni campo del sapere e dispone del miglior libro del secolo dopo ‘Il libro delle risposte’: il ‘Grande Libro dei Sogni, dalla A di Acqua alla Z di Zattera, interpretazione dei simboli del mondo onirico’”.
“Mi sembra una cavolata.”
“Lo è, amico mio, lo è. Ma è molto più divertente interpretarli così. I risultati sono così insensati da essere esilaranti.”

[Lavi/Allen] AU, Rating Giallo per future scene un po' sanguinose (potrebbe alzarsi ad Arancione, forse)
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Allen Walker, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Per la prima volta, sono davvero davvero DAVVERO perplessa sulla riuscita di una fic. È la prima volta che uso la prima persona e per l’ennesima volta ho provato a me stessa di non essere assolutamente capace a fare delle descrizioni di luoghi (e a fare dello humor. Ma è davvero incredibile, non riesco a inventarmi una battuta divertente che sia una. È imbarazzante). E e e sì, in generale il mio livello di soddisfazione per questo capitolo è neutro. Per una volta, affermo esplicitamente che le critiche sono molto ben accette. Ah, e in caso tra i lettori ci sia qualcuno che ha letto anche altre mie fic (ne dubito), sappiate che quella RoxasSora continuerà, è in fase di scrittura, è solo che quest’anno ho la maturità e quindi non ho mai un cavolo di tempo per scrivere. Per quanto riguarda l’altra fic LaviAllen, mh. Teoricamente il terzo capitolo ce l’ho pronto da secoli, ma mi sono un po’ inceppata, per ora non credo proprio che la continuerò. QUESTA INVECE SÌ. LO GIURO (anche perché ho già predisposto tutto. Semplicemente, procederà piuttosto lentamente, soprattutto in questo periodo). 

(La penultima parte di questo capitolo mi rattrista. Mi sembra di averla scritta da schifo, quindii scusate, lol. Magari quando farò il secondo, la riscriverò meglio .-.)

 

Disclaimer: Non mio. Se lo fosse, mi impegnerei di più nel disegnare gli ultimi capitoli (cosa diavolo è successo a quei disegni?)

 

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. C h a p t e r 1 .

~~~

Scrutando in quella profonda oscurità, rimasi a lungo, stupito, impaurito,
sospettoso, sognando sogni che nessun mortale mai ha osato sognare.”

( E d g a r  A l l a n  P o e )

~~~

Ha i piedi immersi nell’acqua.

La risacca schiumosa lambisce gentilmente le sue caviglie, trascinando avanti e indietro, in un unico ipnotico movimento, la fine sabbia bianca. Conchiglie rotte, striate d’ambra, giacciono sparpagliate lungo la riva dell’isola, semi-nascoste dalla sabbia asciutta, e orecchie di Venere occhieggiano brillanti nella loro cangiante sfumatura perlacea—dove mi trovo?

I raggi di sole riscaldano impietosi la piccola spiaggetta, e si riversano sull’immenso mare color acquamarina che la bagna. Colpiscono la sua pelle, sono laceranti. Il sole stesso è lacerante, una sfera incandescente stagliata nell’infinito azzurro limpido del cielo—c’è qualcuno qui?

Nell’aria aleggiano il calmo suono delle onde che si infrangono a riva e gli stridii di uccelli. La fresca brezza marina gli smuove la morbida maglia bianca e slargata, che con difficoltà rimane aggrappata alle sue spalle senza scivolare lungo le braccia pallide—Voglio tornare a casa.

Un brivido gli percorre rapido la schiena, lasciando la pelle d’oca lungo il suo tragitto. Sulla sabbia, definite come scritte d’inchiostro nero su un foglio bianco, si muovono fluide le ombre dei gabbiani.

Il cielo è limpido, e vuoto.

Non sa cosa fare. Rimane immobile, con i piedi immersi nell’acqua, a guardare le ombre che scivolano sulla sabbia.

Davanti a lui si stende un bosco di frassini, così fitto da impedire alla luce di filtrare oltre le chiome. È una macchia scura fuori luogo in uno scenario da cartolina estiva – c’è una penna? Così la firmo, torno a casa, tutto questo può finire –, una nota stonata in una sinfonia di Beethoven—non dovrebbe essere lì. Né il bosco, né lui. Spera di non doversi avvicinare.

Ma il suo corpo, scopre di lì a poco, ha una volontà propria. Muove un passo avanti, con incertezza, perché non sembra esserci nessun altro nelle vicinanze, eppure ha la sensazione che qualcuno lo stia spiando dall’oscurità del bosco.

Non vuole avvicinarsi, non vuole entrare. Una vocina da un angolo recondito nella sua testa gli suggerisce, confermando i suoi timori, che non dovresti trovarti qui. Ma non ha nessun posto dove andare, intorno a lui c’è solo sabbia, mare, altra sabbia. Quindi resta fermo dov’è, e tenta di riflettere, finché non si accorge che la sua testa sembra essere completamente vuota. Nessun pensiero, nessun idea.

Ma in quel vuoto, sente una strana presenza. C’è qualcosa acciambellato nel buio, ai margini della sua mente, che osserva e sussurra, osserva e sussurra, e continua continua continuachiudi quella bocca – un’intelligenza autonoma, un parassita – più di uno, parlano tra loro, potete stare zitti? – che non è in grado di controllare. La ignora meglio che può.

Il suo piede sprofonda un poco nella fanghiglia scura, fuori dall’acqua, fino a che qualcosa di piccolo, sepolto sotto la sabbia umida, ne sfiora la pianta e—solleva il piede.

Nell’impronta che ha lasciato vi è adagiato un piccolo pesce pagliaccio – il suo nome scientifico è amphiprion percula. Non sa come faccia a saperlo ma non si ferma a riflettere –, gli occhietti giallastri spalancati e vitrei e le fragili pinne variopinte esanimi. Dev’esserci qualcosa di affascinante e allo stesso tempo agghiacciante nella vista dell’animale senza vita, perché altrimenti non potrebbe spiegare come mai non riesce a smettere di fissarlo.

E lo sta ancora osservando quando questo inizia a sciogliersi lentamente e quella stessa vocina di prima gli spiega che i pesci non si sciolgono, ma il pesce è lì davanti e si sta sciogliendo e lui risponde mentalmente che io credo in quel che vedo, non dimentico quel che vedo, e allora si sente stupido, perché sta discutendo con una voce nella sua testa. Ignora anche quella.

I suoi colori sempre più iridescenti cominciano a mescolarsi nell’acqua in un turbinio di strisce bianche e nere e arancioni e – lo scheletro è ancora lì, le sottili lische appuntite abbandonate, incagliate nella sabbia bollente, ed è uno strano scheletro, perché sembra fatto di metallo ed ha una forma innaturale – e il mare è all’improvviso rosso, come il cielo soprastante – sangue, sembra un mare di sangue e il sangue cola dal sole in gocce grandi e rumorose che cadono nell’oceano – e deve esserci un terremoto perché gli stridii dei gabbiani si perdono in un grido acuto e straziante – e la voce tenta di spiegargli che i terremoti non gridano ma non me ne frega niente perché sa che dietro tutto ciò, in questo fottuto mondo incasinato un senso c’è, deve esserci. Un qualcosa di importante sta accadendo, gli manca così poco per avere la spiegazione che sta cercando stretta nel suo pugno, deve solo capire perché i gabbiani hanno lasciato le loro ombre sulla spiaggia – e la sabbia comincia a tremare sotto le piante dei suoi piedi, mentre dall’acqua emergono maestose in un boato fragoroso delle rovine di pietra, macerie di colonne e archi e soffitti a volta.

E all’improvviso, tutto si calma.

È appena apparso un intero mondo in mezzo al mare, fatto di macerie e ricordi, un mondo nato morto, la traccia di un passato grandioso, o di un qualcosa che avrebbe potuto esserlo, inondato di luce rossa e ombre nere e—magari c’è qualcuno, ma non vuole saperlo. Sembra vicino, probabilmente se allungasse una mano potrebbe toccare le nude pareti di roccia, sentire il raccapricciante dolore racchiuso in esse— non allunga la mano.

Nel cielo si staglia una mezzaluna, pallida e argentea, butterata da crateri e dai contorni zigrinati. La superficie dell’acqua ora è immobile e liscia come una lastra di vetro e in essa si specchia la luna. Ma il suo riflesso è nero come la pece, orrendo, e non voglio stare qui, non voglio, fatemi uscire, fatemi uscire da qui, non voglio vedere—

E dopodiché le sue gambe prendono a muoversi da sole, lo fanno voltare – non voglio vedere – e lo conducono verso i limiti del bosco – la voce grida più che mai di non entrare, e qualcosa si annoda nel suo stomaco alla vista dei grossi tronchi scuri che ora lo sovrastano, non è sicuro di poter respirare bene una parte di lui desidera ritrovare quello scheletro, dov’è andato? Un’altra lo teme più del bosco stesso.

In un attimo è davanti all’entrata del bosco, e non riesce ad arretrare. Le sue gambe tremano, e sente i polmoni annaspare per nuova aria. La voce gli dice di non voltarti, perché sta succedendo qualcosa in quel mare rosso e quel qualcosa ha intenzione di avvicinarsi, ma un balenio argentato si fa scorgere tra gli alberi e attira la sua attenzione – qualcosa si sta avvicinando.

C’è una farfalla, un’esile farfalla dalle ali rosse, bordate d’argento, che fluttua tra le chiome e si nasconde alla luce malsana. Sbatte le sue grandi ali, grandi quasi quanto una sua mano, ma sta ferma, sospesa a mezz’aria, non si muove di un millimetro.

Libera un lungo sospiro che non si era accorto di stare trattenendo. Allunga la mano, per raggiungerla, per toccarla, perché è curiosa, no?, una farfalla così grande e così bella. Ma quella scivola via più lontana, ancora più all’interno del bosco buio – non ti seguirò, non entrerò.

Non gli permette di allontanarsi troppo, le sue gambe ancora tremanti procedono.

Inizia a chiedersi se sia sano di mente, perché un attimo fa non voleva seguirla. Questa volta, la voce non commenta. Ne deduce che la risposta sia un no, e una piccola, minuscola parte di lui, nascosta da qualche parte, trova tutto ciò divertente, perché persino le voci pensano che sia pazzo.

Sente quel qualcosa, accoccolato nel silenzio della sua mente, rispondere alla realizzazione con delle fusa sommesse.

Un altro passo, e all’improvviso capisce: quella farfalla è la spiegazione che cercava, il motivo del suo essere qui, è tutto – e l’unico essere vivente che ha incontrato finora – e se la lasciasse andare non avrebbe speranza di uscire.

Entra nel bosco.

E, inaspettatamente, un’abbagliante luce bianca lo avvolge, e una voce profonda si alza, e sembra provenire da ogni parte intorno a lui.

Oi, stupido ragazzo, svegliati.”

oOoOoOoOoOo

Oi, stupido ragazzo, svegliati,” grugnì la voce roca del mio tutore dalla porta della stanza.

Un fioco raggio di luce artificiale, proveniente dal corridoio, mi colpì le palpebre socchiuse, portandomi automaticamente a strizzarle con più forza del necessario e a voltarmi velocemente – per quanto le mie capacità motorie ancora addormentate potessero permetterlo – verso l’altro lato della stanza.

Cross doveva già star fumando la sua prima sigaretta del giorno, perché nell’aria chiusa della camera iniziava ad aleggiare un vago, fastidioso odore di fumo e nicotina. Si sentì un sommesso click, e la lampada sul soffitto si accese scacciando la piacevole oscurità che i miei occhi ancora agognavano.

Rifiutandomi di aprire le palpebre, mugugnai in risposta parole incomprensibili persino a me stesso, mentre allungavo alla cieca una mano per afferrare un orlo della coperta e tirarmela oltre la testa.

Non fu la scelta migliore: in un attimo sentii le calde coperte abbandonare il mio corpo, strattonate violentemente da un lato, e il freddo mattutino attaccare la mia pelle nuda, coperta solo da un paio di boxer scoloriti. Costretto ad aprire gli occhi, lanciai al colpevole un’occhiata omicida – la quale non dava risultati concreti, ma soddisfaceva in parte la mia necessità di rendere chiaro a Cross che il mio unico desiderio della giornata sarebbe stato quello di vederlo rantolare ai piedi del mio letto in preda a inimmaginabili dolori.

Ovviamente Cross, neppur minimamente intaccato dall’atmosfera pregna di istinto omicida represso, esibiva un ghigno strafottente, mantenendo il mozzicone di sigaretta precariamente in equilibrio a un angolo della bocca.

Dio santo!” gli ringhiai contro, coprendomi rapidamente gli occhi con una mano, rifiutandomi di guardare per un secondo di più quella faccia soddisfatta – realizzai con dolore che c’era un’alta possibilità che avesse disturbato il mio sonno solo per puro divertimento. Per questioni di karma, la mattina non si prospettava felice. Prevedevo catastrofi domestiche nell’arco della giornata.

“Sì, lui è ciò che vedrai se entro venti secondi non scendi da questo letto e non mi dai ascolto,” Cross asserì con fare minaccioso, prima di voltarsi e tornare indietro.

“Ti aspetto in cucina,” aggiunse, e se ne andò, richiudendo la porta dietro di sé. I suoi passi risuonarono pesanti nella sua discesa lungo le scale, mentre si dirigeva al piano terra.

Rimasi immobile, sdraiato sulla schiena, per qualche secondo, con la netta sensazione nelle ossa di essermi svegliato più stanco di quanto lo fossi quando ero andato a dormire – gli incontri ravvicinati con il Maestro di prima mattina potevano dare quest’effetto. Grazie al cielo erano rari. O almeno, così ravvicinati erano rari. Di solito, la distanza minima che raggiungevamo tra di noi di mattina era quella tra la cucina e il salotto, quest’ultimo l’usuale punto di bevute notturne di Cross.

Scoraggiato dalla vita, lasciai lentamente scivolare la mano dalla fronte e lanciai un’occhiata obliqua alla sveglia digitale adagiata sul suo comodino, insolitamente silenziosa. Aggrottai le sopracciglia.

“Sono le sei del mattino! Perché diamine mi hai svegliato, stupido Maestro?!” gridai esasperato, sapendo che Cross avrebbe sentito, ma probabilmente non si sarebbe degnato di rispondere. Mi girai su un fianco e cacciai la testa sotto il cuscino, non trovando la forza necessaria per alzarmi, spegnere la luce e tornare al mio meritato sonno – meritato per un motivo di fatto inesistente se non quello di aver sopportato Cross per l’intera giornata precedente, che personalmente, ritenevo fosse sufficiente per guadagnare il sonno di una vita.

“Smettila di lagnarti inutilmente, e scendi subito, quei dieci secondi stanno passando in fretta!” arrivò da sotto la voce di Cross, ancor troppo forte per i miei gusti, seppur attutita da muri e cuscino.

Considerai seriamente l’idea di ignorare il comando. Erano le sei del mattino, e Cross non mi sopportava, ma pensai, con una voce interiore spiacevolmente vicina a un pietoso mugolio, che non meritavo un tale trattamento. Ritornai rapidamente con la mente alla sera prima, cercando di ricordare se avevo lavato i piatti e pulito la cucina, e il ricordo era lì, limpido e pulito e simile a quello di ogni sera della mia vita. Quindi questa non era una punizione. Perciò doveva esserci per forza un altro motivo, anche se non riuscivo a immaginare quale.

Vinto da una curiosità che non credevo di possedere – e giurando a me stesso che sarei tornato a dormire se il motivo non fosse stato valido – con un grugnito rotolai fino al bordo del letto. Ma la stanchezza residua doveva avermi fatto calcolare male le distanze perché non ebbi tempo di realizzare l’improvviso vuoto sotto di me che caddi a terra con un tonfo sordo.

Il dolore attaccò prontamente la mia spalla e si irradiò lungo il braccio, e mi lasciai sfuggire un gemito di frustrazione.

‘La vita ti sorride, oggi, Allen,’ pensai sarcasticamente, e cominciai con fatica a districarmi dal groviglio di coperte e lenzuola che avevo trascinato giù con me, con un grosso dispendio di energia fisica.

“Ragazzo, non voglio passare il resto della mia gloriosa vita aspettando te,” abbaiò di nuovo Cross dalla cucina.

Con un finale e decisivo strattone, mi liberai e mi issai faticosamente in piedi. “Fai finta che tu stia aspettando una delle tue innumerevoli donne. L’attesa ti risulterà più piacevole,” gli urlai di rimando, mentre cercavo con lo sguardo la maglietta che avevo usato il giorno prima. I miei occhi sembravano non riuscire a rimanere aperti. Passai una mano sulla faccia tentando di scacciare le tracce di sonno residue che mi appesantivano le palpebre. Quando riaprii gli occhi, adocchiai finalmente la maglietta, abbandonata per terra ai piedi del letto, tutta arruffata e semi-nascosta tra i lembi bianchi delle lenzuola.

Da sotto risuonò un grugnito di divertimento. “Seppure tu abbia le fattezze di una ragazza, con quel tuo corpo mingherlino e il visetto angelico,” sentii distintamente una vena ingrossarsi, pulsante, sulla mia fronte, “non lo sei. E se tu lo fossi, non ti avrei fatto scomodare dal letto, ma mi sarei unito a te nel momento in cui la porta fosse stata aperta.” Ci fu una pausa. “Ew, un’immagine di cattivo gusto. Davvero di cattivo gusto. Ora sento il bisogno di una ragazza vera, con una quarta e tutto il resto.”

Rabbrividii. “Non preoccuparti, è un sentimento reciproco. E per quanto ti possa sembrare inspiegabile, non sono interessato a conoscere i tuoi gusti in fatto di femmine nel dettaglio.”

Infilatomi la maglietta, aprii la porta della stanza e percorsi il breve corridoio che precedeva le scale, prima di trottare giù e infilarmi in cucina, lanciando uno sguardo veloce alle bottiglie vuote di vodka e gin sparse sul tappeto del salotto che sarebbe toccato a me riordinare.

“Iniziavo a dubitare che saresti mai arrivato.” Appoggiato contro il mobile del lavandino, vi era il mio peggior incubo, con la sua folta criniera di lunghi capelli rossi e uno sguardo malevolo nei suoi occhi ambrati, dietro le fini lenti dei raffinati occhiali rettangolari adagiati sul naso. Stranamente già vestito, con una camicia sobria e pantaloni di pelle neri infilati dentro due alti anfibi cinghiati dello stesso colore, Cross era intento a versarsi del gin – probabilmente già il terzo round – nella tazza che teneva in mano, come fosse latte.

“Stai zitto,” borbottai stizzito, prima di lanciare un’occhiata critica alla tazza e alla bottiglia semivuota. “Ma è sano?” chiesi disgustato, “Voglio dire, sono le sei del mattino.”

Per tutta risposta, Cross allungò la tazza verso la mia faccia, e io arricciai involontariamente il naso in una smorfia di disgusto quando il forte odore mi arrivò alle narici.

“Potrebbero essere le sei e trenta, ormai, per quanto tempo hai impiegato ad alzarti,” ribatté Cross con aria di sfida. Ripose con poca grazia la bottiglia sul tavolo posto al centro della cucina, e alzò la tazza alle labbra, sorseggiando il gin con gusto, “E dov’è il rispetto per il tuo Maestro, comunque?”

Mi lasciai cadere su uno degli sgabelli intorno al tavolo e appoggiai la fronte sulla superficie legnosa davanti a me, confortevolmente fredda. Stavo rimpiangendo di essermi alzato dal mio comodo letto, se il sacrificio era stato compiuto davvero solo per questa interessante conversazione. “Se mai ne ho avuto, è rimasto a letto. Perché sai, non è abituato a svegliarsi alle sei del mattino.”

Cross sbuffò sprezzante, “Essere mattiniero per una volta non ti ucciderà, stupido ragazzo.” La sua mano si stava già allungando verso la bottiglia di alcool per una nuova razione. “E poi, ti ho svegliato per un motivo.” Dopo una breve pausa e uno schiocco di labbra, aggiunse con fare pensieroso, “Oltre, ovviamente, alla pura soddisfazione che mi causa l’importunarti psicologicamente e fisicamente.”

Ignorando l’ultima parte – se si era costretti a vivere con Cross, imparare semplicemente ad ignorare certe cose era indispensabile – sollevai la testa per indirizzargli uno sguardo inquisitorio.

In risposta Cross distolse gli occhi da me e li puntò sulla finestra alle mie spalle, attraverso cui si poteva ancora vedere la luna nel cielo blu. La sua espressione si era fatta più seria. “Devo partire.”

Per qualche motivo, che fosse per effetto sonoro o per la mia immaginazione, le parole sembrarono rimbombare tra i muri della piccola cucina, nel silenzio che seguì.

Poi il significato della frase mi colpì, improvviso come un fulmine, e mi lasciò stupefatto. Inarcai un sopracciglio.

“Da quando…” cominciai, fissando il vuoto con fare sinceramente perplesso, “…ti preoccupi di avvisarmi per tempo delle tue partenze improvvise?”

Cross doveva aver ricevuto in dono da un qualche dio il potere dell’ubiquità, durante la notte, perché avrei giurato che un secondo prima il Maestro non si fosse trovato a un passo da me, con la mano sinistra sollevata e pronta a mollarmi un sonoro scappellotto.

Diedi la colpa alla infima spaziosità della cucina.

“Ahi!” esclamai, un po’ per il dolore un po’ per la sorpresa, “Cosa ho detto questa volta?!”

“Piccolo moccioso insolente,” ribatté Cross con un sorrisetto distorto che non distoglieva l’attenzione dalla vena protuberante sulla tempia. “Io ti avviso sempre delle mie partenze!” sbottò, allungandosi verso il piccolo portacenere al centro del tavolo per riprendere la sigaretta abbandonata precedentemente.

Massaggiandomi il collo dolorante, lo guardai scettico, perché per un divertente attimo mi era sembrato sinceramente convinto.

“Lasciare un biglietto,” iniziai, con lo stesso tono pacato di un adulto che deve spiegare a un bambino cos’è sbagliato e cos’è giusto, “con su scritto ‘starò via per qualche giorno. Non bruciare la casa e non morire, non vali così tante scartoffie’,” recitai in un’imitazione a mio parere perfetta della voce raspa del mio tutore, “non è comunemente considerato un ‘avviso per tempo’!”

Cross alzò gli occhi al cielo mentre inspirava una boccata di fumo. “Accontentati di quello che la vita ti dà,” disse filosoficamente.

“Troppo presto per bere idiozie filosofiche,” commentai con astio, prima di essere colto da una realizzazione che mi fece sorridere ironicamente, “Quindi è per questo che ti sei scolato tre quarti della tua riserva di alcool? Paura che tu non abbia l’occasione di bere in servizio? Che marcisca o che la usi per lanciare qualche party con gli amici mentre sei via?”

Perché conoscendo il Maestro, poteva benissimo essere la verità.

“Sei troppo strano per poter stringere amicizie con qualsiasi umano entro i primi tre mesi di scuola,” ribatté Cross.

Ow. Quello aveva fatto male. Principalmente perché era vero – feci finta di non notare come la mia mano destra fosse andata automaticamente a stringere il braccio sinistro, quindi la portai rapidamente distesa sul tavolo.

E inoltre questo mi rammentò la spiacevole verità che quel giorno sarebbe stato il mio primo giorno nella nuova scuola, in seguito al trasferimento. Ancora, ow.

La valutazione della giornata stava pian piano sfociando in un drammatico ‘Gialla’.

Uno scomodo silenzio calò nella cucina, sia perché io era ancora troppo addormentato per poter trovare una tagliente, o quanto meno logica, battuta di ritorno – ma era almeno possibile? – e il pensiero del primo giorno di scuola mi aveva gettato in una spirale di panico interiore che stavo tentando di tenere sotto controllo, sia perché Cross non era capace di chiedere scusa, o aveva già la mente intirizzita dall’alcool o semplicemente se ne sbatteva. Forse il silenzio dava fastidio solo a me, effettivamente.

“Magari no, ha tutte le qualità per essere una Giornata Arancione…” borbottai scorato, prima di rendermi conto di aver effettivamente detto qualcosa che avrei preferito soltanto pensare. Chiusi la bocca con uno scatto e lanciai un’occhiata a Cross per controllare se mi avesse sentito o meno. La sua faccia contratta in una smorfia disgustata fu sufficiente a darmi la risposta.

Cristo, ragazzo,” Cross mi guardò come se fossi un alieno, “hai intenzione di continuare a fare quegli stupidi quaderni colorati delle giornate? Potrei iniziare a preoccuparmi,” disse con tono sarcastico. “È così patetico.”

Lo guardai torvo. “Per tua informazione, ho smesso un bel po’ di tempo fa.”

(I suddetti quaderni colorati erano semplicemente una vecchia abitudine che avevo quand’ero più giovane in base alla quale ogni giorno coloravo su un apposito quaderno un quadrato rappresentante il giorno appena trascorso di un particolare colore che significava un certo andamento della giornata. Nonostante avessi ormai smesso di farlo, ogni tanto mi veniva spontaneo pensare alla giornata in base alla breve legenda dei quaderni. Gialla e Arancione, in particolare, significavano rispettivamente ‘Tendente allo schifo’ e ‘Schifo’.)

E seppur condividessi l’idea che era un’abitudine per certi versi un po’ triste, non potevo permettergli di insultare per l’ennesima volta le mie attività private, per quante strane fossero. Non capivo, d’altronde, cosa potesse fregargliene a lui di quel che facevo io nel tempo libero – a meno che non lo passassi a bere i suoi alcolici, devastare il vicinato e picchiare le vecchiette.

Cross chiuse gli occhi stizzito, e li riaprì in attimo dopo, schiarendosi rumorosamente la voce, “Stavo dicendo.”

Ah, giusto. La partenza.

“Probabilmente starò via per tre mesi. Forse di più. Magari quattro. È un caso… importante.”

Sgranai gli occhi. Non mi era sfuggito il modo in cui Cross si era fermato per soppesare cautamente le sue parole. Non era da Cross. E ciò mi rendeva inquieto.

Cross non aveva mai spiegato con precisione che lavoro faceva. Sapevo che in qualche modo collaborava con la polizia e che il suo ruolo era piuttosto importante, ma fino a quale estensione, il mio tutore non mi aveva concesso di saperlo. Avevo le mie personali teorie sulla faccenda, ovviamente. Ma non ne avevo mai discusso con nessuno, e da quando il mio terzo tentativo – particolarmente insistente – di interrogare Cross sull’argomento era terminato con uno scontro verbale quasi sfociato nella lotta libera e il compito di pagare i debiti alcolici dell’altro entro una settimana, non avevo più osato chiedere.

Quindi, per quanto tutto questo fosse misterioso, non era raro che il Maestro se ne andasse per svariati giorni senza far avere sue notizie, per poi ritornare nel pieno della notte con una bottiglia di rhum economico in una mano e il reggiseno in raso di una qualche donna probabilmente incontrata sulla via del ritorno nell’altra.

Non che le sue assenze mi dispiacessero. Era sempre un piacevole cambiamento non avere quell’irruento uomo in casa ogni giorno a bere, invitare donne e abusare verbalmente di me in ogni modo possibile e immaginabile.

Ma comunque, un’assenza così lunga era piuttosto rara, quattro mesi sembravano un po’ troppo per… qualsiasi cosa lui facesse.

Non che avrei mai ammesso ad anima viva, tantomeno a Cross, di essere in alcun modo affezionato a lui. Avevamo un rapporto piuttosto inusuale, per così dire, e di certo non fondato sull’affetto e il rispetto reciproco – ogni tanto non ero neanche sicuro che Cross potesse provare un sentimento come l’‘affetto’. Ma sotto tutti gli insulti e i maltrattamenti, mi piaceva ingenuamente pensare che avessimo un rapporto unico e vero, per quanto strano fosse.

(In realtà mi ero chiesto più volte in passato il motivo per cui avesse deciso di prendermi con sé, perché se c’era una cosa che era stata messa in chiaro da Cross stesso fin dall’inizio, era che lui odiava i bambini. Se non il mondo in generale, escluso il genere femminile. Quindi rimaneva un mistero. Cross rimaneva un mistero.)

E inoltre, sfortunatamente, era nella mia natura preoccuparmi. Non tanto per Cross, perché ero sicuro che lui potesse sfuggire a qualsiasi guaio in cui si sarebbe mai cacciato. Ma… c’era qualcosa, in me, che non sopportava l’idea di essere abbandonato.

“Quattro mesi?” chiesi titubante, facendo di tutto per nascondere l’ansia che rischiava di far tremare la mia voce, “Non è un po’ più del solito?”

Cross si voltò verso di me e mi lanciò un’occhiata penetrante al di sopra dei suoi occhiali rettangolari.

Distolsi lo sguardo, agitandomi nervosamente sullo sgabello. Mi sentivo come un paziente in una sala operatoria, pronto ad essere aperto per permettere ai dottori di guardare all’interno – ogni tanto lo sguardo di Cross dava quella spiacevole sensazione di essere ispezionato da cima a fondo, senza possibilità di nascondersi.

Non volevo che capisse come mi sentivo, non volevo apparire debole in alcun modo.

Inspirando, incrociai le braccia sul torace con finto fare scocciato. “Non che mi importi di te. Voglio dire, l’unica cosa che mi preoccupa sono le orde di tuoi amici creditori che prima o poi riusciranno a rintracciare il nostro nuovo indirizzo e, non trovandoti, se la prenderanno con me. Sono bravo a battermi, ma non sono un cyborg con pugnali volanti e missili intelligenti installati nel mio—”

Cross proruppe in una sonora risata, che assomigliava più un latrato. “Ah, mi ero dimenticato di quanto fossi una mammoletta, moccioso,” mi schernì, posando finalmente la tazza nel lavandino, senza smettere di ghignare.

“Non sono una mammoletta!” protestai, punto sul vivo. “Ricordi l’ultima volta che è successo? Erano dieci. Qualcuno mi ha colpito in testa e bum! Mi sono risvegliato in una strada deserta con dolori su tutto il corpo e non so neanche cosa diavolo sia successo—”

“Non c’è bisogno di ricordare,” mi interruppe bruscamente Cross, con la schiena rivolta verso di me, e qualcosa nella sua voce mi suggerì di non continuare. Non potevo vedere la sua espressione, ma la sua voce era di certo seria, se non persino… agitata?

No, non poteva essere, doveva essere stata un’impressione. Anche perché non avrebbe avuto senso. Cross amava lasciarmi in balia dei creditori, che fosse via per lavoro o meno. Soprattutto da quando aveva scoperto che ero portato nel racimolare soldi giocando a poker.

Poteva essere che quel ricordo lo irritava? Era dispiaciuto perché avevo rischiato di farmi male sul serio?

…No, assolutamente no. Neanche sapevo se Cross teneva a me fino al livello di preoccuparsi per una cosa del genere.

Okay…?” Non sapevo cosa dire. Rimasi al mio posto, guardandolo e cercando di immaginare cosa stesse pensando, senza riuscirci.

“Comunque,” la fine di quello spiacevole silenzio mi fece quasi sospirare di sollievo. Cross si voltò di nuovo verso di me e mi guardò con un’aria quasi sofferente, come se quel che doveva dire gli costasse un enorme sforzo, “ti ho lasciato una carta di credito sul tavolino, in salotto. Il codice è scritto sul foglietto. Usala con la testa. Se quando torno hai esaurito il credito, giuro che ti uccido. Quindi trovati un lavoro pomeridiano e guadagnati da vivere.”

E quella era diventata, ufficialmente, la mattina delle sorprese.

“Cosa c’è,” chiese con voce monotona Cross, notando la mia espressione stupefatta – che personalmente non potevo vedere, ma ero sicuro che fosse un’espressione abbastanza idiota. Sentivo distintamente la mia mandibola qualche piano più in giù rispetto al resto della faccia.

“Tu hai… una carta di credito? Con del denaro vero dentro?” chiesi con aria ebete, troppo stupito per calibrare l’intonazione della mia voce.

Cross mi lanciò un’occhiata velenosa.

“Sì, ragazzo idiota, e queste tue affermazioni idiote e senza senso mi stanno facendo ripensare alla mia decisione di lasciarne una in tua custodia. Non vorrei che ogni volta che la maneggiassi avessi quell’espressione completamente idiota stampata sulla faccia, perché grida letteralmente ‘sono un idiota, derubatemi’.”

Aggrottai la fronte, improvvisamente seccato. Aveva usato la parola ‘idiota’ ben quattro volte.

“Non sono un idiota,” risposi intelligentemente. Forse avrei dovuto elaborare la frase un po’ di più.

Cross inarcò, scettico, un sopracciglio. “Se quella è la tua unica risposta, ho paura di doverti contraddire, ragazzo.” Inspirò una boccata di fumo dalla sua sigaretta ormai lunga pochi centimetri.

“L’hai rubata?”

Il mio tutore mi guardò minaccioso, e con un movimento rapido soffocò il mozzicone acceso sul fondo del portacenere. Io non indietreggiai. Alla fine, si decise a rispondermi. “No.”

“È falsa?”

“No.”

“Quanto c’è dentro?”

“Quattromila dollari.”

Sgranai così tanto gli occhi che per un momento ebbi paura che mi rotolassero fuori dalle orbite. “Ma che diavolo, Cross? Non mi hai mai lasciato quattromila dollari! Da dove spuntano questi soldi? Non ti ho mai visto usare una carta di credito in vita mia!” gli urlai alzandomi dallo sgabello. C’erano molte cose che non mi tornavano.

Cross si limitò a sfoggiare il suo tipico ghigno. “Per quanto ti possa sembrare strano, ragazzo, il mio lavoro mi fa guadagnare abbastanza da potermi permettere un piccolo conto di riserva,” spiegò con vaghezza – aumentando la mia abissale incomprensione –, “Vedilo come il primo, e ultimo, regalo della tua vita da parte mia, ragazzo. Perché non ci sarò a Natale.”

La mia rabbia calò significativamente a quelle parole, sostituita da un senso di freddo e vuoto, ma non glielo lasciai notare, continuando a lanciargli occhiatacce. Concentrai la mia attenzione su un altro problema inspiegabile.

“Ma se hai questi conti di riserva, allora, perché diamine non paghi i tuoi creditori?! Almeno in parte! Avrei meno cose di cui preoccuparmi, lo sai?!” lo redarguii ferocemente, puntandogli contro un dito accusatorio.

Cross scrollò le spalle, con espressione di indifferenza. “Te la cavi sempre così bene. E non ho voglia di sprecare soldi per ripagare creditori, quando sono diventato così bravo a sfuggirgli,” commentò con aria fastidiosamente soddisfatta.

Distolsi lo sguardo, sperando che la mancanza di contatto visivo placasse in parte la rabbia che mi stava salendo dentro e minacciava di scoppiare. Non funzionò molto. Strinsi i pugni e inspirai lentamente, poi la mia mente di scatto ritornò alla questione iniziale.

“Quand’è che parti?” chiesi, con finta calma, e un altrettanto finto sorriso stiracchiato sulle labbra. Speravo notasse fosse finto.

“Dovrei andare ora. Te l’ho detto che c’era un motivo se ti avevo chiamato così presto,” rispose Cross in tono piatto, tirando fuori dalle tasche dei pantaloni una nuova sigaretta e un accendino dorato. Mentre si infilava la sigaretta in bocca e ne accendeva un’estremità, mi lanciò un’occhiata pensosa.

“Non smetterà mai di stupirmi la tua capacità di distribuire sorrisi finti a chiunque tu incontri, buono o cattivo,” mormorò, con un tono tra lo scherno e la curiosità, “Sempre stupefacente.”

Lo guardai, senza dire nulla. Non c’era nulla da dire, in fondo. Sapevamo entrambi che quello era un argomento che non avremmo mai affrontato seriamente.

Cross mise via il suo accendino, e scostò una manica della camicia per controllare il suo orologio da polso. “Okay, penso sia ora,” disse, prima di dirigersi verso il salotto.

Automaticamente, mi alzai dallo sgabello, e lo seguii a qualche passo di distanza, osservandolo silenziosamente mentre afferrava la sua borsa da viaggio, appoggiata al bordo del divano, e poi si fermava davanti al guardaroba, aprendolo e tirando fuori la sua adorata giacca di pelle nera con gli orli consunti e l’odore di fumo impregnato indelebilmente nel materiale.

Si diresse verso la porta, e io gli andai dietro e quando si fermò mi fermai anche io. Aprii la bocca, intenzionato a dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, prima che se ne andasse, anche un insulto. Ma non mi venne in mente nulla, quindi la richiusi con uno scatto.

Forse era per quello che Cross non mi avvisava mai prima di partire. Forse trovare le parole giuste, che esprimessero il giusto livello di indifferenza e disinteresse, era troppo difficile. E imbarazzante. Non ero sicuro di esserne capace. Neanche ricordavo bene l’ultima volta che avevo salutato appropriatamente qualcuno.

Cross aprì la porta di casa e la fredda brezza autunnale del mattino entrò nella stanza e mi fece rabbrividire. Mi scostai dall’entrata e mi posizionai a lato della porta, al riparo dal freddo. Cross si voltò verso di me e mi guardò dall’alto in basso, con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto. “Beh, ragazzo… ci vediamo,” disse soltanto.

Io annuii titubante. “Ci vediamo.”

Il mio tutore sbuffò impietoso, con aria di scherno, e sogghignò. Gli lanciai un’occhiataccia, ma lui, come al solito, la ignorò. Sporgendomi oltre gli stipiti, lo guardai scocciato uscire dalla porta con aria di superiorità e percorrere con calma il breve vialetto che divideva il nostro cortile, senza mai voltarsi. Dopodiché raggiunse la sua auto nera metallizzata, parcheggiata lungo il marciapiede.

Mentre maneggiava con le chiavi, si voltò. E, nonostante la distanza, potevo vedere chiaramente quel suo odioso sorriso strafottente stiracchiato sulle sue labbra.

“Un’ultima cosa, stupido ragazzo,” gridò, mentre scivolava nell’auto, “non fare il codardo come al solito e vai a scuola, perché lo saprò se non ci vai. E sai che sto aspettando l’occasione giusta per mollarti un’altra mazzetta di de—”

Sbattei chiusa la porta prima che potesse finire.

“Da quando aspetta ‘occasioni giuste’ per mollarmi i suoi debiti?!” esclamai inviperito. Rimasi di fronte alla porta per un po’, guardandola torvo, aspettandomi scioccamente che Cross ripercorresse il cortile e rientrasse solo per finire il suo discorso.

Ma Cross non ritornò, e da fuori sentii provenire il rumore di un motore che si accendeva e si allontanava sulla strada ancora deserta e silenziosa.

Inspirando profondamente, chiusi gli occhi e mi girai, appoggiando la schiena contro la porta. Sentii tornare nei muscoli e dietro le palpebre tutta la stanchezza che credevo scomparsa durante la conversazione. Mi lasciai andare a un lungo sospiro che non mi ero accorto di aver trattenuto, e infine riaprii gli occhi.

Feci vagare il mio sguardo per quella casa vuota, ancora per nulla familiare, che ora appariva più buia e fredda del solito.

Alla fine la mia attenzione cadde inevitabilmente sulle numerose bottiglie lasciate per terra sul tappeto del salotto. Feci roteare gli occhi in segno di disprezzo, ma non potei impedire a un sorrisetto di piazzarsi fastidioso e indesiderato sulle mie labbra.

Lanciai un’occhiata all’orologio appeso al muro del salotto. Segnava le sei e venticinque.

oOoOoOoOoOo

Non c’erano poi tante cose che potessi fare a quell’ora, in un’ora di tempo, prima di essere costretto a prepararmi e andare a scuola ad affrontare la mia ‘prima giornata di strazi e sofferenze’, come Cross amava chiamarla durante i giorni passati.

Tornare a letto non era un’opzione: ero sicuro che non mi sarei mai riaddormentato a questo punto, con tutto quello che era successo e il tempo per cui ero rimasto sveglio, nonostante il sonno arretrato ancora facesse pesare le mie palpebre.

Quindi decisi di anticipare la preparazione per la scuola, prendendomela con calma, in modo da avere meno tempo per fare altro dopo – se non altro, appunto, per la difficoltà di trovare a cosa potesse equivalere quell’ ‘altro’.

Perciò salii le scale e entrai nell’ultima porta del corridoio, che dava sul bagno. Chiudendo – in realtà inutilmente – la porta dietro di me, mi affrettai ad accendere l’acqua della doccia, sollevando la manovella e girandola in direzione del pallino rosso. Dopodiché tolsi il braccio dalla doccia, aspettando che diventasse abbastanza calda.

Iniziai a levarmi la maglietta, buttandola per terra senza molti riguardi, ma nel gesto il mio sguardo cadde sul grande specchio sopra il lavandino. Di solito evitavo di specchiarmi a lungo, c’erano troppe cose nel mio aspetto che trovavo a dir poco sgradevoli. A partire dai miei capelli, bianchi come la neve, che ricadevano in ciuffi disordinati in ogni direzione, e la frangia strategicamente posizionata perché riuscisse a coprire facilmente la parte più grottesca della strana, lunga cicatrice rossa che mi percorreva il lato destro della faccia, dalla fronte fino quasi al mento. Scostai di malavoglia alcune ciocche della frangia, e ispezionai più da vicino quelle cinque precise linee che formavano il pentacolo inciso sulla mia fronte, come se ormai non le conoscessi a memoria. Lungo la cicatrice, la pelle era ormai diventata liscia, essendo una ferita vecchia, ma stranamente si era conservato il malsano rosso sangue dei suoi primi momenti di vita…

Stringendo le palpebre e afferrando il lavandino con le mani, mi allontanai di scatto dallo specchio, respirando affannosamente. Non dovevo pensarci. Nonostante fossero passati anni, ricordavo ancora alla perfezione quel giorno – il coltello levato in aria, il sangue, il dolore— non volevo quel ricordo.

Aprii alla cieca il rubinetto, e mi bagnai il viso con l’acqua fredda, prima di abbassare la manovella e inspirare con calma, contando fino a dieci…

Solo nel silenzio di quei dieci secondi mi accorsi del rumore di acqua corrente, e come uno stupido, mi ricordai che la doccia mi aspettava.

Mi tolsi velocemente anche i boxer, e mi infilai sotto l’acqua ormai calda. Non so quanto tempo rimasi sotto il getto della doccia, con gli occhi chiusi e la testa rivolta verso l’alto, senza pensare a nulla di preciso, soltanto ascoltando il rumore dello scroscio d’acqua. E quando iniziai lentamente a insaponarmi, feci finta di non sentire la differenza di ruvidità tra le mie mani.

oOoOoOoOoOo

Appena mi ero alzato quella mattina avevo realizzato, con sconcertante sicurezza, che quella giornata non sarebbe stata la mia giornata. E fino a quel momento il mondo, da Cross all’insolita brezza fredda di quegli ultimi giorni di Ottobre che era decisa a congelarmi le ossa, sembrava avermi dato ragione.

La Black Order High School, la scuola che avrei teoricamente dovuto frequentare per i tre anni successivi, era piuttosto imponente e massiccia. L’edificio aveva un aspetto moderno, coi suoi muri bianchi e le lunghe file di finestre larghe disposte regolarmente su tutte le pareti, a contrassegno di ognuno dei quattro piani. Al centro della facciata principale si apriva l’entrata, costituita da due grandi porte a vetri spalancate verso l’esterno. Davanti ad essa, una corta gradinata di pietra collegava l’edificio alla vasta piazzetta rettangolare che fungeva da parcheggio della scuola, al centro della quale si ergeva una piccola fontana bianca, che non mostrava tracce d’acqua, circondata da un’aiuola circolare senza fiori e disseminata di foglie secche svolazzanti nella lieve brezza. Una striscia sottile di alti alberi dalle foglie rosse e gialle limitava, insieme ad un basso muretto in mattoncini rossi, il territorio scolastico circostante.

Si trovava in una posizione abbastanza comoda da raggiungere, essendo ai margini della zona commerciale della città di Kellingstone. Kellingstone era una di quelle classiche città americane non troppo grandi o conosciute, ma comunque piuttosto vive e abitabili. La via su cui la scuola si affacciava era poco trafficata, e ospitava una serie apparentemente infinita di negozietti e bar, in contrasto con gli alti edifici che qualche kilometro più avanti si ergevano segnando l’ingresso nel cuore della città.

Non era molto distante da casa mia, dato che abitavo in una zona residenziale fuori dal centro. Mi bastavano dieci minuti per raggiungerla in bici.

Ma quei dieci minuti erano stati sufficienti perché ogni briciolo di forza e coraggio mi abbandonasse, sempre di più man mano che pedalavo e mi facevo più vicino ad essa. E ora che mi ci trovavo davanti, in sella alla mia bici, con le mani guantate serrate quasi convulsamente sui manici del manubrio, trattenevo a stento il desiderio di voltare la bici e fare marcia indietro – l’unica cosa che mi impediva di agire erano le parole del Maestro. Non volevo dargliela vinta, io non ero un codardo.

Nella maggior parte dei casi, almeno. Magari non in questo.

La mia mente tornò con finta disinvoltura a Timcanpy, il fedele gatto di Cross, che quella mattina avevo salutato appena uscendo di casa, e che con tutta probabilità mi aspettava, acciambellato sul bracciolo del divano, speranzoso in un mio prossimo ritorno e in una buona dose di coccole.

Non so per quanto rimasi fermo, infagottato nel mio cappotto, a ingombrare il marciapiede, percorso da ragazzi che si dirigevano verso le porte aperte della scuola, la maggior parte sorpassandomi come se a malapena mi notassero – anche se non mi sfuggirono le occhiate curiose di un gruppo di studentesse, poco distanti da me, che parlavano a bassa voce tra di loro e probabilmente si stavano chiedendo chi fossi e perché avessi i capelli tinti di bianco. Avrei preferito non notarle.

Mi tirai sulla fronte il cappuccio grigio della mia felpa, allungandolo il più possibile, e mi sistemai quasi inconsciamente la frangia, sperando che la cicatrice fosse abbastanza coperta.

Osservai un’ultima volta la facciata principale dell’edificio e il flusso di giovani che si dirigeva lentamente all’interno, chiedendomi se fosse davvero il caso di unirmi a loro.

Quando la campanella suonò, e tutti gli studenti ancora fuori si affrettarono su per la gradinata di pietra, ebbi la mia risposta.

Con un sospiro scesi dalla bici e la voltai lungo il marciapiede. Avevo visto un parchetto lungo la strada che avevo percorso, e mi venne la mezza idea di fermarmi là per un po’, il tempo necessario per auto-convicermi che lo stavo facendo per Timcanpy.

Camminando a testa bassa e conducendo la bici al mio fianco, smisi di osservare gli studenti che correvano e concentrai lo sguardo sulle fessure screpolate del marciapiede, come se meritassero la mia piena attenzione.

Il Maestro non ne sarebbe stato contento. Ma a chi importava di cosa pensava il Maestro?

Di certo non a me’, pensai tra me e me con un ringhio mentre camminavo – intanto mi chiedevo se davvero Cross aveva le sue vie per sapere se ero andato o meno a scuola, e feci una rapida stima della cifra a cui potessero ammontare attualmente i suoi debiti.

Immerso completamente nei miei pensieri, sfortunatamente notai solo troppo tardi la persona che mi si avvicinava con passo spedito e il naso infilato in un blocco di documenti. Prima che potessi anche solo pensare di scostarmi dalla sua strada, la collisione frontale era già avvenuta, causando davanti a me un turbinio di fogli.

Ow!” esclamai, nonostante non mi fossi fatto poi così male. Era più una… esclamazione istintiva. Aprii gli occhi, che non mi ero accorto di aver chiuso, e realizzai di aver mollato il manubrio della bici, che era quindi caduta a terra in un susseguirsi di rumori metallici poco rassicuranti – era vecchia, e la catena non era mai stata molto stabile, speravo solo che non fosse caduta di nuovo. Non mi era mai piaciuto improvvisarmi meccanico. Mi piegai per tirarla su, e solo allora mi ricordai – sentendomi particolarmente stupido – della persona con cui mi ero scontrato, trovandomi faccia a faccia con lui.

Davanti a me, piegato a terra e intento a raccogliere dall’asfalto i fogli che gli erano scivolati dalle mani, vi era un uomo sulla quarantina, probabilmente di origine asiatica e dallo stile indubbiamente… eccentrico.

Portava un basco alla francese color perla, che gli pendeva pericolosamente da un lato, sotto cui spuntavano capelli neri acconciati in innaturali boccoli all’insù. Sulla punta del naso erano appollaiati degli occhiali dalla montatura sottile e dalle lenti a forma di pentagoni schiacciati con la punta rivolta verso il basso, che tagliavano a metà gli affilati occhi a mandorla dalle iridi scure. Ma la cosa più insolita era di sicuro il cappotto che indossava, paragonabile a uno di quelli che nei film di solito usano gli investigatori privati in servizio: grigio, totalmente anonimo se non per i grossi bottoni neri finemente elaborati lungo lo spacco centrale, gli arrivava probabilmente fino alle ginocchia, ed era ricoperto di numerose tasche da cui spuntavano quelli che sembravano dei portachiavi a forma di piccoli robot di metallo colorati. Tutti avevano in comune l’inquietante somiglianza fisica con il loro possessore: dotati di mini-occhiali, basco e bocca dai denti affilati come rasoi, erano vestiti in modi curiosi e tenevano stretti tra le mani i gadget più svariati, da una semplice tazza da latte a un trapano grande quanto l’omino intero.

La cosa strana era che – l’avrei potuto giurare – alcuni di questi emettevano vapore e microscopiche scintille.

“Eccentrico,” sentii sussurrare da una voce maschile, e alzando lo sguardo dagli inquietanti modellini, notai con stupore che l’uomo di fronte a me aveva ormai finito di raccogliere i suoi fogli e stava ora guardandomi dritto negli occhi con un’espressione curiosa dipinta sul volto.

Ah…” all’improvviso mi sentii estremamente imbarazzato, e non sapevo neanche perché. Grattandomi una guancia, mi alzai in piedi, e l’uomo mi imitò, senza smettere di fissarmi. “Stavo pensando la stessa cosa.”

Perplesso, il signore seguì lo sguardo che avevo brevemente lanciato al suo cappotto e, comprendendo, ridacchiò: “Intendi questi ometti? Non li trovi amorevoli?”

Rimasi zitto un attimo, cercando di capire se fosse serio o se si trattasse di una domanda trabocchetto. Perché quei cosi, qualunque cosa fossero, erano tutto tranne che amorevoli.

Già…?” risposi, non sicuro io stesso di aver fatto un’affermazione o una domanda. E davvero non riuscivo a staccare lo sguardo da quegli omini – uno cacciò fuori dalla piccola bocca un’alitata di fumo. Quella di certo non era un prodotto della mia immaginazione.

“Non è che, per caso, tu sei Allen Walker?” chiese all’improvviso il signore.

Lo fissai allibito, annuendo con la testa. Solo allora, considerando il suo aspetto e i fogli pieni di calcoli matematici che teneva in mano, mi venne in mente che l’uomo poteva essere un professore della scuola, magari persino informato del mio arrivo, magari un mio professore, e che sbattendoci contro avevo firmato la mia condanna giornaliera.

L’uomo sembrò illuminarsi. “Sono il professor Lee, il tuo futuro professore di matematica,” mi informò con tono felice, allungando una mano verso di me.

Ogni tanto odiavo avere ragione.

Gli strinsi la mano con finto piacere, stiracchiandomi a forza un sorriso sulle labbra, e vagamente chiedendomi se trovava strano che portassi dei guanti – probabilmente no, data la stagione in cui ci trovavamo.

“Sono stato ovviamente informato del tuo arrivo. Anzi, ho parlato personalmente con Marian, essendo un suo amico di vecchia data. Mi ha avvisato di tenerti d’occhio, eheh! Ti ha descritto sommariamente ed è per questo che ho potuto riconoscerti. D’altronde non è difficile, hai un aspetto molto… peculiare,” si fermò, come se fosse titubante, ma non gli badai. Avevo smesso di ascoltarlo quando aveva detto di conoscere Cross. Una valanga di domande mi inondò la mente: come e quando si erano conosciuti? Lee sapeva qualcosa del lavoro di Cross? Quanto gli aveva raccontato Cross su di me? (Era lui l’ipotetico informatore di Cross sulle mie eventuali assenze scolastiche? Se sì, beh, diamine).

“Ah, ma che sciocco!” esclamò il signor Lee, battendosi il palmo della mano sulla fronte, “Siamo in ritardo, dovremmo muoverci!” E detto ciò, si riavviò in direzione della scuola. Ma a quanto pare si aspettava che lo seguissi, perché, una volta sorpassatomi e notato che non avevo ancora mosso un muscolo, mi lanciò un’occhiata inquisitoria.

“La scuola è da quella parte,” mi disse, indicando con un cenno l’odiato edificio. Vidi il suo sguardo cadere sulla mia bici, notare la direzione verso cui era voltata, e collegare rapidamente i vari indizi.

Tirai un lungo sospiro e, ignorando il vago senso di colpa che provai guardando il professore, rimasi fermo, “Lo so.”

Non era probabilmente la cosa migliore da dire al professore che aveva appena sventato il mio tentativo di bigiare il primo giorno di scuola. Non sapevo cosa aspettarmi, ma non ero sicuro che mi importasse: mi avrebbe portato direttamente in presidenza, accusandomi davanti al preside di essere un ‘elemento dispari’? Mi avrebbe lasciato proseguire nella mia direzione, con totale indifferenza? Oppure—

Fu allora che vidi sul volto del signor Lee un sorriso che conoscevo bene, ma che non vedevo da molti anni: un sorriso più eloquente di mille parole, che era al contempo di dispiacere e di incoraggiamento, come se mi volesse dire ‘lo so che le cose non sono andate bene fino ad ora, ma migliorerà’. E faceva male soltanto a guardarlo – quanto gli aveva raccontato Cross?

‘Dove l’ho già visto? C’è era qualcuno che mi sorrideva sempre così… ma chi?’

Sgranai gli occhi, stupito dai miei stessi pensieri. C’era qualcosa che non riuscivo a ricordare?

“Sei arrivato fin qui, no?” mi chiese con voce calma il professore, riacquistando la mia attenzione, “Perché tirarsi indietro ora?”

Non sapevo se stesse aspettando una qualche risposta da me, ma comunque rimasi in silenzio, non trovandone una adatta. Fissando con sguardo vacuo l’asfalto, realizzai che era vero; ero arrivato fino a lì, a un passo dalle porte della scuola, a un passo dall’opportunità di una nuova vita, e ora mi tiravo indietro, solo perché una volta era andata male – ‘più di una volta, ma non è questo il punto’. Se me ne fossi andato, Cross avrebbe avuto ragione a darmi del codardo.

Improvvisamente, mi sentii cadere addosso il peso della mia stupidità, di quel giorno e dei giorni passati, e mi domandai perché, dopo quello che era successo nell’altra scuola, fosse diventato così difficile per me accettare la possibilità che questa volta le cose potessero andare diversamente, meglio. Un’ondata di vergogna per me stesso mi fece scorrere il sangue verso la faccia, e avvertii le mie guance avvampare violentemente.

E nello stesso momento sentii una fitta improvvisa al cervello, un dolore acuto, come se qualcuno lo stesse perforando con degli aghi—mi strinsi la testa tra le mani e chiusi gli occhi, tentando di sgombrare la mente. Avevo la sensazione di aver dimenticato qualcosa di importante, qualcosa di fondamentale che non avrei dovuto assolutamente dimenticare, e ora quel qualcosa stava cercando di farsi strada tra i ricordi per risalire in superficie, senza riuscirci, continuando a sprofondare… C’era qualcuno che urlava…

‘Non guardare!’

“Ti senti bene, Walker?”

E come il dolore era arrivato, in un attimo sparì. Aprendo gli occhi, alzai lo sguardo, un po’ disorientato, e vidi il professore scrutarmi con un’aria preoccupata. Scossi la testa.

“Sto bene. Non è niente.”

Questo bastò perché il professor Lee ritornasse a sorridermi. “Vieni. Ti accompagnerò in segreteria,” mi propose.

Annuii, questa volta con più sicurezza. Voltai la bici, e ci incamminammo insieme verso la scuola.

Scoprii di non avere il coraggio di guardare negli occhi il professore, ma sentivo il bisogno di dover rispondere alla sua domanda precedente. Non capivo come fosse possibile, ma un semplice sorriso e una frase erano riusciti a riaccendere dentro di me una piccola fiamma, che nei mesi precedenti si era affievolita fino a spegnersi.

“Ha ragione, professore,” mormorai a mezza voce, guardando dritto davanti a me. “Grazie mille.”

E nonostante non lo stessi guardando, avvertii lo stupore che radiava dal signor Lee. Pochi secondi dopo, lo udii ridacchiare sommessamente, una risata soddisfatta che mi scaldò, anche se non ne capivo il motivo. Trattenni a stento un sorriso – probabilmente il più sincero da mesi.

Lungo la strada che facemmo insieme, il signor Lee cominciò a parlare con vivacità del più e del meno – come se nulla fosse successo, e gliene fui grato. Mi parlò della scuola, della mia futura classe, degli altri professori che avrei avuto; lo ascoltai solo a metà. Una volta lasciata la bici nel parcheggio e varcata la soglia delle grandi porte a vetri, immerso nella mia bolla personale di ansia e rinata speranza, l’unica stupida cosa a cui riuscivo a pensare era che Timcanpy non mi avrebbe rivisto fino a tardo pomeriggio, e quello era un vero peccato.

oOoOoOoOoOo

“Lotto B, secondo piano, la terza porta a destra oltre l’aula di Lingue. Non puoi perderti.”

E invece potevo perdermi, come dimostrava la mia attuale – e appunto sconosciuta – ubicazione in territorio scolastico. 

Stupida segretaria scansafatiche.

Mi aveva indicato una direzione, che avevo diligentemente seguito, ma a quanto pare mi ero un po’ distratto ripensando all’incontro con il professor Lee, e ad un tratto mi ero ritrovato in un corridoio immerso nel silenzio in cui non vi era alcuna traccia di quella dannata ‘aula di Lingue’.

Quindi, riassumendo, ero in un corridoio di non sapevo quale piano di un altrettanto sconosciuto ‘Lotto’, in spudorato ritardo, con un foglietto firmato dal professor Lee con su scritti il nome della sezione e un’improvvisata giustifica per il ritardo.

Ormai non valeva la pena cercare la mia aula, sarebbe stato troppo imbarazzante entrare a metà ora. Forse il professore mi avrebbe chiesto con sarcasmo se mi ero perso, e rispondere di sì, nonostante fosse la pura verità, sarebbe stato esageratamente umiliante (non presi in considerazione l’idea che potesse essere comprensivo).

Mi guardai intorno un po’ esasperato, sbuffando e imprecando mentalmente contro la mia totale mancanza di orientamento.

La cosa più intelligente da fare sarebbe stata ritornare al piano terra e cercare di ricordare la strada verso la segreteria percorsa con Lee poco prima, e una volta là chiedere a quella stupida segretaria se poteva darmi indicazioni dettagliate di come raggiungere la biblioteca – in una scuola così grande doveva pur esserci una biblioteca da qualche parte – in modo da poterci passare il resto dell’ora senza dover rimanere a vagare per i corridoi come un’anima in pena. Come stavo facendo in quel momento.

Ma qualcosa mi disse che sarebbe stato inutile anche tentare di andare in biblioteca. Avrei potuto chiedere alla segretaria di accompagnarmi, ma ero convinto che avrebbe ignorato la mia richiesta nello stesso modo disinteressato con cui mi aveva fornito quelle totalmente scadenti istruzioni su come raggiungere la mia aula. Seriamente, perché questa scuola era così vuota? Non avevo incontrato neanche un bidello camminando per scale e corridoi, e a meno che non fossi andato a imbucarmi in una zona caduta in disuso – cosa che non era, perché sentivo voci provenire dietro alcune porte – ciò era parecchio strano.

Colto da un’ondata di stanchezza psicologica di fronte all’assenza di indicazioni stradali, mi sedetti per terra, in mezzo al corridoio vuoto, deciso ad occupare i minuti successivi a recuperare le forze – e perdere ulteriore tempo prima di dover andare a cercare inevitabilmente la mia classe. Con le gambe incrociate, chiusi gli occhi e inspirai profondamente.

“Non penso che rimanere seduti al centro di un corridoio per un’intera ora sia il modo più sagace per bigiare una lezione,” mi sussurrò divertita una voce maschile alle mie spalle.

Ancora non sapevo che proprio quella voce apparteneva alla persona che di lì a qualche mese avrebbe completamente stravolto la mia vita.

   
 
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