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Autore: Atreius    26/05/2011    2 recensioni
E' sempre bello tornare a casa, dopo tanto tempo. Non sempre però le cose sono come le avevamo lasciate, o come avremmo voluto che fossero. Dopo tanti anni, Ettore, giovane medico chirurgo, finalmente, torna a casa. Sarà tutto come prima?
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I cortili dell'ospedale erano attraversati dall'aria calda estiva, affollati di pazienti, medici, infermieri, di tutto il personale che come un industrioso popolo di formiche sciamava fra palazzi, sotterranei e porticati.
Il complesso era enorme, immerso in un parco, al centro della città. I viali alberati dividevano i vari fabbricati, in cui erano ospitati i diversi reparti.
Un buon odore di caffè e brioche si diffondeva un po' ovunque, attirando il nutrito gruppo di persone che usciva dal padiglione H, a digiuno forzato per il prelievo ematico.
In quella mattina di maggio dal sapore d'agosto, un giovane uomo dai capelli neri, mossi, posteggiava la sua Ducati Diavel al di sotto del padiglione S.
"Come Surgeon". Pensò sorridendo, mentre si sistemava gli occhiali, calcandoseli sul naso.
Si guardò intorno, rimirando coi suoi profondi occhi scuri, quei cortili, quelle mura, ogni singolo mattone. Era a casa. Dopo tanti anni, era tornato a casa.
Si sentì fremere d'impazienza, mentre un brivido gli attraversava la schiena. Sistemò il casco nello zaino, incamminandosi.
Ogni passo gli suscitava un ricordo, una miriade di vecchie immagini. Si sentì invadere da un mix di malinconia, e dolcezza, come accade sempre, quando si torna nel passato.
Entrò nell'androne delle scale, gettò un occhio all'elenco dei piani, solo per controllare se dopo sei anni, fosse ancora tutto come prima.
Sarebbe stato bello, fosse stato così. Rimuginò per un secondo, mentre superava il terzo piano. Accarezzò con lo sguardo il pesante portone tagliafuoco.
"Medicina Interna". Lesse. Sbirciò oltre ai vetri, intravvedendo i corridoi giallo ocra. Sentì una fitta al petto, prima di andare oltre.
Lei. Lei, i suoi occhi azzurri, i suoi capelli biondo cenere, le sue mani affusolate, il suo sorriso, così bello, con i suoi buffissimi denti storti. Sei anni. Si chiese per l'ennesima volta, se in sei anni, fosse cambiata, se fosse diversa da come la ricordava. Da com'era in quella foto meravigliosa che ancora teneva nel portafoglio, stretta a lui, sorridente, nel suo camice bianco.
Il quinto piano. Era arrivato. Spalancò la porta, muovendosi a suo agio, fra i corridoi grigi.
Raggiunse gli studi medici, e vi entrò.
"Buon giorno, dottore." Ridacchiò un uomo sulla cinquantina, i capelli brizzolati, gli occhialini senza montatura, seduto alla sua scrivania, come saluto.
Il giovane lo guardò, sorridendo.
"Buon giorno, professore". Seguì una vigorosa stretta di mano.
"Mamma mia, che cambiamento. Mi ricordo quando è entrato da quella porta uno sbarbatello, che mi aveva chiesto, mangiandosi un po' le parole, di frequentare". Disse, con un sorriso, voltandogli le spalle, guardando la finestra, subito affiancato dal giovane dottore.
"E ora..." Proseguì, ma fu subito interrotto.
"Ora vede uno sbarbatello sulla trentina".
"Ora vedo un uomo, che si affaccia ad una carriera, ben preparato. Dovrai lavorare molto qui, per trovare il tuo spazio." Concluse, guardandolo.
"Spero di non deluderla". Rispose il più giovane, risoluto.
"Hai vinto un concorso pubblico per essere qui, un concorso con tanti candidati. Non dormire sugli allori, eh?" Ridacchiò.

Mezz'ora dopo, il giovane chirurgo aveva indossato il suo scrub verde nuovo, fiammante, attaccando l'adesivo con il suo nome all'armadietto. Accarezzò la maniglia dello spogliatoio. Sei anni, eppure il ricordo era vivo come fosse ieri.
Si buttò nell'avventurosa mattinata in corsia.

All'alba delle 18:30, il giovane chirurgo scese le scale, per tornare a casa, dopo il primo giorno di lavoro. Era stato emozionante tornare nell'ospedale che l'aveva visto crescere da studente. Era stato incredibilmente bello. Era come tornare nella propria patria, dopo un viaggio durato anni luce. Aveva fatto tutoraggio a studenti del quarto anno. Era come tornare alle origini, dove tutto era cominciato.
Si fermò davanti alla Medicina Interna. Di nuovo. Lei. Lei era lì? O era altrove, fuggita via, come aveva fatto lui?
Era combattuto. Entrare? E se ci fosse stata? Sarebbe significato affrontarla, sostenere il suo sguardo, che lo indagava dentro, come aveva sempre fatto. E questa volta, era quasi sicuro non ci sarebbe stato un abbraccio consolatore, per lui. Era bello quando era un semplice studente, quando erano amici, quando vivevano l'uno per l'altra, passando notti intere immersi sui libri, o a parlare, camminando nel parco, sotto il sole primaverile. Ricordò la purezza dei loro abbracci, di quel sentimento che andava oltre quelli che avesse mai provato. Si era accorto di passare sempre più tempo a fissarla, a guardare come fosse bella. Aveva avuto molte storie, con diverse ragazze, da studente. E lei aveva una relazione sentimentale stabile, fatta di "tira e molla", con un ragazzo che studiava filosofia.
Aveva deciso di non rovinare tutto, che era meglio essere codardo, e avere un'amica, una splendida e dolce amica, piuttosto che rischiare, e perderla per sempre.
E aveva finito col perderla davvero, invece.
Si pentì di non essere mai tornato a casa, da Ottawa, dove era andato a studiare per la specialità. Ripensò alle mail fiume che si erano scambiati, i primi tempi, a quante volte le aveva detto che sentiva la sua mancanza, a quanto era arrivato vicinissimo a confessarle i suoi sentimenti, quella volte che lei gli aveva scritto con una lunghissima lettera, che il "filosofo", come lo chiamava lui, l'aveva lasciata.
A quanto erano distanti, a quanto doloroso era sentirsi ogni volta. Pensò alla loro decisione, di andare avanti, di vivere un rapporto vero, magari con un'altra persona, e non uno scambio di lettere, parole, che per quanto intenso fosse, non era una storia vera.
Immerso in questi pensieri, con la mano sul maniglione della porta, fu spinto nel reparto da un'irruente signora anziana.
"Deve proprio fermarsi in mezzo alla porta?" Inveì, prima di andare oltre, mentre il giovane chirurgo, si sentì imbarazzato, fermo in mezzo al corridoio.
Lei aveva sempre avuto il potere di farlo sentire sulle nuvole, e questo accadeva persino a pensarla, figuriamoci a vederla.
Si incamminò nel lungo corridoio, guardando gli ambulatori, le stanze. Era ora di visita, i parenti affollavano il reparto, per vedere i loro cari.
Era calmo, il pomeriggio in quel reparto, proprio come lo ricordava da studente. Sbirciò speranzoso, senza sapere bene di cosa, nelle porte, negli stanzini, persino nella cucina infermieri.
Scosse la testa. Sicuramente non era più in quel reparto, di sicuro era andata a lavorare altrove. Girò le spalle alla corsia, sentendo uno strano groppo alla gola. Si ricordò di come era bello, quando andava a trovarla, lui col suo scrub verde, e lei nel suo camice bianco. Di come giocavano a sentirsi importanti, già adulti, grandi medici. Lei usciva fuori nel corridoio, e correva sempre ad abbracciarlo, più di una volta aveva rischiato di farlo cadere, fra gli sguardi divertiti dei pazienti.
"Ettore?"
Gli era sembrato di sentirsi chiamare. Era davvero una causa persa, se sentiva persino la sua voce.
"Ettore?" Fece ancora qualche passo, e sentì come se il suo stomaco avesse deciso di fare un paio di capriole, senza chiedergli il permesso. Il suo sistema simpatico e parasimpatico avevano deciso di andare in corto-circuito.
"Ettore?" Quella voce, ancora. Tachicardico, sentendo le gambe molli come fossero burro, si girò piano.
E la vide. Ancora più bella di come la ricordava. Era in piedi, a qualche metro da lui, il camice bianco aperto, che mostrava uno scrub azzurro elettrico. Ettore ammirò i suoi capelli lunghi fino alle spalle, mossi, non crespi come li ricordava, ma morbidi, le sue spalle ampie, e la sua figura sottile, che era maturata ancora, lasciando intravvedere i fianchi morbidi, e una curva sul seno.
Arrossì, guardandola, e cercò di chiamarla, ma la voce gli si fermò in gola. Fece un timido passo in avanti.
Lei non si mosse, guardandolo, come si guarda un qualcosa che si ritrova all'improvviso, credendolo perduto.
Fermò il suo sguardo sulle sue spalle, suoi suoi capelli, fino ai suoi occhi. Si fissarono per secondi che parvero eterni.
"Michela?" disse alla fine, Ettore, con la sua voce bassa, roca.
La dottoressa annuì, prima di corrergli incontro, mentre il chirurgo spalancava le braccia, accogliendola. Fu un abbraccio forte, dettato dal bisogno, dalla nostalgia, come a voler stringere sei anni di lontananza in pochi centimetri di spazio.
"Ettore, Ettore, Ettore!" Cantileneva Michela, a bassa voce, la testa premuta contro la sua spalla, mentre il giovane affondava il viso fra i suoi capelli. La allontanò, prendendola per le spalle.
"Mi sei mancata -disse- mi sei mancata da morire. Per anni ho avuto paura di questo momento, eppure l'ho desiderato così tanto." Lei fece per interromperlo, ma Ettore poggiò l'indice sulle sue labbra, zittendola.
"Lasciami finire, o ci vorranno altri sei anni, prima che trovi le parole giuste. Non ho fatto altro che pensarti, che cercare il tuo viso in ogni ragazza con cui uscivo, il tuo sorriso amabile. Non ho fatto altro che pensare a cosa avresti detto, o fatto, fossi stata con me. Io..." Si fermò, all'improvviso tornando il ventenne impacciato e timido che era stato un tempo, non il disinvolto uomo che era diventato. Michela lo guardava, e la ragazza arrossì, portando le sue mani a stringere quelle di Ettore. Le sollevò all'altezza dei loro visi, senza smettere di stringerle.
"Io ti ho pensato ogni giorno. Ho pensato a quanto sono stata stupida, a quanto abbia cercato di continuo persone che mi hanno solo fatto soffrire, persa dietro chissà quale idea. Il vero tesoro è sempre stato al mio fianco. Mi sono sentita morire, quando sei andato via. Era colpa mia." Sussurrò, con gli occhi bassi.
"Non è vero" Protestò Ettore, scuotendo il capo. Fu il turno di Michela zittirlo.
"Ho sempre pensato che te ne fossi andato per non starmi più vicino. Per non soffrire, per dimenticare quello che provavi. Per allontanarti da me. Io ti ho fatto scappare." Si fermò per un attimo, guardandolo fisso negli occhi, con commozione.
"Io non so cosa sia cambiato, in questi anni. Io non ho fatto altro che desiderare di vederti aprire quella porta, e tornare, tornare da me. Ho sempre sperato, di non averti fatto soffrire abbastanza, di non averti ferito così tanto da non farti tornare mai più." Concluse, d'un fiato.
"E' colpa di entrambi. Sono stato un codardo. Io ho paura che sia tardi per dirtelo adesso, ma se non lo faccio, me ne pentirò sempre. Io sono innamorato di te. Dal primo anno, da quando una ragazzina un po' smunta si è seduta nel banco vicino al mio, il due di ottobre di dodici anni fa. Mentre studiavamo, ero innamorato di te. Quando appoggiavi la testa alla mia spalla, confidandomi i tuoi problemi, ero innamorato di te. Oggi, io sono ancora innamorato di te." Ettore si sentì come un maratoneta al termine di una gara olimpica, esausto, dopo aver pronunciato quelle parole. Trattenne il fiato, vedendo una lacrima, solitaria, solcare il viso di lei, che era arrossita.
"Ecco, ti ho fatta piangere, che idiota".
"No..." Scosse la testa Michela, per poi chiudere gli occhi, e, senza preavviso, avvicinare le proprie labbra a quelle di Ettore, che restò fermo, con le braccia a mezz'aria, spaesato e sopreso. Fu un bacio delicato, una carezza, timido come quello di due ragazzini.
Lei si allontanò, sorridendo fra le lacrime.
"Io sono innamorata di te." Disse alla fine. Ettore guardò i suoi occhi. Era splendida. Però il sorriso era diverso, era cambiato.
"Hai messo l'apparecchio? I denti non sono più storti!" Esclamò senza sapere bene cosa dire, divertito.
Lei avvampò. "Cioè, fammi capire, io ti ho appena baciato e tu mi guardi i denti?"
Ettore rise, facendo spallucce. Michela sembrò sul punto di tirargli una sberla, ma poi scoppiò a ridere anche lei. Annuì.
"Direi di ricontrollare meglio" Sussurrò lui. Poi poggiò le mani sul suo viso, senza smettere di fissarla, e si avvicinò, con calma, assaporando ogni centimetro che lo divideva della sue labbra. E infine la baciò, in piedi, in mezzo al corridoio del reparto, sotto gli sguardi sorpresi della gente, entrambi senza smettere di sorridere.
"Un po' di riguardo, è un ospedale". Sussurrò lei, alla fine.
"E' vero. Per Asclepio!-ridacchiò Ettore- Ti aspetto giù, nel parcheggio. Quando hai finito, io sono lì. Ti ho aspettato per così tanto, aspettarti ancora, non mi dispiace."
Lei lo guardò ancora una volta, raggiante.
"A dopo allora."
Si lasciarono, e mentre si allontanavano, ognuno continuava a guardarsi indietro.
Un'ora dopo, Ettore, appoggiato alla moto, la vide scendere le scale, e correre verso di lui.
"Ben tornato." Sussurrò a se stesso, prima di correrle incontro a sua volta.








Questa storia è dedicata a voi, amici miei, colleghi, come dovrei chiamarvi, che vivete con me ogni giorno, fatto di incertezze, tanto studio, fatica. A quei giorni in cui perdiamo le speranze, a quei giorni invece, in cui ci sentiamo piccoli eroi, che potranno cambiare il mondo. 

  
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