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Autore: martinasponk    27/05/2011    1 recensioni
Gli piaceva pensare a loro come a due granelli di polvere, così piccoli e perfetti nella loro immobilità.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Come polvere

 
Un altro profondo colpo di clacson le perforò le orecchie; questa volta arrivava da destra.
Le persone intorno a lei inveivano, all’oscuro del fatto che, se anche avessero tirato fuori le corde vocali a forza di gridare, il traffico non si sarebbe smaltito nel giro di dieci preziosissimi minuti.
Tutte quelle urla, quei rombi profondi dei motori, l’aria così pesante annerita dai fumi di scarico le stavano dando alla testa.
Avrebbe soltanto voluto scendere da quella dannata macchina ed intimare a tutti di piantarla, perché arrabbiarsi per l’ennesimo ingorgo nel traffico non aveva alcun senso.
A pensarci bene, avrebbe soltanto voluto essere a casa.
Ma non lo disse ad alta voce, né lo gridò in direzione di chiunque potesse ascoltarla in quel momento.
Come se urlare nel vento primaverile di quella strada intasata d’auto avesse potuto farle improvvisamente scomparire tutte.
Bloccata lì, in mezzo a quelle che le sembravano decine e decine di persone dai volti sconosciuti ed adirati, con le quali condivideva soltanto l’impazienza di tornare a casa, ripensò a quei pochi mesi.
Era forse la prima volta, da quando tutto era iniziato, che si fermava e rifletteva veramente su loro.
Si era solamente buttata, senza chiedere né perché né come.
Se ne era fregata di tutto e di tutti, per la prima volta, aveva vissuto quegli attimi istintivamente, assaporandoli a fondo.
Nel giro di poco tempo era cambiata e cresciuta più di quanto non avesse mai fatto in venti anni di vita; le sembrava passata un’eternità da quando era una persona così razionale da soffocare da sé il proprio pensiero più inconscio.
Per anni aveva avuto paura di se stessa ancor prima che degli altri, si era nascosta dai propri desideri ed emozioni, fino a che tutto non s’era assopito.
Non si era resa conto di star soffrendo, da sola, fin quando qualcuno non aveva iniziato a camminare accanto a lei.
Piuttosto che voltarsi a controllare chi fosse e che faccia avesse, si era goduta il calore che quel corpo accanto al suo le dava, riparandola dal vento gelido di se stessa.
Aveva continuato a mettere un piede davanti l’altro imparando a conoscere prima la mano di quello sconosciuto, poi il suo braccio il suo viso il suo intero corpo, fino a che non si era ritrovata irrimediabilmente persa nei suoi occhi grigio verdi.
Senza chiedere né perché né come.
L’aveva stretto a sé lasciandosi cullare dalle sue braccia, inebriandosi del suo profumo intorno e riempendosi la testa della sua voce calda e carezzevole.
L’aveva accolto nelle sue mura di cristallo ad occhi chiusi, e non voleva più lasciarlo andare.
Non si domandò perché.
Non voleva saperlo, davvero.
Voleva soltanto continuare a viverla, così come non aveva mai fatto, voleva continuare a giocare senza smettere di riempirsi di quella maledetta paura di perdere.
Premette piano sull’acceleratore quando la macchina davanti a lei iniziò ad avanzare, seppur lentamente.
Insomma, perché rinunciare alla comodità dell’auto per la sola paura di restare imbottigliati?
In due, era più facile vivere nel mondo impolverato e stanco in cui, effettivamente, vivevano.
L’umanità prendeva sembianze più gradevoli se guardata in due; quel sentimento forte e travolgente a cui non poteva né voleva dare un nome affievoliva il peso che sentiva sullo stomaco quando si guardava intorno, allentava il nodo che aveva alla gola ogni giorno.
Non se ne era mai resa conto. Però le piaceva.
 
Un’altra auto passò in strada, lame di luce gialla e terribilmente artificiale illuminarono il suo profilo per qualche attimo, passando attraverso le persiane.
Qualche punta di barba sul viso ancora bambino si intravide per un momento, poi la stanza calò di nuovo nella penombra, i riflessi argentei della luna che fendevano il buio.
Non aveva mai creduto che tutto potesse cambiare all’improvviso, mai creduto che il mondo potesse capovolgersi in pochi attimi, mai creduto nell’amore, in quella totale ed incondizionata fiducia in qualcun altro, un altro essere umano, in cui non aveva mai riposto troppe speranze.
Non aveva mai creduto alle persone quando gli raccontavano dell’amore, eppure si era ritrovato a volerla accanto non solo perché era spontanea, bella, simpatica e brillante, ma anche perché era così tremendamente testarda, così permalosa e cinica, schietta e così dannatamente perfetta.
Una volta gli avevano detto che si era veramente sicuri di aver toccato il fondo soltanto dopo aver ammesso di amare qualcuno per i suoi difetti, di amare i suoi difetti, volerlo accanto nonostante ci faccia imbestialire, impazzire, nonostante si faccia odiare.
Non aveva creduto neanche a quello, fino a che lei non s’era insinuata piano nelle sue giornate senza che nessuno dei due se ne accorgesse, fino a che non era diventata un pungente chiodo fisso nella sua mente, un profumo una voce un tocco un calore tutti suoi che gli riempivano la testa.
Si perdeva spesso nella contemplazione del ricordo nitido di brevi attimi perfetti in cui il mondo girava nel verso giusto.
Il tepore rassicurante della sensazione di avere l’universo intero stretto tra le braccia, lei con quel suo centro di gravitazione permanente che lo attirava a sé, il bisogno di qualsivoglia oggetto che si assopiva in silenzio perché, in quei piccoli attimi di follia, c’era lei, lei che bastava da sola a riempirlo.
Entrambi avevano sempre vissuto da soli, chi più chi meno avevano vissuto bene, lontano dagli altri.
Reclusi e lontani da quel mondo che avevano inaspettatamente trovato nell’altro, accorgendosi che in due era maledettamente meglio viverlo.
Luca sobbalzò al trillo del citofono.
Si sentì bene quando riconobbe la sua voce.
Non si accorse che un altro di quegli attimi perfetti di cui tutti vivevano era iniziato.
Se ne accorgeva sempre dopo, a conti fatti.
Come quando non si accorgeva di avere mal di testa fin quando non gli passava, facendolo sentire più leggero.
Si accorgeva di aver vissuto quella perfezione che in fin dei conti non era esistita quando era già un ricordo, vivido e nitido, ma un ricordo.
Prima di Camilla gliene erano capitati ben pochi.
Aveva sempre vissuto nella tranquilla serenità della fiducia in se stesso e in nessun altro.
La strinse forte a sé, dopo aver richiuso la porta alle sue spalle.
Gli piaceva il modo in cui lei lo abbracciava, quel suo stringergli forte la schiena con le braccia lunghe e fine, il petto premuto al suo che s’abbassava ed alzava ad un ritmo regolare.
Sospirò.
«Mi sei mancata.»
Camilla lo guardò, gli sorrise, poi sparì in camera.
La guardò camminare nel corridoio buio sorridendo al pensiero di un altro granello di polvere che si posava sul fondo di un cassetto.
Ogni breve attimo di pura felicità sospeso nell’aria come polvere, immobile nei raggi di sole primaverile.
Più soffiava, più quei granelli che brillavano controluce non si spostavano.
Gli piaceva guardarli stare là sospesi, a ricordargli che forse li avrebbe dovuti vivere più a fondo.
Li guardava riflettere intorno la luce tiepida e si rendeva conto che forse la bellezza di quegli attimi era proprio nel loro restare a metà, nel loro passare così in fretta che lui ne vedeva soltanto la coda.
Eppure, li amava anche per questo.
Per la concezione distorta che aveva del mondo intorno, per quell’impossibilità di viverli appieno, per quella loro dannata abitudine di finire ancor prima di iniziare.
Avevano sempre rincorso la felicità, l’avevano raggiunta insieme.
Lei nel suo lasciarsi andare così irrazionale, lui in quei minuscoli granelli.
Se ne posò un altro sul fondo di quel cassetto, si posò accanto agli altri, anche lui per restare lì immobile ed impassibile di fronte al più forte dei venti, a restare perfetto dinanzi al più grande dei rimpianti.
Forse, per lui, la felicità non era altro che saper vivere di quei brevi attimi di polvere.
  
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