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Autore: CloyingCyanide    27/05/2011    2 recensioni
"Inchioda le tue iridi d’inchiostro a questo cielo terso, sollevati piano sulle punte, protendi una mano in alto. Lo senti, piccola? Simone è con te, non ti lascia mai. No, non credere che la morte basti a separarvi, non c’è niente di più sbagliato."
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prenditi cura di me 





Me lo ricordo, sai? Mi ricordo le dita intirizzite dal freddo nonostante si fosse a fine aprile; mi ricordo la transenna su cui ero seduto, circondato dalla chiassosa banda dei miei amici di sempre, i miei venti fratelli. Stavo fumando, scosso ogni tanto da leggeri brividi che si insinuavano furtivi sotto la mia pelle, in silenziosa e traboccante attesa dell’arrivo di quel qualcuno per cui il ritardo era una routine. Le nostre macchine, tutte parcheggiate nel piazzale, erano disposte in modo da ritagliare uno spazio che fosse solo nostro: era lì che, da anni, passavamo le nostre serate insieme.
 
Luci, il rombo di un motore, clacson a tutto spiano per annunciare la comparsa di chi si era tanto fatto aspettare. I pochi lampioni, che lambivano i contorni della piazza come giunchi sulle rive di un fiume, illuminarono la carrozzeria di una Mini rossa che si avvicinava come una scheggia, andando ad infilarsi nell’unico angolino libero e di conseguenza aumentando i lati del poligono di automobili in cui eravamo racchiusi. Manovra folle e fulminea. Freno a mano. Portiere aperte e subito richiuse con colpi rumorosi e violenti.
“Eccoci! Scusate il ritardo!”
Finalmente. Sai, avevo sempre un po’ d’ansia, se lui non era con me. Non che mi piacesse spiarlo, ma il pensiero mi andava subito a che fosse successo qualcosa di terribile. Anche quella volta, tirai un sospiro di sollievo non appena lo vidi scendere dalla macchina col miglior sorriso di sempre.
“Ciao, fratello” sussurrai, buttando a terra la cicca ormai consumata, poi sollevai di nuovo lo sguardo per rivolgerlo verso di lui. Lui che non era solo. Lui che stava per farmi il regalo più bello che la vita mi potesse offrire.
“Ciao, ragazzi” salutò tutti agitando appena le dita di una mano, negli occhi quel bagliore di emozione che dava una sfumatura più scintillante al corposo verde delle sue iridi. Emozione, sì. Perché stava per presentarci te, e sapevamo tutti quanto fossi vitale per lui già da allora. “Lei è Maya” guardò poco più in basso, in direzione del tuo rotondo visetto parzialmente nascosto dal suo braccio: ti eri rintanata lì, timidissima, tutta stretta a lui come se fosse l’unica ancora di salvezza in un oceano in burrasca.
Sorrisi, curioso e intenerito al tempo stesso. Eri... minuscola. Oltre ai sei anni di meno che ti dividevano da tutti noi, avevi moltissimi altri dettagli che non potevano passarmi inosservati. Innanzitutto, i tuoi capelli. Lunghi, folti, scurissimi e ondulati come fossero stati modellati attorcigliandoli ad un raggio di sole, scendevano in due morbide liste che ti accarezzavano le guance rosate.
Ed eri bellissima. Continui ad esserlo, lo sai, non arrossire. Ci guardavi con timore e soggezione, vergogna e contemporanea impazienza, scorrendo i nostri visi cercando di scoprire qualcosa in più su di noi, per dar modo al tuo pudore di sgretolarsi pian piano.
“Forza, non avere paura” ti incoraggiò Simone sfregando una mano sui tuoi fianchi, mentre eravate ancora abbracciati saldamente. “Non ti mangiano, sai? Cioè, Mattia mangia fin troppo, ma ultimamente la carne umana gli risulta un po’ indigesta” sorrise, facendoti coraggio e poi chiedendomi, con lo sguardo, di aiutarlo a districarsi da quella situazione che forse creava inquietudine perfino a lui.
“Già, vero! Le belle ragazze preferisco tenerle per altri scopi” scesi dalla transenna e mi avvicinai di qualche passo, in modo da esserti veramente vicino. “Ma non è questo il caso, altrimenti sarà Simone a mangiare me. Vero, Simo? Comunque, piacere di conoscerti. Io sono Mattia.”
“Ciao, Mattia” stringesti la mano che ti avevo porto e ripetesti il mio nome, muovendo le labbra con lentezza ma incisività, mentre sollevavi la testa ad intercettare il mio sguardo. “Ma quanto... perdonami se te lo chiedo, ma quanto sei alto?”
Scoppiammo tutti a ridere, Simone compreso, e nel frattempo tu continuavi a guardarmi con i tuoi grandi occhi a mandorla, neri tanto da non riuscire a distinguerne la pupilla, lucidi come se protetti da un sottilissimo vetro che potenziasse esponenzialmente ogni singolo e pur minimo bagliore che li animava. La domanda che mi avevi posto rivelava tutta la tua smaliziata e fanciullesca spontaneità, ma non me ne stupii. Infatti, ciò che Simone mi aveva ripetuto fino alla nausea, riguardo a te, erano lodi al tuo essere semplice, piccola, naturale. I tuoi diciassette anni e quel sorriso dolce e spensierato lo avevano stregato da subito, lo sai meglio di me.
 
“Un metro e novantotto, ma...” insaccai la testa nelle spalle, rispondendo a quella innocente curiosità che era rimasta irrisolta per qualche secondo.
“Wow” ammirasti, poi ti girasti verso Simone, al quale continuavi a tenerti aggrappata per la mano. “E io che mi sentivo nana in confronto a te!”
“Ma se sono alto uno e ottantadue!”
“Appunto, ci sono ben... aspetta, fammi fare il conto... sedici centimetri di differenza tra te e lui! Aggiunti ai ventidue tra me e te, fanno... trentotto centimetri tra me e Mattia!”
“E quindi?”
“Non lo so, mi sembrava... boh, sì, un dettaglio degno di nota!”
“O uno spunto per parlare di qualcosa e evitare di continuare a tacere e sentirti in imbarazzo per il resto della serata?”
“Non ti sfugge niente, gran segugio!” ridesti, e lui insieme a te, mentre tornavi a stringerti al suo braccio recuperando un po’ di quel timore che sembravi aver momentaneamente abbandonato.
 
Forse, durante tutto questo tempo, non sono stato in grado di descriverti la gioia che provai in quegli istanti: Simone non era mai stato così felice prima. Ti fui grato da subito per aver reso tutto questo possibile e, come ti ho detto, mi sentii non solamente sollevato, ma anzi sprizzante di soddisfazioni immense e autentiche, di quelle che nascono in un angolino nascosto del cuore e si diffondono rapidamente, come un incendio inclemente che non risparmia nulla.
La tua prima serata con noi, insomma, fu quasi un disastro, ma ti amammo tutti fin da subito. Eri la più piccola, la più protetta, la novità del gruppo, il rimedio alle barbare sofferenze del mio migliore amico. Lo curavi semplicemente standogli accanto a dargli speranze, conforto, distrazione ed energie per affrontare i periodi bui. Sapevi con chi avevi a che fare, ma non ti eri tirata indietro. L’unica spiegazione a ciò era che gli volevi davvero bene. Non deve essere stato facile, lo riconosco. Il tuo ragazzo, il mio migliore amico, aveva un grande difetto che si era scelto da solo, ma tu eri tutto ciò che gli serviva per superarlo. Tu lo facevi arrivare dove nessuna droga poteva. Tu eri l’unica sostanza stupefacente che non gli ho mai rimproverato.
 
In questi sei anni ho imparato a conoscerti meglio di me stesso, a distinguere ogni singola pagliuzza dorata che ti illumina gli occhi svelando un umore sempre diverso. E tremavo fin dalle corde del mio cuore quando riconoscevo quella luce lacerante, nei momenti in cui ti perdevi ad osservare il volto pallido e tumefatto di Simone, addormentato in un letto d’ospedale. Lo accarezzavi, a tratti con vigore e a tratti con dolcezza quasi impercettibile, sussurrando alle sue mute labbra tutte le paure che infestavano la tua anima di cartapesta.
“Chicco, io... ti prego, Chicco, non ti drogare più. Vedi come stai male? Perché continui a farlo? Non capisci che ti distruggi, Chicco?” singhiozzavi, ripetendo quel nomignolo per sentirtelo risuonare nelle orecchie, a riempire il vuoto che ti terrorizzava. “Chicco, svegliati, non ce la faccio più a vederti così... Ascolta, io... sì, ti prometto che appena esci dall’ospedale mi fermo da te finché ne avrai bisogno, così staremo tutti più tranquilli. Che ne dici, Chicco, ti piace come idea? Tu intanto pensa a guarire, sforzati più che puoi, mi raccomando. Io sto sempre qui accanto a te, non me ne vado mai. Capito? Coraggio, Chicco, lo so che sei forte” e affidavi un bacio tenero e leggero alla sua fronte gelida. Altalenavi, per tua natura, tra uno stato d’animo e l’altro, tra il dolore della resa e la speranza che cercavi di infondere a quel corpo inerte che non hai mai abbandonato, fosse pure per un istante.
 
La prima volta che Simone aveva avuto un’overdose, da quando stava con te, era in una torrida mattinata di luglio. Non l’hai dimenticato, io lo so, anche se non ne parli mai. E so anche che avresti preferito morire piuttosto che assistere a quella scena. Ti aveva promesso di portarti al mare; vi eravate dati appuntamento alle dieci sotto casa tua. Ma non ci è mai arrivato. Ti eri allarmata subito quando avevi visto che era già molto tardi e non era ancora passato a prenderti, perciò, impaurita ma non per questo arresa, sei uscita con l’unico obiettivo di cercarlo, perché nel tuo intimo sapevi che qualcosa era andato storto. Senza pensarci due volte ti sei diretta in stazione e lui era lì, accucciato sui gradini del sottopassaggio, immobile, con un braccio livido e una siringa abbandonata sullo stesso scalino su cui era adagiato. Respirava debolmente. Non ti rispondeva se lo chiamavi, non si svegliava se lo scuotevi. Io non so come hai fatto a mantenere la lucidità in un momento come quello: hai chiamato l’ambulanza e sei andata in ospedale con lui. Poi mi è arrivata quella telefonata in cui hai sfogato tutto il dolore che non avevi potuto esternare nei momenti precedenti, perché non c’era stato tempo per farlo.
“Tia... Tia... in ospedale, Simone non sta bene” piangevi, smozzicando frasi tra un singhiozzo e l’altro. “Io... la stazione... non mi rispondeva, era freddo e tutto sudato... l’ambulanza...”
 
Il mio mondo si era fermato, non ruotava più. Invece, io, correvo.  Saltai in macchina e mi precipitai da voi: ogni singolo secondo era prezioso, non potevo permettermi di esitare o farti troppe domande, anche perché questa è l’ultima cosa che chiunque, in momenti del genere, vorrebbe che gli facessero. Quando finalmente entrai al pronto soccorso, non ci misi molto a trovarti. Eri seduta su una scomodissima sedia di plastica, tremavi, ti guardavi intorno per cercarmi tra quelle decine di volti che ti sfilavano davanti. Scattasti in piedi non appena mi scorgesti, sbracciandoti perché potessi vederti. Non ce n’era bisogno: io ti avevo già trovata, e ti correvo incontro mentre anche tu, le lacrime agli occhi, ti avvicinavi a me. “Me l’hanno portato via! Nessuno mi dice dov’è o come sta! Io... io lo voglio vedere! Devo stargli accanto!”
Ti tranquillizzai stringendoti contro di me, e il tuo viso venne a premersi contro la bocca del mio stomaco. Com’era umanamente possibile averti fatto una cosa del genere? Che giustizia c’era, nel lasciarti sola in corridoio senza darti notizie del tuo ragazzo che lottava contro la morte? La collera che sgorgò e mi ribollì dentro rimase assopita giusto il tempo che tu potessi sfogarti e, una volta perse tutte le tue forze, accasciarti sulla stessa sedia che occupavi poco prima. Mi assicurai che tu stessi meglio prima di allontanarmi per andare a chiedere notizie. I tuoi occhi di cerbiatto mi supplicavano di far presto, e si impressero così marcatamente nella mia testa che non mi riuscì di allontanarveli, mentre percorrevo il corridoio a passo battente, mentre sfuriavo contro le infermiere, mentre sgattaiolavo nel reparto e mi affacciavo in ogni singola stanza per vedere dove fosse. Lo riconobbi dopo una manciata di istanti. Tagliati i capelli, Simo. Quante volte glielo avevo ripetuto? Eppure, erano stati proprio quei boccoli troppo cresciuti a farmi capire che era lui quel fantasma avvolto in un lenzuolo che ne esaltava il pallore. Più mi avvicinavo, più cresceva la mia rabbia per ciò che aveva fatto. Aveva scelto per sé un destino da disadattato e noi non eravamo riusciti ad impedirglielo. Credevo che principalmente fosse colpa mia, ché non avevo potuto far nulla sebbene passassi insieme a lui gran parte del mio tempo, sin da quando eravamo due marmocchi che giocavano con le costruzioni. Me ne convincevo sempre più, e anche lì, quel giorno, gli avrei urlato contro, pur sapendo che non poteva sentirmi. Respirava artificialmente grazie ad una mascherina e le sue mani erano disseminate di aghi lungo tutto il dorso: le braccia, livide e gonfie, erano praticamente inutilizzabili, siccome se le era già bucate abbastanza per ben altri scopi.
“Perché le fai questo?” sussurrai a denti stretti. “Perché ti fai questo, Simone?”
Gli occhi mi si bagnarono in pochissimi istanti, ma non ebbi il tempo di piangere, perché una mano gelida si era posata su una mia spalla.
“Lei è il fratello?”
Era un medico, quello che mi stava parlando e che aveva interrotto il mio sfogo sul nascere. Mi informò delle condizioni delicate di Simone e allora io gli chiesi se era il caso di far entrare te, perché io avrei finito di ucciderlo su due piedi e con le mie stesse mani. Lui mi rispose che sì, potevi rimanere, ammesso che tu fossi consapevole del fatto che... beh, che avrebbe potuto spegnersi sotto i tuoi occhi. Quando uscii a dirtelo, non ti informai di quest’ultimo fatto. Non saresti riuscita a sopportarlo. Corresti dentro al reparto senza attendere oltre, e ti sentivo chiamarlo per nome. Quindi, me ne andai. Avevo deciso che quel momento doveva essere solo per voi, il mio compito ormai era finito.
Tornai in serata, dopo aver informato la famiglia di Simone di ciò che era successo. I genitori non sapevano più che fare, né avevano più lacrime da versare. Accadeva di frequente, ormai era diventato praticamente ordinario, ma nessuno ci ha mai fatto l’abitudine. Non dimenticherò mai gli occhi di sua madre, quelli di una donna che dà la vita per il proprio figlio, lo stesso del quale deve assistere, inerme, alla rovina, sapendo di non poter rimediare. Aveva perso la speranza, Patrizia, come tutti. D’altronde, Simone nemmeno le parlava più, pur vivendo sotto il suo stesso tetto. Era burbero e intrattabile, sfuggente, invisibile, anche se, quando tu suonavi alla porta di casa sua, scattava in piedi dal divano e correva ad accoglierti trasformandosi in una fabbrica d’affetto e sorrisi. Non fingeva, no, e io che lo conoscevo bene posso giurarci.
Qualche tempo è passato da allora, insieme a molte altre corse in ospedale, dopo di quella, e innumerevoli notti insonni a fare il giro del quartiere per andare a recuperarlo... Non ne hai mai avuto paura, piccola guerriera, né hai voluto gettare la spugna. Lo amavi, e questo bastava a darti l’energia per affrontare tutto a testa alta.
Ed eri immensamente forte, bambina mia. Portavi sorrisi laddove regnava l’oscurità d’un silenzio assordante. Devi andarne fiera, non dimenticarlo, così come io non dimenticherò tutto quello che hai fatto per Simone. E non avere paura di nulla, mai. Guarda lassù. Inchioda le tue iridi d’inchiostro a questo cielo terso, sollevati piano sulle punte, protendi una mano in alto. Lo senti, piccola? Simone è con te, non ti lascia mai. No, non credere che la morte basti a separarvi, non c’è niente di più sbagliato. Ecco. Sorridi ancora, sorridi così, com’è giusto che sia. Poco importa se scendono alcune lacrime a dissetarti il volto. Lasciale scorrere libere, ne hanno bisogno. Continua a guardare in alto, cerca bene tra quelle stelle dov’è la tua. Quando l’avrai trovata, non ti sentirai più sola.
 
“Prenditi cura di me” mi dicesti quella volta.
E l’ho fatto, ma non sono l’unico.
Riconosco un bagliore familiare lassù, quello che infinite volte si fondeva insieme al verde muschio di due occhi che non torneranno ad aprirsi. L’hai visto anche tu?
Stai piangendo più forte. Ti sfugge un singhiozzo che ti affretti a soffocare premendoti il palmo di una mano sulla bocca. Non sono l’unico ad averlo visto, allora.
“Mi manchi tanto” ti sento sussurrare al cielo gelato. Ma sorridi. Sorridi perché sai che è questo, l’ultimo regalo che puoi fargli.
Passerà del tempo, vedrai. Passeranno giorni o forse anni in cui ti illuderai di sentire ancora la sua voce, il suo profumo, i suoi passi. Ma non impedirti di crederci ancora.
Simone è lassù. Ti guarderà e ti proteggerà sempre, sarà lì a tua disposizione in ogni momento, quando avrai voglia di parlargli. Ti senti sola, ma non lo sei, e dentro di te ti consumi quasi fossi una fiammella senza ossigeno. Presto rinascerai, come l’aurora spazzerai via questa notte infernale per riportare colore in queste giornate tinte di bianco e nero. I sogni che avevi si sono dissolti, ma ritroverai la forza di costruirne altri. Il sole splende sempre, sopra le nuvole, anche se noi da sotto non lo vediamo. Ti mostrerò che c’è vita, al di là di questo amore ormai sterile.
Credici, bambina mia. Non smettere di farlo. Sorridi ancora, sorridi di più, sorridi per lui.
E io ci sarò. Ti terrò per mano finché vorrai e anche oltre. Corri dritta su questo mondo, fallo incendiare sotto i passi della tua ardente giovinezza, rischiaralo col suono argentino della tua risata. Perché Simone è in ognuna di queste cose. Lo sai anche tu.
 
E quando ti volterai, distogliendo lo sguardo dal tuo sentiero, non sorprenderti di trovarmi. Me l’hai chiesto tu, ricordi?
“Prenditi cura di me.”
Non so farlo, ma imparerò.
“Prenditi cura di me.”
Sarai tu ad insegnarmi, anche stavolta.
 
E il cielo tace, e i tuoi occhi pure, e le mie mani tremano, e i tuoi occhi pure. Andiamo a casa, adesso. Sta facendo freddo. Torneremo, te lo prometto.
 
Chini la testa verso il basso, sottraendoti al contatto con la tua stella. Dimmi, cos’è che senti?
“Mi ama. Me lo ha ripetuto tante, tante volte.”
Ci credo, sai? E ci credi anche tu, altrimenti non gli avresti spedito un bacio con una mano. Ti stringi al mio corpo, mentre ti chiudi in un silenzio che parla da sé. Guariremo, piccola, vedrai. Ti prometto anche questo. Lo meriti. Vita hai donato, e vita ti donerò.   





  
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