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Autore: Keyra    27/05/2011    1 recensioni
Sa benissimo che aver resettato parte della sua vita come se fosse effettivamente possibile farlo, che aver escluso dal suo campo visivo ogni possibilità di riallacciare rapporti umani che vadano oltre un tipo di amicizia sicuramente sincero, ma sempre un po’ traballante, dalle fondamenta non ben accertate, è la ragione per cui vivere con se stessa è un po’ come vivere in una gabbia di vetro, al cui esterno tutto continua a scorrere nella più completa normalità, senza che però, chi ne è rinchiuso dentro, possa intervenire a modificare in qualche modo lo svolgersi repentino degli eventi. Sa benissimo che il suo finirà per essere un cuore sterile.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cècile pedala senza fretta verso scuola. Da casa sua al centro ci sono cinque chilometri di strade asfaltate e viali alberati costruiti artificialmente con la presunta funzione di rendere l'ambiente cittadino più vivibile nella sua caotica quotidianità. Nonostante il rumore disarmonico del traffico, se chiude gli occhi riesce comunque a respirare il vento che la accarezza di lato, sul viso e sulle braccia, con la delicatezza innata della primavera, riesce comunque ad annullare l'incessante accavallarsi di clacson e motori accesi, a stabilire un pur minimo contatto che non sia esclusivamente di tipo urbanistico. 
Lo zaino verde le scivola lungo il braccio destro, regalandole un senso di instabilità accennata che accentua il livello della sua attenzione percettiva, di solito quasi azzerata alle otto di mattina. Pensa che in qualsiasi momento potrebbe avere una distrazione involontaria e lasciarsi andare alla corrente di automobili che le sfrecciano accanto e magari essere investita da qualche pazzo infervorato che corre per raggiungere il posto di lavoro. A scivolare così, in mezzo a centinaia di volti, di braccia, di occhi, di corpi, ogni mattina si sente un po' come un'avventuriera, un'esploratrice di vite intrecciate in una rete di rapporti burocratici fragili come vetro soffiato. Tutte quelle persone che vede, compresa lei stessa, si stanno recando in qualche luogo in cui dovranno rispettare il ruolo ad esse assegnato in base alla specifica funzione che le caratterizza in quel determinato contesto. E assorbire per un'intera giornata frullati di frasi inautentiche e plastificate, costruite accostando parole pescate a caso in quel grande serbatoio di idee, gesti e segnali che la vita ci procura con il passare degli anni, più per l'effetto fonetico che ne esce fuori, che per il loro reale significato. I "come stai?" che in realtà non aspettano mai una risposta sincera, i "bene, grazie" che non corrispondono mai all'effettiva interiorità di chi parla, le presentazioni di routine fatte senza ascoltare il nome dell'altro che dopo cinque minuti dalla stretta di mano rientra già nella cerchia dei "visi anonimi e indistinti di persone conosciute in un recente passato", le telefonate fatte a cugini lontani semplicemente per il dovere di farle e il ripercorrere inutilmente azioni ben impostate in una formalità prefissata, riciclate giorno per giorno nel continuo ripetersi di momenti standardizzati, praticamente sempre uguali. Cècile pensa che lei ha sempre cercato di tenersi lontana da questo genere di cose, ma che nonostante i suoi sforzi costruttivi tesi a crearsi una propria personalità impermeabile alla complicata casistica dei rapporti umani, non ci è riuscita e mai ci riuscirà. Che in fondo nessuno è un territorio invalicabile. 
Cècile raggiunge la stazione, svolta a sinistra e prende una via pedonale del centro. C'è silenzio, solo qualche viso addormentato, disegnato dalle occhiaie e la stanchezza, e così si sente più sicura. Si stupisce di come la sua vulnerabilità la renda così sensibile a questo genere di sicurezze acquisite da fattori esterni al suo corpo, tanto quanto le insicurezze le nascono da dentro, da sotto la pelle. Anche se in realtà l'ha sempre saputo. Lei crede di conoscere ogni smussatura della sua psiche, degli strani meccanismi logici che regolamentano il suo modo di essere, di agire, di rispondere, di segmentare con lo sguardo la fisicità di una persona, di qualunque persona, di adattarsi, di rinchiudersi nella sua personale torre d'avorio costruita su misura per lei e le sue instancabili manie di pochezza. Lei crede di conoscere il modo con cui gestire ogni sua improvvisazione, ogni imprevisto del caso, ogni cambiamento repentino dei legami affettivi che la circondano. Crede che la sua insicurezza di fondo, la fragilità delle sue pulsioni più instabili, non possa intaccare la capacità d'azione della sua parte più ragionevole, quella che esclude ogni tipo di vacillazione emotiva, ogni vibrazione interiore. In realtà Cècile non sa che ciò che rischia di sfuggirle di mano è proprio l’impalcatura razionale che con gli anni si è costruita addosso. Non sa che il fagotto di sentimenti compressati in una forma geometrica e ben definita, dai contorni nitidi e spigolosi, non è altro che un involucro di cartapesta che si è incollata addosso e dentro di sé. Forse per mascherare l’effettiva insicurezza che le avvelena la parte più bella di lei, quella che si nasconde sotto gli occhi nocciola e la pelle liscia da diciottenne. Sa benissimo che aver resettato parte della sua vita come se fosse effettivamente possibile farlo, che aver escluso dal suo campo visivo ogni possibilità di riallacciare rapporti umani che vadano oltre un tipo di amicizia sicuramente sincero, ma sempre un po’ traballante, dalle fondamenta non ben accertate, è la ragione per cui vivere con se stessa è un po’ come vivere in una gabbia di vetro, al cui esterno tutto continua a scorrere nella più completa normalità, senza che però, chi ne è rinchiuso dentro, possa intervenire a modificare in qualche modo lo svolgersi repentino degli eventi. Sa benissimo che il suo finirà per essere un cuore sterile. Eppure continuerà a privarsi di interi cataloghi emotivi che rimarranno inesplorati, convinta ormai di aver esaurito le forze per ulteriori tentativi di inserimento in una qualche categoria dell’essere che le permetta di sentirsi comunque appartenente a un tutto, pur nella sua individualità. 
Cècile imbocca una stradina semideserta, sfiora con lo sguardo la locandina di un film americano appesa all’entrata di un bar per qualche oscuro motivo, gira a destra e viene investita dalla luce del sole di prima mattina, mentre una folata di vento improvvisa le attorciglia i capelli sul collo. 
Poco più in là, l’entrata della sua scuola, un portone di legno costruito probabilmente nell’Ottocento da qualche spettabile industria d’artigianato, graffiato dai segni e dall’usura del tempo, ma ancora lì, imperturbabile, imponente, impassibile. 
Spinge i pedali un po’ più in fretta, accelerando leggermente il battito cardiaco, e in pochi secondi è davanti a scuola. Vede gli amici, li saluta con la mano, scende dalla bicicletta, va verso di loro impugnando il manubrio di lato e trascinandosela dietro come un cagnolino. Sorride, lasciando fluire all’esterno la positività che è riuscita a estrapolare dal tragitto casa-scuola. Dagli alberi, dal vento, dal silenzio, dal sole, persino dall’anonimità dei visi incontrati e subito dimenticati. 
Poi comincia a parlare frettolosamente di pagine da studiare, di formule, di capacità mnemoniche che non ha, e noi non possiamo che augurarle una buona giornata e ringraziarla di questa piacevole compagnia mattutina che forse, in realtà, non ci è stata concessa quanto più che altro rubata, strappata dal guscio impenetrabile che Cècile si è costruita sulla pelle. 
Semplicemente, ne abbiamo spiato i difficili inarcamenti dell’animo come nessuno aveva fatto mai, come forse nemmeno lei stessa saprebbe fare, ma questo Cècile non lo saprà mai.
  
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