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Autore: deliradubbiosa    28/05/2011    6 recensioni
Eccovi la storia di Victoria, raccontata da lei dopo la morte di James. Un po' cruda, vi avviso.
Genere: Dark, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Victoria
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: New Moon, Eclipse
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“Se riuscirà a vivere, a vincere sulla morte, che si chiami Victoria: che il mondo sappia che ho vinto, con lei”.
“Dorothy…”, mio padre aveva le lacrime agli occhi.
Mia madre morì subito dopo il parto. 

Me l’avevano raccontata tante volte, questa storia. Perché mi sentissi in colpa. Da tempo non funzionava più.
Fissavo senza vederla la mia immagine nello specchio, con la spazzola nella mano inerte.
“Victoria”. Ricordai la voce sprezzante di mio padre la volta in cui il suo racconto era stato più tagliente. “Complimenti. Hai vinto sulla vita di tua madre. Ne sarai fiera”.
Papà mi odiava. Odiava i miei capelli di fuoco, odiava il mio aspetto felino, odiava la mia voce tintinnante e capricciosa. Odiava di me tutto ciò che rendeva stridente il contrasto tra la mia giovane vita e la figura morta di mia madre, che ancora tormentava i suoi sonni. Non mi aveva mai picchiata, però. Si limitava a tenermi a distanza, da sempre. Uno pensa che prima o poi ci si fanno gli anticorpi, a queste cose. Non era ancora successo.
Mi ero spesso chiesta se mio padre avesse davvero amato tanto mia madre o se la sua fosse solo un'ossessione nata solo dopo la sua morte… odioso come lo vedevo, non potevo che propendere per la seconda ipotesi. Così, per contrasto, mi mancava quella madre che non avevo mai conosciuto.
Mi svegliai di soprassalto dai miei ricordi. Il mio riflesso aveva gli occhi lucidi di lacrime in precario equilibrio tra le palpebre. Basta, Victoria, o ti si scioglie la matita. Ero di nuovo in ritardo. Recuperai un elastico dal cassetto delle spazzole e raccolsi i capelli in un veloce chignon. Poi lo zaino e via.
Avevo quindici anni. 

Una sera, tornata a casa, sentii mio padre chiamarmi con disprezzo. “Victoria”.
Non sarei stata in grado di reggerlo di nuovo. Avevo ancora la mano sulla maniglia. Percepivo l’odore della cena, nauseabondo di un’intimità forzata.
Veniva verso di me, l’aspetto angosciato, la pancia che sporgeva dai pantaloni.
Lo guardavo con gli occhi umidi, la sua immagine era filtrata dai capelli rossi. Lo spinsi indietro, colpendolo sul petto. “Non è colpa mia, lo capisci? Non è colpa mia!”. Spalancai nuovamente la porta e fuggii.
Non tornai mai più.
Avevo fame, le mie tasche erano vuote, non avevo alcun titolo, né parenti, né speranze. Potete immaginare come andò a finire. 

“Tu, piccola. Vieni via con me. Portami in paradiso”. Mi sorrise di un sorriso orrendo. Aveva la fronte lucida, la barba trascurata sulla faccia grassa, repellente. Sorrisi di rimando, ammiccante, con la morte nel cuore. Come ogni volta. Salii in macchina. 

Erano cinque anni che battevo, sempre lì. Sempre il solito schifo, al solito angolo tra le solite strade.
Una notte come un’altra arrivò lui. Era stranamente a piedi. Era bello, di una bellezza che non avevo mai visto prima: i lineamenti dritti e perfetti, i capelli neri d’inchiostro, la pelle bianca, come folgore nel buio, che rifletteva la luce della luna in un pallido bagliore.
Era bello, ma faceva paura.
Mi si avvicinò gentile. “Vieni con me”, disse soltanto. Non udii altre parole da lui.
“Dove stiamo andando?”
Mi sorrise rassicurante, ma non rispose.
Faceva paura. Avevo paura.
Giungemmo in un bosco. Cominciò a spogliarmi, come un qualsiasi cliente.

“Basta. Ti prego… basta”. Mi stava facendo male. Male davvero. Sentivo le ossa rotte. Continuando così mi avrebbe uccisa. Ero ferita ovunque, sanguinavo, il dolore nel bassoventre era insopportabile. Sentivo pesare ogni singola parte del mio corpo, mi sentivo sporca come non mai. Era puro dolore, angoscia, la sua mano che scorreva sul mio seno, orrore il suo corpo nudo sul mio, spogliato di abiti e di dignità, voglia di sprofondare, pur di sfuggirle, ogni pressione da niente sui miei fianchi. Avrei sofferto di meno, se mi avesse sfregiata con un coltello, se mi avesse risparmiato il suo corpo perfetto e rivoltante. I singulti mi morivano in gola, morivano con me. Strideva il contrasto tra il silenzio di una lacrima che cadeva e… e tutto il resto. Aspettavo che il buio mi assorbisse, mi dissolvesse. Basta, ti prego. Che senso ha stuprare una prostituta? Perché? Continuavo a piangere in silenzio, sfinita. Le lacrime mi impedivano di vedere. Finalmente, sentii che stavo per morire: non c’era quasi più niente nei miei sensi. Era finita.
Un nuovo improvviso dolore sferzò come un taglio la mia spalla destra. Urlai di nuovo. Non credevo di avere abbastanza forze. Sentivo il mio sangue scorrere, no, venire risucchiato fuori dal mio corpo, vena per vena.
Quando finirà?
Poi sentii qualcosa come due spilli sfilare via dalla mia pelle.
L’ululato di un lupo. Se non altro, non sarei rimasta viva a lungo.
Non so come facessi ad accorgermi di questi dettagli col fuoco che mi ardeva nelle vene, che mi consumava cellula dopo cellula. E io che credevo di essere già arrivata al climax del dolore.
Sperai che il lupo mi avrebbe uccisa in fretta.
Invece no. Una folata di vento (l’uomo e il lupo, che correvano a una velocità disumana) mi sfiorò la spalla senza darmi alcun sollievo.
Perché non morivo? 

‘L’uomo e il lupo’. Il vampiro e il licantropo, dico adesso, col senno di poi. Quel che ero diventata lo capii quando il fuoco nella mia gola, timida eco di ciò che era stato ma comunque insopportabile, reclamò il sangue di un escursionista solitario.
Una vampira.
Non provai mai rimorso: odiavo sufficientemente il genere umano da cui, finalmente, ero fuori.

Digrignai i denti.  “Levati di lì”, sibilai al vampiro biondo che mi contendeva l’umano.
 Provò ad attaccarmi. Scartai rapidamente di lato.
La preda cercò di scappare. Il biondo le spaccò il cranio con un calcio e torno a concentrarsi su di me. L’odore del sangue distraeva entrambi: combattevamo ad armi pari.
Attaccai io, rapidamente.
Quello mi evitò per poco. Aggrottò le sopracciglia. “Aspetta! Time out!”
Sorrisi beffarda. “Cos’è, ti arrendi?”
“No, ho una proposta per te”, disse con le mani alzate.
“Fa’ che non sia un trucco, per il tuo bene”.
Sorrise. “Sei in gamba, veloce. Io, modestamente, sono un segugio nato. Se ‘lavorassimo’ insieme saremmo infallibili, anche contro gli altri vampiri”… si interruppe e sospirò;  le sue parole mi avevano già allettata abbastanza. “E poi – continuò – forse in due questa stupida esistenza sarebbe anche più piacevole”. Mi guardò languido.
Mi fu impossibile non addolcirmi, ma riuscii a porre la mia condizione. “Accetto se mi aiuterai a uccidere il vampiro che mi ha trasformata”.
Mi tese la mano, soddisfatto. “D’accordo”. 

Stavamo ormai insieme, io e James, e al nostro gruppo si era aggiunto Laurent, un vampiro dalla pelle olivastra, quando scoprimmo un clan stranamente sedentario a Forks. Stanchi della nostra vita obbligatamente nomade, lo raggiungemmo presso un campo di baseball, perché ci spiegassero.
Il resto lo sapete.
Tutti a tifare per Bella, vero? Bravi. Complimenti.
Cominciate a piangere la sua morte. In me ormai c’è posto solo per la vendetta.

 

Victoria

   
 
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