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Autore: GenGhis    29/05/2011    30 recensioni
Questi racconti nascono principalmente da molto tempo libero, uniti ad una notevole capacità di elaborare idiozie e trascriverle su carta. Non mi andava di dover scrivere sempre le stesse cose, quindi non c'è un vero e proprio tema che accomuna queste storie. Solo, appunto, tanto tempo libero e la stessa penna.
Genere: Demenziale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Racconto 1
Aufidersen, Hasta la vista e cose del genere

* * *

 

Sono nato il ventiquattro agosto, alle cinque di pomeriggio, e mi sembrava giusto morire lo stesso giorno, diciannove anni dopo. Avevo quindi programmato data, impegni, metodo, luogo, tempistica. Ero lì, nel bagno della casa di mio padre, in mutande e con un piede sul davanzale della finestra, fissando l’infinito. Non mi rimaneva che farmi fuori.
Potrei dirvi che avevo tantissime ragioni per arrivare dov’ero arrivato. Potrei raccontarvi storie patetiche sul divorzio dei miei genitori, e di come si siano tentati di uccidersi a vicenda col veleno per ratti prima di andare in un consultorio matrimoniale. Potrei parlarvi di Fragola, la mia cagnetta, che è rimasta sotto una montagna di roba quand’è caduta la libreria, e ora c’è una bestiaccia orribile e bavosa a raschiare il vetro quando lo chiudo sul balcone. Potrei spiegarvi quali fossero i miei sentimenti, quando il mio migliore amico mi ha regalato una canna fatta col basilico e rosmarino e sono finito al pronto soccorso perché beh, io al basilico sono allergico.
La verità è che mi sono reso conto che di questa vita non me ne fregava niente quando ho ipotizzato per la prima volta di chiuderla lì, e non ho pensato niente. Penso che fosse una specie di lotta con me stesso, ho programmato tutto aspettando che mi riprendessi, mi infilassi un paio di pantaloni e uscissi dal bagno pieno di gratitudine verso Dio o giù di lì. Invece davvero, non era uno dei miei vaneggiamenti a luci spente, quando immaginavo di buttarmi giù dal quinto piano e la sagoma di scotch bianco attorno ad una macchia di sangue, una giornalista che intervistava i miei genitori in un salotto televisivo e la scritta in grassetto sul quotidiano locale: avrei potuto farlo e nessuno mi avrebbe fermato.
Oramai il mio piede era dentro fino alla caviglia nel vaso dei gerani, li avevo praticamente sradicati tutti. Dalla finestra entravano i guaiti di Botolo, che avevo rinchiuso fuori come sempre, quand’ero solo in casa. Non mi andava di far trovare il mio corpo cosparso di dna di cane.
Addio Botolo, ti auguro di morire in maniera indegna. Addio mamma, papà, parenti vari. Addio vicini di casa con cui non ho mai parlato, amici che ho su facebook ma che non conosco, bidelli che non mi salutano quando entro a scuola. Addio persone che verrete al mio funerale o che sentirete il mio nome in tv, addio prete che seppellirai il mio corpo, addio addetti alle pompe funebri che darete una penna promozionale ai presenti.
Ma poi, a voi che ve ne frega?
  
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