Qualche
mese fa scrissi questa One-Shot per un contest indetto da "Twilight
Fanfic Contests", in occasione del Natale. Mi sono affezionata
fin da subito ai personaggi, soprattutto ad Edward, e ho assecondato la voglia
di scrivere ancora di loro.
Questa fan-fiction sarà breve: in totale saranno 9
capitoli ed un epilogo.
Se qualcuno conosce già la OS la ritroverà nei
primi due capitoli (che posterò a poca distanza di tempo l’uno dall’altro) e si
accorgerà che è stata leggermente modificata. Le modifiche principali sono
legate ad un “esperimento” che volevo iniziare già da un po’: scrivere al
passato ed in terza persona.
Dedico questo ed i capitoli che verranno a chi ha
letto e commentato la One-Shot, lasciandosi emozionare, ricoprendomi di
complimenti e sperando in un seguito: eccolo, ed è in gran parte merito vostro.
Aggiornerò ogni lunedì, un capitolo a settimana.
Buona lettura!
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Capitolo 1 – Inviti
Era la mattina del ventidue dicembre.
A ricordarglielo ci pensava il calendario colorato
appeso sopra il camino. Rosalie aveva aperto tutte le caselle ed aveva mangiato
i cioccolatini che contenevano, fino a lasciare coperto il numero ventitrè. Era
diventato il suo piccolo e felice rituale mattutino: si svegliava, apriva la
casella del giorno e mangiava il cioccolatino con un solo boccone.
Edward era sveglio da parecchie ore, ma gli occhi
bruciavano ancora per il troppo sonno arretrato. Aveva fatto due lavatrici e i
panni profumati erano stesi davanti al camino. Davanti al focolare che aveva
acceso lui, accanto all'abete che aveva decorato lui, con l'aiuto di sua
sorella.
Aveva messo in ordine le camerette, rifatto i
letti con cura. Tutti tranne quello di sua madre, che era ancora lì dentro, soffocata
tra le coperte, la testa nascosta sotto due cuscini.
Dopo aver dato una ripulita veloce anche alla
cucina, si prese qualche minuto di riposo. Si staccò dalla sua vita, solo per
un attimo, con la testa abbandonata sulla poltrona morbida e i piedi gelati
vicino al focolare. Inspirò il profumo di detersivo, di pulito, di fatica.
A vederlo così, con gli occhi chiusi e il viso
stanco, sembrava passata un'eternità. Ed invece erano solo tre mesi. Tre mesi
da quella maledetta sera, tre mesi dalle lacrime, tre mesi dal più grande
cambiamento. Forzato, subìto, inaspettato.
Aveva trascorso una giornata intera in biblioteca,
impegnato a ripassare le ultime cose prima di dover affrontare il college.
Pedalava come un pazzo per riuscire ad arrivare a casa in tempo per la cena.
Perché in quella casa regnava il dovere della puntualità, non era ammesso
neanche un minuto di ritardo. Perché è così che si fa in ogni famiglia che si
rispetti: si cena tutti insieme, tutti sorridenti, tutti allegri, Com'è andata
la giornata caro? Per favore mi passi l'insalata? Certo tesoro prendi anche un
po' di patate.
Ma il sorriso in realtà era finto, era solo una
maschera che tutti dovevano attaccarsi alla faccia per far contento il padre,
il marito. E lui, quella maschera, non aveva mai avuto voglia di indossarla.
La stessa storia si ripeteva la mattina, a
colazione. Lo scambio dei buongiorno, Esme indaffarata ai fornelli, suo padre
che non rivolgeva loro nemmeno uno sguardo. Ma non era questo l'importante,
quello che contava era stare tutti insieme e recitare al meglio la tua parte
nella perfetta famiglia da spot pubblicitario. Poco importava se gli unici a
rivolgersi la parola fossero Edward e Rosalie, poco importava se nessuno
vedesse la faccia di Carlisle, sempre rintanata dietro il giornale spalancato.
E non importava nemmeno che la loro madre avesse sempre lo sguardo fisso sul
piatto, con il respiro affannato e le mani che le tremavano, di insicurezza e
terrore. Paura di dire la cosa sbagliata, in un momento ancora più sbagliato. Paura
di deluderlo, quel marito sempre impettito sul suo trono.
E lui, Edward, non riusciva mai a stare zitto, non
riusciva a non ribellarsi. Quell'enorme farsa gli era sempre andata troppo
stretta. Perse il conto di tutte le volte in cui suo padre lo spedì in camera
senza cena, con lo stomaco vuoto che brontolava e la bocca piena di parole
amare. E riusciva a mettere in un angolo la rabbia solo quando sentiva sua
madre che, durante la notte, saliva le scale in punta di piedi per portargli
qualcosa da mangiare.
Edward aveva passato l'adolescenza in punizione.
Per aver parlato troppo, per aver preferito per l'ennesima volta la schifosa
verità all'insopportabile recita, per aver lasciato a briglia sciolta quello
che ormai era diventato il suo compagno di giochi: il sarcasmo.
A scuola era sempre stato in disparte, perso in un
mondo che non apparteneva a nessuno se non a lui. Era il ragazzo solitario,
quello con il libro in mano e i capelli spettinati. Ed andava bene così.
Era sempre riuscito a trovare un equilibrio fra
tutte le cose che lo interessavano. Ed in quell’equilibrio ci faceva entrare
anche le ragazze. I primi anni le cose non andavano benissimo, i pochi
appuntamenti che riusciva ad ottenere li rovinava alla seconda uscita, se non
prima, senza neanche riuscire a capire dove avesse sbagliato.
Ma poi era cresciuto, ed il suo corpo con lui. Non
si doveva più sforzare per far colpo, per attirare una sguardo, per avvicinare
una ragazza. Gli bastava essere quello che era, stare in disparte dov'era
sempre stato, e le ragazze arrivavano da sole. Non era costretto a trascinarsi
a feste idiote per rimorchiare, gli bastava sfoderare un sorriso sghembo,
passarsi una mano tra i capelli 'di un colore che non avevano mai visto fino ad
allora', al massimo aggiungere quant'era bravo a destreggiare le sue dita anche sui tasti
di un pianoforte. Ed il gioco era fatto.
Le quattro mura di casa traboccavano di problemi e
quando ne usciva non voleva ulteriori complicazioni. Solo cose semplici, nessun
rompicampo sentimentale. Solo parole dritte al punto, nessun romanticismo. Solo
scopate, nessun amore.
Ma tutto l'equilibrio era stato spazzato via
quella sera, nel momento in cui aprì la porta di casa e trovò sua madre
accasciata sul divano, con le mani tra i capelli. Corse ad abbracciarla,
straziato dal suo dolore e terrorizzato dall'idea di scoprire cosa fosse
successo. Sua madre singhiozzava parole senza senso, lui continuava a ripeterle
di calmarsi. Ed in tutto quel mare di lacrime e dolore, non riusciva non
chiederle Dov'è Rose? Lei sta bene?, ma Esme non aveva la forza di mettere
insieme una risposta. Dopo qualche bicchiere d'acqua ed altre cascate di
lacrime, gli confessò disperata che Carlisle se n'era andato. Era tornato dal
lavoro e, borbottando le sue solite parole tanto inutili quanto ipocrite, aveva
fatto i bagagli per non tornare mai più. Aveva deciso di lasciare la sua moglie
perfetta e la sua famiglia da pubblicità così, come un vigliacco. Il vigliacco
che, in fondo, era sempre stato.
In quel momento scese le scale Rosalie, impaurita
e confusa, che a sette anni era costretta a vedere sua madre a pezzi tenuta
insieme soltanto dalle braccia di suo fratello.
Fu quella la prima volta di una lunga serie in cui
tutto quello che Edward voleva era solo tapparle occhi e orecchie, ed evitarle
di vedere e sentire tutte quelle parole e quelle lacrime. Ma non poteva. Allora
si limitò a stringerla, e tra le sue braccia fece posto ad entrambe le donne
della sua vita.
Con le labbra premute sui capelli profumati di
Rosalie ed una mano sulla spalla di sua madre, si vergognò quasi quando si
accorse che lui non aveva bisogno di essere consolato. Lui non stava male, non
era distrutto, non aveva voglia di piangere.
Lui era sollevato.
Carlisle se n'era andato, portandosi via le sue
idee del cazzo, e forse per loro la vita sarebbe migliorata, forse avrebbero
trovato una felicità tutta loro, fatta di risate sguaiate e cene consumate sul
divano alle nove di sera.
Ad un tratto – lì, sul quel divano, abbracciando
sua madre e sua sorella, immaginando suo padre lontano – Edward ripensò ad
Esme, la vide con i suoi occhi di bambino. Quando ancora sorrideva, scherzava,
correva. Passava interi pomeriggi a dipingere con suo figlio sulle ginocchia,
canticchiando canzoni d'amore, aspettando con trepidazione il ritorno a casa
del suo uomo. Ma quell'uomo negli anni cambiò, venne risucchiato dai soldi, dal
lavoro, dalla sua merdosa clinica. E la mamma frizzante e piena di vita che
Edward conosceva sparì. Il tempo e il matrimonio portarono via tanti pezzettini
di lei, fino a lasciare nient'altro che un involucro, triste e vuoto. E adesso
Edward sperava che quella donna sempre entusiasta e sorridente potesse tornare,
come se non se ne fosse mai andata.
Ma si sbagliava. Niente migliorò, cominciò
soltanto un altro orribile capitolo della loro vita. Un capitolo che lo
costrinse a caricarsi sulle spalle una casa e una famiglia, a fare i compiti
insieme alla sua sorellina ed a ripetere le tabelline con lei. Lo costrinse ad
imparare come si fa una lavatrice, come si pagano le bollette e come si cucina
un pasto per tre persone, che di solito restavano in due.
Tutto questo perché lei non ce la faceva. Esme,
sua madre. Da quella sera non smise più di piangere, non smise più di
disperarsi, cambiò solo posto dove farlo. Da divano si trascinò nel letto e ci
rimase per giorni, settimane, mesi. Si tolse la maschera che indossava quando
Carlisle era lì con loro, ma nel frattempo si era scordata come si fa a
sorridere, ad accarezza tua figlia, ad abbracciare tuo figlio. Si ricordava soltanto
di quanto le piaceva la vodka e non faceva altro per tutto il giorno: si
attaccava alla bottiglia, dormiva, piangeva, tornava alla bottiglia. Usciva di
casa soltanto quando la sua migliore compagnia si svuotava ed Edward le urlava
contro che nemmeno morto sarebbe andato a comprargliela. Ecco, in quelle
occasioni Esme di sforzava, si metteva un giaccone sopra il pigiama ed usciva
nel mondo, per tornare a casa solo qualche minuto dopo, con una bottiglia piena
stretta tra le mani.
Non serviva a niente scuoterla, sgridarla,
ripeterle che doveva farsi aiutare, che non si poteva scordare di essere una
madre. Non serviva a niente nemmeno abbracciarla, coccolarla, consolarla.
Non serviva a niente, tutto restava uguale: Edward
con il vomito di sua madre da lavare dal pavimento.
Lo sguardo si posò sull'orologio che portava al
polso e, all'improvviso, i ricordi vennero spazzati via dalla paura di fare
tardi: doveva andare a prendere Rose a scuola.
Afferrò il cappotto e le chiavi del lucchetto
della bicicletta (Sì, una bicicletta... perché Carlisle si è portavo via
l'unica macchina che avevano). La stessa bicicletta con cui l'aveva portata a
scuola a settembre, il primo giorno del nuovo anno scolastico. Quella mattina
era una piccola forza della natura, con il suo zaino rosso sulle spalle e le
guance arrossate dall'emozione. Si rifiutò categoricamente di salire sul
seggiolino attaccato al manubrio, costrinse Edward a smontarlo e a portarla
sulla canna 'perché i grandi fanno così'.
Sorrise a quel ricordo e cominciò a pedalare.
Si appoggiò al grande cancello di ferro battuto
proprio mentre il suono della campanella rimbombava tra le pareti della scuola
e faceva spuntare grandi sorrisi liberatori sui visini allegri degli alunni.
Ed eccola, Rose, che sbucava dal portone di legno
scuro in mezzo all'enorme sciame di bambini. Edward riuscì a notarla tra tutte
quelle piccole teste perché era l'unica a non correre. Parlava animatamente con
un suo amichetto, gesticolava con foga, si sistemava i lunghi capelli biondi
dietro le orecchie. Edward la guardò e non potè fare a meno di sorridere.
Riusciva a meravigliarlo ogni volta, ogni giorno. Con la sua spontaneità, la
sua vivace sincerità... tutto concentrato nella dolcezza di una bambina di sette
anni.
Rose smise di parlare, di gesticolare, di
sistemarsi i capelli. Alzò la testa e lo vide. Bello, alto, suo fratello. In
mezzo a tutti quei genitori, mamme e papà, nonni, babysitter. Suo fratello.
La bocca le si spalancò in un sorriso largo quanto
un abbraccio, alzò subito la sua piccola mano e la agitò per salutarlo.
Ecco qual è la mia forza, pensò Edward, ecco cosa
mi salva dall'impazzire: quel meraviglioso sorriso.
Si buttò al collo di suo fratello, con lo zaino e
tutto il resto, e gli allacciò le braccia intorno al collo.
"Allora, principessa?" le scompigliò i
capelli, lei si affrettò a riordinarli con le dita. "Com'è andato l'ultimo
giorno di scuola prima delle vacanze?"
"Tutto bene, come sempre." Abbassò lo
sguardo, giocando con lo scollo a V della maglietta di suo fratello che sbucava
dal cappotto. "Abbiamo fatto questo," aprì una mano e mostrò il
regalino per le famiglie che le maestre facevano preparare ai bambini ogni
anno. Era un piccolo abete di ceramica, colorato con le tempere. "È molto
più bello l'albero che abbiamo fatto noi a casa, vero Edward?"
Lui aveva fatto di tutto per prepararle un bel
Natale, aveva comprato tutte le decorazioni che le piacevano, l'aveva presa in
braccio e l'aveva sollevata per farle mettere la punta sull'albero. Voglio che
ami il Natale, si ripeteva in continuazione, non voglio che lo detesti come ho
sempre fatto io.
"È molto bello anche questo, Rose!"
Poi la piccola si rabbuiò, il sorriso sparì e
sussurrò "Ci dovevamo scrivere dietro i nomi dei componenti della famiglia...
io non sapevo cosa scrivere." L'ultima parola si sentì a malapena.
Edward, con il cuore traboccante di tenerezza,
voltò fulmineo l'alberino che stringeva nella mano.
Aveva scritto Mamma,
Edward, io.
"Va benissimo così, mostriciattolo. Puoi
scrivere quello che vuoi!" e le stampò un bacio sulla guancia.
Si sentì strattonare i jeans con forza e abbassò
lo sguardo, trovando una testa coperta di capelli a spazzola, neri come la
pece.
"Mia mamma ancora non è arrivata."
borbottò timidamente il bambino.
"Non ti preoccupare Emm, l'aspettiamo con
te." si intromise Rose, che aveva già ritrovato tutta la sua allegria.
"vero, Edward?"
"Certo, certo" provò a tranquillizzarli,
anche se loro non ne avevano proprio bisogno.
"Possiamo andare a giocare mentre aspettiamo
la sua mamma?" gli chiese sua sorella con un sorriso furbo.
Eccolo il momento, una delle classiche situazioni
che gli si presentavano ogni giorno. Lui non sapeva cosa rispondere, avrebbe
voluto dirle soltanto: E io che ne so?. Ma stava a lui decidere, lo sapeva
bene, perché era l'unico a cui Rose poteva chiederlo.
Diede un'occhiata al piccolo parco giochi al
centro del giardino della scuola, provò a ragionare come si immaginava
facessero i genitori: ci sono già altri bambini, posso comunque tenerla d'occhio
e non mi dispiace rimanere qui un altro po'.
"Ok, va bene."
"Siiiiiiiiii!" urlarono in coro i due
bambini.
"Ma non possiamo fare tanto tardi perché
prima di andare a lavoro devo preparare il pranzo per te e mamma, capito
Rose"?" Ma lei stava già correndo verso l'altalena, marcata stretta
dal suo amico.
Poi, il fratellone maggiore collegò il nomignolo
di quel bambino ad un episodio che Rosalie gli aveva raccontato qualche giorno
prima, così la rincorse e la fermò. "Non è quell'Emmett che vuole diventare
il tuo fidanzato, vero?"
"Edwaaaard, zittoooo!" strillò. Si coprì
la faccia con le mani, per poi continuare subito a correre.
Lui sbuffò e si rialzò lentamente, infilandosi le
mani nelle tasche dei jeans. E, proprio mentre vagava con lo sguardo per cercare
una panchina su cui sedersi, la vide.
La sua ossessione, l'unica pazzia che si
concedeva, il motivo per cui andare a prendere Rosalie a scuola non gli pesava
neanche un po': Isabella Swan, la maestra.
Era appoggiata al portone della scuola, con le
braccia intorno ai fianchi per proteggersi dal freddo, osservava i suoi
studenti abbracciati ai genitori.
Indossava una camicetta bianca, un golfino di lana
ed una gonna a vita alta che le lasciava scoperte le ginocchia. Ai piedi, un
paio di scarpe con il tacco alto.
Come sempre, lasciò che la sua mente malata
immaginasse tutto quello che gli occhi non riuscivano a vedere: il reggiseno
che indossava sotto la camicetta, il reggicalze nascosto dalla gonna, il collo
liscio e profumato coperto dal colletto bianco. Sentì l'uccello indurirsi,
imprigionato nei jeans.
Isabella si avvicinò ad una mamma, che le disse
qualcosa che Edward non riuscì a capire. Lei sorrideva, guardava con tenerezza
il bambino aggrappato alla gamba della madre e gli fece una carezza prima che si
allontanassero. E poi il suo sguardo cambiò perché ad un tratto si era
intrecciato con quello dell'unico ragazzo presente nel piazzale, che se la
stava mangiando con gli occhi.
Succedeva sempre così, ogni mattina: i loro occhi
si cercavano ed erano sempre pronti a trovarsi.
Lei arrossì immediatamente, abbassò la testa con
uno scatto, come se volesse scacciare un pensiero. Lui approfittò di
quell'attimo di incertezza e si fece avanti.
"Salve, signorina Swan." Lei era
imbarazzata, lui no.
"Ciao, Edward." rispose, dopo aver
schiarito la voce.
"Le va di farmi compagnia?" le chiese,
sfacciato come il suo sguardo.
"Smettila, ti ho già detto mille volte di non
darmi del lei!" La faceva sentire insensatamente vecchia, ma questo non
glielo aveva mai detto.
"Mi scusi." insistette, alzando un
angolo della bocca.
Le strappò un sorriso, che le scoprì i denti
bianchi e perfetti. Edward vide le guance imporporarsi sempre di più, gli occhi
color cioccolata si illuminarono. Ed ogni volta che la vedeva brillare così gli
sembrava un regalo, una piccola grande conquista.
Una ciocca di capelli le scivolò davanti agli
occhi e lui, con un riflesso pronto, allungò la mano e gliela spostò dietro
l'orecchio. Nel momento esatto in cui la toccò, un brivido gli percorse la
schiena. Un'emozione forte che però non riuscì a distrarlo dai jeans che
diventavano sempre più stretti e fastidiosi.
Lei si allontanò di un passo, intimorita dalla sua
iniziativa. Si guardò intorno, per controllare che nessuno li stesse
osservando. Era nervosa, si morse il labbro inferiore. Un movimento che buttò
benzina sulle voglie di Edward: non fece altro che fargli notare le sue
meravigliose labbra carnose.
Lui voleva avvicinarsi di nuovo, ma lo fermò la
paura di esagerare. Finora si erano sempre scambiati qualche parola, si erano
punzecchiati, provocati. Le aveva rubato un'informazione dopo l'altra,
conservandole come se potessero scappare. Aveva scoperto che non era fidanzata,
che aveva venticinque anni, che era in città da sola perché la sua famiglia
viveva lontano. Parole sussurrate, sorrisi nascosti dalla timidezza, domande
azzardate, me niente contatto. Si sfioravano a malapena, lei non si avvicinava
mai abbastanza. E tutte le volte lui impazziva. Pazzia mischiata alla paura che
fosse tutto un gran bel film girato nella sua mente deviata.
"Io lavoro alla RoadHouse, la tavola calda in
centro." azzardò, senza smettere si sorriderle. "Faccio pranzo, cena
e quando posso lavoro fino a tardi. Lì non saresti costretta a guardarti
intorno con la paura che qualcuno ti stia osservando. Ed io con il grembiule
sono uno spettacolo da non perdere." Un altro sorriso, un'altra piccola
conquista. "Passi stasera?"
Mentre lui pregava che gli dicesse sì senza
neanche pensarci due volte, lei scosse la testa, lasciandosi sfuggire un
sospiro. "Sei tremendo." disse fra sè e sè, evitando i suoi occhi.
"Lo so. Vieni?"
Lo scrutava con il suo sguardo luminoso e i suoi
pensieri indecifrabili e, mentre indietreggiava verso il portone, bisbigliò
"Ci penserò".
La vide sparire e, qualche secondo dopo, si
dissolse anche il rumore dei suoi tacchi.
Tornò ad osservare sua sorella, che stava
ordinando ad Emmett di spingere l'altalena più forte, ed intanto cominciò a
pensare a cosa potesse tirare fuori dal frigorifero per mettere insieme un
pranzo decente.
***
Mezzanotte del ventitrè dicembre, e stava ancora
lavorando.
Non era stata una serata troppo impegnativa: pochi
clienti, poche ordinazioni, poche distrazioni. Il Natale era sempre più vicino
e la gente iniziava a preferire l'atmosfera intima ed accogliente delle loro
case ad una tavola calda piena di sconosciuti. Rimanevano fedeli solo i soliti
abbonati visi tristi, che non avevano case accoglienti ad aspettarli. Di
solito, a quest'ora, Edward era sempre indaffarato tra drink e spuntini
notturni, ma oggi poteva già cominciare a riordinare tavoli e sedie.
Jacob Black, il propretario del locale da quando
suo padre Billy era venuto a mancare, uscì dal magazzino tenendosi il cappotto
su una spalla.
"Cullen, stasera ti è andata bene!"
gridò nella sua direzione, con una voce sottile sproporzionata al suo corpo
ingombrante. "Appena finisci di pulire puoi andare a casa, sei libero! Ti
dispiace chiudere al posto mio?" gli chiese, con una pacca sulla spalla.
Edward si lasciò sfuggire un sospiro, sollevato
dal pensiero che sarebbe tornato a casa ad un orario decente e, dopo
un'eternità, sarebbe riuscito a dormire per più di cinque ore filate. O almeno
avrebbe potuto provarci.
"Voglio tornare a casa prima che Leah si sia
addormentata, lo sai quanto diventa insopportabile quando la faccio
innervosire!" Annuì con un sorriso tirato, anche se in realtà non ne aveva
idea. La moglie di Jacob l'aveva vista solo due volte, da lontano, e nemmeno
gli aveva rivolto parola.
Gli disse di non preoccuparsi e che poteva stare
tranquillo, non aggiunse che sbrigare le ultime cose senza nessuno tra i piedi
sarebbe stato ancora più piacevole. Il suo titolare lo salutò, gli augurò la
buona notte e lui, educatamente, ricambiò.
Dopo aver passato velocemente la spugna sul
bancone, si avvicinò ai tavoli ed alzò una sedia per poter cominciare a
spazzare. Ma non fece in tempo ad afferrare la scopa che il campanellino
attaccato alla porta cominciò a suonare, seguito dal rumore di qualche passo
incerto. Per un attimo restò immobile, indeciso se servire l'ultimo cliente o
cacciarlo dicendogli che erano già schiusi. Il sonno, che gli era sfuggito per
troppo notti, ebbe la meglio e si voltò, annunciando con tono fermo: "Mi
dispiace, stiamo chiud-"
Le parole gli morirono in gola quando si trovò
davanti Isabella.
Teneva le braccia incrociate sul petto, forse per
il freddo, forse per l'imbarazzo. Indossava un cappotto nero, stretto in vita,
che valorizzava la forma incantevole dei suoi fianchi. In testa portava un
delizioso cappellino di lana rosso, dal quale sbucava una morbida cascata di
capelli mossi.
Edward sapeva che era in silenzio da troppo tempo,
doveva assolutamente trovare qualcosa da dire. Qualcosa che non la fecesse
scappare, che la trattenesse lì, con lui, per tutta la notte.
"Mi dispiace" sussurrò lei, battendolo
sul tempo. "è tardissimo, stai chiudendo... me ne vado."
"No," si affrettò a rassicurarla,
sentendosi mancare al pensiero che fosse già tutto finito. "Resta."
Fece un passo verso di lei, prima che potesse voltarsi
ed andarsene. D'istinto allungò un braccio per fermarla, ma, senza nemmeno
sfiorarla, tornò ad appoggiarlo sulla sedia perché si accorse che non era
necessario: non si era voltata, non si era allontanata, non voleva andarsene.
Tolse la sedia dal tavolo e gliela indicò.
"Siediti pure."
E allora lei sorrise. Si sentì come se,
all'improvviso, qualcuno l'avesse liberata di un macigno caricato sulla spalle,
come se ad un tratto fosse più leggera, più giovane, più spensierata. Si dette
della cretina, ma continuò a sorridere a quel ragazzo che non riusciva a
smettere di guardare.
Gli si avvicinò, sentì che profumava di buono. Si
sedette timidamente, con le mani in grembo.
"Cosa ti porto?" le chiese gentilmente,
allungandole un menù.
"Ma stavi chiudendo, non voglio
disturb-"
"Che ne dici di una cioccolata calda?"
la interruppe, prendendo l'iniziativa.
Lei lo guardò per un secondo che sembrò un anno,
scosse la testa e, dopo aver liberato un respiro pesante come un macigno, si
arrese. "Vada per la cioccolata calda!"
Edward raggiunse il bancone e preparò la bevanda
con la testa che rischiava di esplodere: voleva impiegare meno tempo possibile
per poter tornare subito da lei, ma nello stesso tempo voleva impegnarsi per
prepararle con cura la cioccolata più buona che avesse mai assaggiato.
Quando lei vide la tazza, ricoperta fino all'orlo
con una spruzzata di panna montata, sgranò gli occhi come di solito faceva
Rosalie quando era felice. Edward decise che era un buon segno.
"È perfetta!" sussurrò, afferrando il
cucchiaino.
"Come fai a dirlo? Prima assaggiala!"
Si sedette accanto a lei e la osservò mentre si
avvicinava la tazza alla bocca. Alla sua meravigliosa, carnosa, morbida bocca.
Iniziò a giocherellare con le mani per distrarsi, seguiva con le dita le
venature del tavolo. Tutto per non pensare che gli sarebbe bastato allungarsi
di un paio di centimetri per toccarla, per accarezzarla, per...
"È perfetta davvero! Ora che l'ho assaggiata
lo posso dire, giusto?"
Edward si lasciò andare ad una risata, che aumentò
quanto vide la punta del suo nasino, arrossata dal freddo, macchiata di
cioccolata. Allungò l'indice e la catturò con il polpestrello, che finì dritto
tra le sue labbra. Lei si imbarazzò, come se quel gesto le avesse ricordato con
uno schiaffo che era sola con un ragazzo bello da morire, dal quale si sentiva
attratta dalla prima volta che lo aveva intravisto nel cortile della scuola.
Lui la vide in difficoltà, con gli occhi velati di un'emozione che non sapere
tradurre, e per smorzare la tensione le sorrise. Quel sorriso sghembo che tante
volte aveva sfoderato, ma che mai gli era sembrato così poco convincente come
adesso.
"Dimmi un po'..." mormorò, guardandolo
dritto negli occhi, con una sicurezza che fino a pochi minuti prima non c'era.
"Quante ragazzine hai conquistato con quel sorriso storto?"
Edward scoppiò a ridere, divertito e anche un po'
imbarazzato, nascondendosi la faccia con una mano.
"Non abbastanza, a quanto pare."
Lei strinse le dita sottili intorno alla tazza e,
dal cambiamente dello sguardo e dal piccolo sorriso che se ne andò dalle sue
labbra, Edward capì che stava per iniziare un discorso che la metteva a
disagio.
"Senti,"
"Dimmi"
"Forse ho sbagliato a venire qui o forse no,
non lo so. Il problema è che nemmeno io so perché l'ho fatto. Ero indecisa, tu
ieri mi hai invitata ed io non sapevo cosa fare... ma poi mi sono detta che due
chiacchiere tra amici non avrebbero fatto male a nessuno"
"Tra amici?"
"Voglio solo che tu sappia" continuò,
ignorandolo. "che non sono qui per quello che pensi, per quello che vuoi.
Perchè l'ho capito cosa vuoi. Porca miseria, si vede... eccome se si vede. Da
come mi guardi, da come mi parli. E devi smetterla, davvero"
"Isabella,"
"È una cosa sbagliata, completamente
sbagliata... spero che tu te ne renda conto. Io sono l'insegnante di tua
sorella, capisci? L'insegnante di tua sorella! E sono un'adulta, sono una
donna, molto più grande di te. Ed è sbagliato, anche solo essere qui è
completamente sbagl-"
"Isabella." la chiamò di nuovo,
posandole una mano sul braccio, scacciando con la sua sicurezza la confusione
creata da tutte quelle cose sbagliate in un
solo discorso. "Hai parlato abbastanza, non ti pare? Ora calmati, respira
e lascia parlare me."
Annuì seria, sfuggendo al suo sguardo.
"Non mi sono fatto nessuna idea,
davvero." Lei provava a capire se fosse sincero, lui provava a convincersi
di quella bugia per apparire più convincente. "So solo che sto bene. Ora,
qui, con te... sto bene."
Ecco, questa era la verità. Ora non doveva
nascondersi fin dentro lo stomaco, poteva confessarsi.
Solo un po', ma poteva farlo.
"E non dobbiamo etichettarlo, dargli un nome.
Proprio come non dobbiamo dare un nome a noi due. Stasera non sei l'insegnante
di Rosalie ed io non sono il fratello di una tua alunna. Sei solo una donna,
incredibilmente bella, che ha deciso di prendere qualcosa da bere e, per sua
fortuna, ha trovato un cameriere con cui adora parlare. Va bene? Ci stai?"
Lo guardava con i suoi occhi grandi e lucidi.
Sospirò, continuando a scrutarlo per capire se fosse sincero. Quello che vide
forse la convinse davvero perché gli sorrise ed annuì.
"Ci sto." E a Edward sembrò di aver
appena scalato una montagna.
Le ore successive corsero sull'orologio in modo
strano, particolare, emozionante. Il tempo scivolava veloce, scandito da
emozioni diverse, constrastanti, una continua lotta tra il sollievo e l'ansia.
Sollievo per ogni parola che usciva dalle loro labbra, ansia perché temevano
sempre che potesse essere l'ultima. Più Bella parlava, più Edward capiva che
non ne avrebbe avuto mai abbastanza. Della sua voce, del suo modo delicato di
gesticolare, delle sue fossette che le addolcivano il viso più di quanto fosse
umanamente possibile.
Gli chiese dei suoi studi, volle sapere perché
aveva deciso di lavorare invece di andare al college. E lui liberò le parole
come se fossero un fiume in piena. Le raccontò della sua famiglia, di sua
mamma, di quanto riuscisse ad amare quel piccolo scricciolo biondo che anche
lei vedeva tutte le mattine. Le disse quanto fosse stata naturale, sofferta e
scontata l'idea di abbandonare per un po' gli studi per stare vicino a loro,
per non abbandonare le persone a cui teneva di più al mondo. Le raccontò della
sua passione, la musica. Le raccontò il suo sogno, diventare un medico. E le
raccontò anche il suo incubo, diventare un medico come suo padre. Le disse cose
che non aveva mai detto a nessuno e, per la prima volta, ascoltò il suono dei
suoi pensieri, da sempre chiusi a chiave nella testa e nel cuore.
Lei ricambiò con foga ed emozione le sue parole,
il suo interesse, la sua voglia di aprirsi. Ed aggiunse acqua al suo fiume in
piena. Completamente rapito, lui l'ascoltò parlare di sua madre e di suo padre.
Capì, dalla voce incrinata e dagli occhi turbati, quanto fosse stato difficile
gestire i rapporto con i genitori separati, sempre divisa tra due case, due vacanze,
due caratteri e migliaia di abitudini diverse. La vide arrossire nominando i
suoi pochi e sbagliati amori e si emozionò davanti ai suoi occhi lucidi quando
gli confessò di invidiare il suo rapporto con Rosalie, il rapporto che fin da
bambina aveva sognato di avere con un sorella che, purtroppo, non aveva mai
avuto.
Lei parlava, lui la ascoltava e poi si scambiarono
di nuovo i ruoli, come se fosse una danza che entrambi sapevano eseguire alla
perfezione, senza sbagliare i passi e senza pestarsi i piedi. E sentivano ogni
parola accarezzare la pelle come se fosse medicina per le loro ferite.
Finirono a parlare del Natale, di quel Natale.
Edward fu costretto a mordersi la lingua per non dirle che tutto quello che
avrebbe voluto era una Natale sotto le coperte con lei e, mettendo da parte per
l'ennesima volta i pensieri sconci, le chiese se sarebbe partita per
trascorrere le vacanze con i suoi.
"No," borbottò timida. "preferisco
rimanere qui, tanto non sarebbe un bel Natale nemmeno se tornassi a casa."
"Quindi sarai sola?" Gli si strinse il
cuore ad immaginarla sola in casa, senza l'abbraccio di nessuno, senza nessuno
con cui fare un brindisi.
"Una mia collega, Angela, mi ha invitata a
casa sua per la Vigilia. Una cena tranquilla, con i suoi amici."
"Ma?"
Gli sorrise complice, era tanto tempo che non
aveva l'impressione che qualcuno le leggesse il pensiero. "Ma... non credo
di andare."
"Beh, vieni da noi!" le disse, spontaneo
e convinto.
"Cosa?" squittì Bella. Sgranò gli occhi,
allarmata e spiazzata.
"Non sarà nulla di formale, non ti
preoccupare. Proveremo a mangiare le schifezze che cucinerò, ascolteremo un po’
di musica oppure guarderemo un film, quello che vuoi." Cercò la sua
approvazione con lo sguardo, ma non la trovò perchè lei evitava di guardarlo.
Aveva sentito un allarme scattare, Bella. Quell'allarme assordante, che ora
copriva le parole di Edward e le ripeteva: cammina, rallenta, smettila di
correre come una pazza. "Rose sarebbe pazza di gioia, e lo sarebbe anche
mia madre se riuscisse a tenere gli occhi aperti!"
La vide abbassare all'improvviso la testa,
rabbuiata dalle sue parole. Quando tornò a guardarlo, i suoi occhi erano più
duri, più scuri, non ammettevano repliche.
"No, Edward." Due semplici parole e lui
rotolò giù per quella montagna che con tanta fatica aveva scalato.
"Va bene, ti capisco." si affrettò a
precisare, con un sorriso che sperò sembrasse tranquillo e comprensivo.
La vide afferrare la borsa, infilarsi il cappello,
recuperare il cappotto. Tutto sembrava andare a rallentatore e lui non sapeva
cosa fare, come fermarla. Bella osservò per qualche secondo la tazza vuota di
fronte a lei e poi lo cercò, con gli occhi di nuovo dolci e sereni.
"Grazie" sussurrò emozionata.
"Grazie davvero. È stata una serata perfetta."
"Di più." Sentì spuntare il sorriso
storto contro la sua volontà.
Si alzò lentamente e, come un mendicante sogna una
manciata di spiccioli, Edward si ritrovò a sperare che gli lasciasse almeno un
bacio sulla guancia. Patetico, se ne rendeva conto. Ma lei non si avvicinava,
restava lì, in piedi davanti al tavolo. Poi, all'improvviso, gli passò una mano
tra i capelli, spettinandoli ancora di più. Lui sentì le sue piccole dita
sottili scivolargli sulla testa e non ebbe il tempo di fare niente, pensare a
niente, riuscì a malapena a socchiudere gli occhi e godersi quell'attimo. Si
allontanò subito, facendo risuonare i suoi tacchi nella piccola stanza vuota, e
lo salutò con un ultimo sorriso.