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Autore: Memory of dream    03/06/2011    1 recensioni
L'ambito universitario si sa ha delle sue regole: scrivi le ricerche a nome del professore e in futuro otterrai una cattedra.
Non per tutti funziona così, basta un sorriso provocante e l'insegnamento lo si può ottenere velocemente.
A quanluno però non sta bene e decide che certi comportamenti non vanno lasciati impuniti.
Avviso per correttezza che ho postato questo racconto anche su un altro sito, sempre col mio nick quindi nessun plagio.
Genere: Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'edificio principale dell'università era stato, in passato, un vecchio monastero, com'era facilmente intuibile dalla struttura dello stabile, ricca di colonne, di finestroni ad arco stretto e guglie.
Le leggende narravano che era in questi luoghi che venivano nascosti ingenti tesori protetti da un'aurea di sacralità e dalle complesse strutture che rendevano superflue le centinaia di guardie che affollavano i castelli e le roccaforti e così i signorotti locali erano soliti approfittare dell'ospitalità dei monaci, ottenuta a suon di donazioni, per tutelare i loro gioielli nei periodi più tumultuosi. La struttura del vecchio monastero lasciava intendere che quelli erano ben più che miti tramandati e che, in quel luogo, centinaia di anni prima, erano stati conservati beni di enorme valore.
L'interno era stato un vero e proprio labirinto: tutti i corridoi uguali, così come la disposizione delle stanze, adesso usate come aule. Durante la ristrutturazione che precedette l'utilizzo della struttura come sede universitaria vi si pose rimedio, ma visto il ridotto budget stanziato per l'occasione non vennero interessati dalle operazioni di rifacimento i piani interrati, rimasti il dedalo di labirinti del passato.
Col tempo l'università era diventata una delle più rinomate e via via vennero costruiti nuovi edifici dove, poco alla volta, vennero spostate le aule e i dipartimenti. Solo per rispetto della tradizione si decise di lasciare la presidenza e gli uffici amministrativi nella sede storica.

Emily Watban stava percorrendo la strada che dall'edificio dove si tenevano le lezioni conduceva all'edificio principale, un percorso fatto centinaia, migliaia di volte, ma quella era diversa, la sarebbe stata e una strana eccitazione la divorava dall'interno. Il sentiero lastricato le sembrava più lungo del solito, così come risuonavano amplificati i suoi passi regolari, scanditi dal ticchettio dei suoi tacchi bassi.
Arrivata infine all'ingresso, proseguì con decisione all'interno della struttura e mentre passava la sua immagine si riflesse per un secondo nella porta coi vetri a specchio: una figura non troppo alta e leggermente in sovrappeso con indosso un tailleur beige, una camicetta bianca e delle scarpe nere di una moda ormai passata. Il viso era truccato eccessivamente, ma con un risultato piuttosto accettabile, anche se non riusciva completamente nell'intento di nascondere le rughe, che i passati cinquant'anni le avevano scavato sul volto.
Nel complesso, pur non essendo di una bellezza sconvolgente, poteva dirsi soddisfatta della sua immagine, sopratutto perché, con sua grande sorpresa e a dispetto di quanto stava per accadere, manteneva la sua espressione normale: a cavallo tra il serio e lo scocciato.
Non poté fare a meno di dare un'occhiata anche alla figura di colui che la seguiva ed ebbe un moto di disgusto che a stento riusci a trattenere.
Era un uomo sul metro e ottanta scarso, sui settant'anni, portati incredibilmente bene, tanto da dimostrane una decina di meno. Aveva occhi chiari, capelli grigi non troppo corti e una barba folta molto curata completamente bianca. Vestiva in maniera semplice: pantaloni grigi e un maglioncino nero, fin troppo sobrio per la carica che ricopriva.

Procedendo verso la loro meta Emily si chiese com'era possibile che un uomo tanto bello potesse essere a tal punto marcio dentro.

«Questo edificio è sempre fonte di sorprese, anche dopo tanti anni. Vero miss Watban?»
«Ha ragione professore. Quando la dottoressa Mandelli mi ha detto di aver trovato una zona inesplorata al secondo piano interrato sono rimasta senza parole.» rispose con un tono cordiale che mal sia accordava con la strana luce che si stava facendo posto negli occhi della signorina Watban, con quel sorriso che lentamente si stava trasformando in un ghigno.
L'ignaro rettore, il professor Carlor, non poteva però vedere quelle espressioni, ma se anche l'avesse fatto avrebbe capito cosa indicavano?

Tra brevi conversazioni e lunghi silenzi arrivarono, infine, nella stanza principale della zona inesplorata, un lungo stanzone con scaffali scavati nella roccia pieni di volumi e pergamene risalenti a centinaia di anni prima.
Forse per l'entusiasmo della scoperta, forse per la poca luce che le lampade emettevano o forse per semplice distrazione ma nessuno fece caso alla pesante porta d'acciaio, molto simile a quella delle celle dei manicomi criminali, con in alto uno spioncino provvisto di vetro blindato e in basso, rasente al pavimento uno sportello, grande abbastanza da far passare un vassoio con i piatti.
Più di ogni altra cosa non notarono che sia la porta, sia i cardini su cui poggiava erano nuovi, troppo nuovi rispetto a qualsiasi altra cosa lì dentro.

La signorina Mandelli era intenta a scrivere qualcosa su un foglio appoggiata su uno degli scaffali in pietra, talmente assorta da lasciare che Emily la potesse squadrare ancora una volta da capo a piedi, prima che si accorgesse del loro arrivo.
Era la personificazione di quanto odiava di più, appena trentenne e conscia del suo fascino che sapeva sfruttare a dovere. Non era di certo una bellezza senza pari, ma aveva un magnetismo, un modo di comportarsi, che difficilmente un uomo avrebbe potuto ignorare. Un raggiante sorriso, uno sguardo innocente che alle volte si faceva languido e all'occorrenza un musetto imbronciato che sapeva abbattere ogni difesa. Senza contare un corpo snello, atletico e un seno prosperoso, cose che Madre Natura aveva negato alla signorina Watban.

«Ah, siete arrivati. È incredibile questa stanza. Ci sono solo libri riguardante l'inquisizione, verbali di processi, descrizioni delle torture, questioni dottrinali...» attaccò come li vide, con quel suo modo frenetico e confuso che Emily aveva sempre paragonato alla parlata insicura di una studentessa poco preparata.
«Che ne dice di fare un brindisi e scattare una foto prima? Dopo con calma ci dirà tutto quello che ha scoperto in queste ore.» propose il professor Carlor facendosi coinvolgere dall'entusiasmo della più giovane del trio, ma volendo comunque mantenere, almeno in parte, un atteggiamento consono alla sua età e al suo ruolo.
«Per il brindisi concordo ma per la foto passo» e indicò i propri abiti. In effetti la signorina Mandelli indossava una semplice tuta e una giacca a vento per maggiore comodità durante il lavoro lì sotto, ma di certo non era l'ideale per una foto che probabilmente sarebbe stata messa in bella mostra nell'ufficio del rettore.
Emily, ben più interessata al brindisi che alla foto, in breve mise in mano agli altri due membri del gruppo i loro bicchieri, lasciando l'onore di versare il vino al esimio professor Carlor.
«Non è un occasione ufficiale per cui risparmiatemi dal dover tenere un discorso. Salute» e vuotò il suo bicchiere seguito dalla signorina Mandelli. Solo la signorina Watban si astenne lanciando un sorriso di scherno quando i due sventurati caddero vittima del potente sonnifero.
In un primo momento sentirono la testa pesante e una stanchezza mai provata prima, poi il nulla e vennero avvolti dal buio dell'incoscienza.

La prima a riprendersi fu la signorina Mandelli che, ancora barcollante, si avvicinò all'anziano rettore quando lo vide iniziare a riprendere conoscenza. Sul lato sinistro della fronte aveva un taglio, evidentemente procurato quando cadde a terra svenuto, dal quale colava copioso il sangue andando a sporcare e a raggrumarsi nella barba bianca.
«Cos'è successo?» chiese ancora evidentemente intontito il rettore Carlor mentre si appoggiava alla giovane tentando di rimettersi in piedi.
«Non lo so professore. L'unica cosa che posso dirle è che non vedo la dottoressa Watban. Piuttosto sta bene? Si è fatto un taglio...»
Il rettore appoggiò un paio di dita sulla ferita per saggiarne l'entità, poi fece cenno alla giovane di non preoccuparsi, era brutto a vedersi ma non così grave.
Videro poi la pesante porta sbarrare l'ingresso, l'unica via d'accesso alla stanza sbarrata da una lastra di freddo metallo spessa più di un palmo. La signorina Mandelli sembrò sul punto d'impazzire.
«Non si preoccupi. Basta fare una chiamata...»
«Qui il telefono non prende professore. E poi non credo che li abbiate in tasca.» la voce della signorina Watban li raggiunse improvvisamente, leggermente metallica, fredda.
«Miss Watban...Grazie al cielo, presto ci faccia uscire.»
La risposta che arrivò a quella richiesta d'aiuto non fu altro che una risata, una risata piena di risentimento che li lasciò frastornati e un dubbio iniziò a farsi largo nei loro pensieri. In un primo momento, ingenuamente, non avevano dubitato della signorina Watban, neanche quando si erano accorti della sua assenza, ma in quel istante cambiò tutto.
«Non uscirete mai da qui, ma non preoccupatevi non ho intenzione di farvi del male...»
«Emily ti rendi conto di cosa stai dicendo? Sei completamente impazzita!»
«Impazzita? Io? Ti stai sbagliando, non è pazzia la mia. Sto semplicemente ripagandovi di tutto quello che ho subito.»
«Perché cosa ti abbiamo fatto?» la voce tremante, scossa dai singhiozzi di un pianto che la signorina Mandelli tratteneva ormai a stento.
«Perché non lo chiedi all'eminente Professor Carlor?» schifata da esseri tanto corrotti da non capire nemmeno le proprie colpe sentì risalirle fino in gola una montagna di veleno, finalmente da quel giorno non avrebbe più dovuto trattenersi «Ho dedicato anni, decine d'anni a questa scuola. Ho scritto su riviste specialistiche, trattati, manuali... tutti a nome del rinomato professore di Antropologia generale nonché rettore della nostra università, il dottor  Carlor, ma sono ancora una semplice assistente. Tu, invece, un paio d'anni a far moine ed eccoti già una cattedra...»
Si fermò ansimante, come se si fosse sottoposta ad un incredibile sforzo, un'ira profonda la pervadeva fino nel profondo e solo la presenza della porta la tratteneva dall'ammazzare quei due.
Deboli scuse balbettate in quel tono accondiscendente che era solito usare. Non Voleva darle una cattedra di minore importanza, avrebbe voluto darle quella di antropologia generale quando fosse giunto il momento, ecco perché non le aveva assegnato un insegnamento.
«Può anche risparmiare il fiato professor Carlor, non crederò più alle sue parole. L'ho fatto per troppi anni. Rimarrete qui, con la paura che un giorno possa decidere di non tornare condannandovi ad una fine orrenda.»
«Non sia stupida, ci cercheranno...»
«Suvvia professore, dovrebbe saperlo che voci sulla vostra relazione sono anni che girano fra studenti e insegnanti. Senza contare che quest'ala dell'edificio è assolutamente sconosciuta se non a noi tre...»

Era stato un lavoro estenuante predisporre tutto in vista di quel momento.  Aveva trovato quella zona per caso circa tre anni prima e da quel momento aveva iniziato a mettere in pratica un piano che covava da tempo, mai realizzato solo perché non c'era un metodo per evitare le conseguenze del suo gesto, almeno fino a quel giorno.
La porta l'aveva fatta trasportare al secondo piano interrato imballandola e spacciandola per una vecchia stele decorativa danneggiata, ma portarla e montarla all'entrata di quella stanza l'aveva fatto completamente da sola.
Le voci su una possibile relazione sentimentale tra l'anziano rettore e la procace, giovane professoressa Mandelli esistevano fin dalla nomina lampo da assistente a professoressa ordinaria, lei non aveva fatto altro che rafforzale senza esporsi.
La parte più dura era stata far scoprire la sala alla signorina Mandelli, senza che ne facesse menzione con nessuno o che ne scrivesse da qualche parte, ma alla fine c'era riuscita.
«Non preoccupatevi, sarete parte di un grande progetto» detto questo si girò e se ne andò ignorando le loro voci supplicanti.
A nulla valsero i pugni alla porta troppo solida per cedere o le urla trattenute da quell'architettura che avevano più volte elogiato. Rinchiusi a decine di metri sottoterra con le loro vite nelle mani di una pazza.

In seguito gli eventi andarono come aveva previsto la neo nominata rettrice Watban, nonché nuova professoressa del corso di Antropologia Generale. La polizia indagò in tutte le direzioni e per un breve periodo si concentrarono proprio sulla sua figura, ma non trovarono niente che la ricollegasse alla sparizione dei due soggetti. Era vero che fra tutti era quella che aveva guadagnato di più, ma altrettanto vero era che negli anni precedenti non erano accaduti fatti che potessero far presagire un disegno criminoso.
Certo, una leggera invidia, tra l'altro candidamente ammessa durante l'interrogatorio, per via della cattedra ottenuta dalla signorina Mandelli c'era ma nulla più.
In breve la faccenda fu archiviata, almeno per la comunità universitaria e in seguito anche dalle autorità, come un caso di omicidio-suicidio. Molto probabilmente, pensavano quasi senza darsi pena di nasconderlo, al professor Carlor quella relazione era divenuta scomoda e al rifiuto di rompere della giovane, in un raptus, l'aveva uccisa. Tornato in sé non aveva retto al senso di colpa e si era tolto la vita.
Quella ricostruzione era priva di basi se non i pettegolezzi ma ancora una volta la professoressa Watban contribuì con molto tatto ad avvalorarla.

Dopo alcuni mesi uscì il primo libro a firma di Emily Watban, un saggio su come i rapporti tra persone non sono influenzati dal grado di civilizzazione o di cultura dei soggetti ma più semplicemente dai bisogni e dalle condizioni di vita. In particolare il libro faceva l'ipotesi di due individui, di estrazione sociale e culturale alta, che venivano isolati e posti in varie situazioni in modo da valutare i cambiamenti comportamentali. Non era certo il primo libro sull'argomento, ma la realizzazione era impeccabile e a detta di molti uno degli studi più concreti e validi che si potessero trovare, molto più realistico della maggior parte degli studi fatti fino a quel momento e venne accolto con entusiasmo dalla comunità scientifica.
La presentazione del libro, tenutasi nell'auditorium della facoltà, una moderna struttura in grado di accogliere oltre un migliaio di persone, fu un successo. Oltre alla partecipazione della maggior parte dei più autorevoli professori vi era stata una copiosa partecipazione da parte degli studenti, quanto poi su questa pesassero i tre crediti concessi in caso di presenza non era dato sapere.
Per tutto il pomeriggio la rettrice Watban aveva stretto mani e discusso, ora di quel passaggio ora di un altro, fino ad arrivare a sperare di finire il prima possibile. Non erano tutte persone gradevoli, alcuni erano intervenuti senza approfondire nemmeno la lettura del tomo, costringendola a fare dei salti mortali per spiegare il suo pensiero senza dover sbattere in faccia una tale verità, che li svergognati davanti ai loro colleghi  e dover passare con tali individui anche solo pochi minuti era uno sforzo non indifferente. Avrebbe gradito bere un po' di più di quanto aveva fatto, almeno da rendere meno fastidiose queste persone, ma il suo ruolo non glielo consentiva, come non gli consentiva di defilarsi prima degli altri, obbligandola quindi a rimanere e a regalare falsi sorrisi.
Finalmente la presentazione si concluse e quando la maggior parte dei partecipanti fu andata via la signorina Watban decise che era ora di tornare a casa. Nel parcheggio, mentre ancora assaporava, con la stessa foga di chi dopo giorni e giorni nel deserto ha finalmente la possibilità di bere, i dolci momenti di gloria venne fermata da un giovane studente: capelli neri ricci, occhi profondi e modi di fare che le ricordavano una certa odiosa persona che basava il suo successo sull'aspetto fisico.
«Il suo libro è veramente molto interessante. Vorrei aiutarla se possibile.» sorrise, convinto che sarebbe bastato quello per ottenere tutto quel che voleva.
«Certo ma non è meglio parlarne domani? Parlare di queste cose richiede tempo, se sei con qualcuno è meglio se non lo fai aspettare.»
No, era venuto da solo, una risposta che fece sorridere la signorina Watban che a sua volta rispose «Allora vieni con me, voglio farti vedere una cosa. Capiti proprio a proposito, nel mio prossimo libro avevo pensato d'inserire un nuovo soggetto nel gruppo attuale, per vedere che reazioni hanno verso gli elementi esterni.»
Aprì la borsetta mentre parlavano e impugnata la pistola stordente, che portava sempre con sé per autodifesa, colpì il ragazzo facendolo stramazzare al suolo, poi calma come se stesse semplicemente decidendo dove mettere un manichino e non una persona iniziò a trascinarlo per i pochi metri che mancavano alla destinazione finale.
Presto un'altra persona avrebbe imparato che con lei certi espedienti non servivano e l'avrebbe fatto a caro prezzo.

  
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