Pandora
– la
speranza è l’ultima a morire.
Il
cofanetto era in velluto rosso.
L’aveva
regalato mamma a Lucy, per il suo sedicesimo compleanno, forse nella
speranza
che la figlia minore iniziasse a truccarsi e a portare gioielli, come
una vera
signora. Ma Lucy rimaneva sempre Lucy, qualsiasi cosa tu le regalassi,
ed il
cofanetto era diventato lo scrigno in cui lei custodiva tutti i suoi
ricordi.
L’ho
trovato l’altro giorno, nella cassapanca di Edmund e Peter,
chissà chi l’ha
messo lì.
Non so
perché ho aperto il cassettone, soprattutto dopo
così tanti anni. Forse credevo
che tirar fuori qualcosa di loro mi avrebbe dato l’illusione
di poterli riavere
indietro, anche solo per un attimo.
La
grande cassa era, una volta, di legno lucido e scuro. Edmund e Peter
facevano a
turno per pulirla, ci tenevano tantissimo. Ora tutta la sua lucentezza
era
andata perduta, come i proprietari d’altronde, e gli angoli
erano smussati,
quasi qualcuno si fosse impegnato a limarli. C’era ancora il
lucchetto, Edmund
e Peter l’avevano attaccato quando avevano scoperto mamma a
frugarci dentro, ma
la chiave non serviva più, con quella serratura arrugginita:
mi è bastato
forzarla un po’, e si è aperta con un unico
cigolio di protesta.
Ho
sollevato il coperchio senza difficoltà, facendo attenzione
a non aprirlo con
troppa violenza, infondo era anni che nessuno lo faceva. Non
l’avevo aperto
nemmeno per il funerale: spalancare la cassa mi sembrava quasi come
scassinare
una piramide, un sacrilegio, a quei tempi. Purtroppo, zio Harold e zia
Alberta
non la pensavano allo stesso modo. Sono certa che non abbiano tolto
niente e
che non abbiano nemmeno curiosato, ma l’hanno riempita di
oggetti di Eustace e
Lucy, per evitare che occupassero troppo spazio. O per evitare di
doversi
ricordare la perdita che avevano subito, ritrovandosi in casa cose che
appartenevano al passato.
Un nugolo di polvere ha
accompagnato
l’apertura della cassapanca,
insieme
all’odore acre di chiuso. Per un attimo il polverone mi ha
offuscato la vista,
e ho seriamente creduto che non sarei più riuscita a
distinguere niente, che
tutti quei granellini fastidiosi avrebbero invaso il mondo come una
macchia
scura. Poi ho tossito un paio di volte, mi sono sfregata gli occhi e la
stanza
intorno a me era rimasta invariata, solo qualche soffice batuffolo
grigio che
danzava nell’aria stantia della stanza.
Mi sono
alzata e ho quasi corso fino alla finestra, spalancando le imposte
scricchiolanti che erano rimaste chiuse per fin troppo tempo.
Ho
socchiuso gli occhi.
La
camera era diventata improvvisamente luminosa, come in quelle mattine
primaverili in cui mamma apriva le persiane con un colpo energico e
metteva
sottosopra la stanza, cercando di ripulire il disordine di Edmund e
Peter.
Anche in quelle mattinate la polvere danzava nell’aria, dando
uno spiacevole
pizzicorio al naso e alla gola. Veniva subito cacciata via,
però, dalla ventata
d’aria fresca che le imposte spalancate lasciavano passare, e
tossire diventava
solo un modo per nascondere le risate, alla vista di tutte le schifezze
che
mamma scovava negli angoli della stanza.
Sono
tornata alla cassapanca e vi ho sbirciato dentro. Non pensavo che
dentro un
cassettone ci potessero essere tanti ricordi messi assieme. Soprattutto
se quei
ricordi erano legati a Narnia.
Dopo la
morte dei miei fratelli, avevo iniziato ad odiare Narnia. Attribuire le
colpe a
qualcun altro era più semplice che addossarsele: se la loro
fede in Narnia non
li avesse guidati su quel treno, per portare chissà quali
anelli a chissà chi,
sarebbero potuti essere ancora qui.
Ma era
ovvio che la mia convinzione non avrebbe retto a lungo: infondo, non
avevo mai
smesso di credere in Narnia, e pian piano avevo ripreso coscienza di
ciò che
ero stata. La Regina, Susan la Dolce. Non credo di aver accettato
subito la
cosa; ma, cautamente, in un lasso di tempo indefinito, un nuovo
pensiero aveva
preso strada nella mia testa:
se io fossi
stata con loro.
A quel
punto, attribuire la colpa a Narnia era inutile. Sapevo perfettamente,
l’avevo
sempre saputo, che i miei tre fratelli ora vivevano felici a Narnia, a
godersi
quella pace che tanto meritavano. Ma io? Io ero ancora qui, e tutto
questo
perché avevo dimenticato Narnia, lasciandomi trascinare
dalla corrente di
questo mondo. La colpa era decisamente mia, e non potevo più
fare nulla per
rimediare.
La prima
cosa che ho tirato fuori dal cassettone, era un libro. Ovviamente di
Edmund,
Peter non ha mai avuto una gran passione per la lettura, e i libri di
Eustace e
Lucy sono finiti in qualche scatolone abbandonato nella camera che era
dei
miei.
Non
aveva titolo alcuno e le pagine erano completamente bianche: mi sono
stupita
della singolarità di quel volume, chiedendomi da dove Edmund
l’avesse tirato
fuori. Ho sfogliato le pagine una ad una, ed ho trovato un disegno
magnifico, dipinto
proprio sull’ultima pagina: delle ninfe e dei fauni che
ballavano in cerchio
attorno ad uno scoppiettante fuoco, gli alberi tutti intorno a loro e
una
gigantesca luna piena ad illuminare la notte.
L’immagine
mi sembrava stranamente familiare, eppure nessuno dei miei fratelli
poteva
averla disegnata in quanto nessuno di loro era mai stato troppo bravo a
districarsi tra colori e pennelli, e nemmeno Eustace per quel che ne
sapevo.
Dopo la
morte dei miei familiari, ricordare qualcosa – qualsiasi
cosa – mi provocava un dolore incredibile: anche il
più
banale degli oggetti riusciva a rammentarmi momenti vissuti con persone
che
amavo e che non c’erano più. Ma ora, beh ora ci
avevo fatto l’abitudine, e
essermi ricordata di Narnia aveva decisamente aiutato.
Quindi,
quando ho visto l’illustrazione del libro, ho pensato subito
a Narnia. Possibile
che Ed, in chissà quale modo, fosse riuscito a portare via
un libro dalla
biblioteca di Cair Paravel? Da quel che ricordavo tutte le volte che
eravamo
tornati indietro non aveva nulla, con sé.
Che gliel’avesse dato Caspian,
l’ultima volta che si erano incontrati?
Probabile. Ma perché mai dargli un volume completamente
privo di parole?
L’unica
spiegazione possibile era che nel
nostro mondo, i libri narniani, non si possono leggere. Rimane solo una
traccia, un segno, a ricordarci che quel volume è
appartenuto ad un altro luogo
e che ora è qui, ed essendo qui ha perso la sua funzione.
Perché il confine tra
i mondi non è invalicabile, ma varcarlo comporta un
cambiamento.
Anche
pensare a Caspian, dopo tutto quel tempo, faceva maledettamente male.
Ci sono
stati giorni in cui ho pensato che fosse colpa sua. Se io non mi fossi
innamorata di lui, a Narnia, forse avrei sofferto meno e creduto di
più. Anche
per questo andai in America. L’intento
non era precisamente quello di dimenticarmi di Narnia, ma almeno
Caspian volevo
lasciarmelo alle spalle, dato che non l’avrei mai
più rivisto.
L’America
era stata una grande avventura, un modo per ritrovare quella
stabilità che io e
Peter avevamo perso dopo essercene andati da Narnia. Lasciare in
Inghilterra
Lucy ed Edmund non era stato facile. Loro erano sempre stati i
fratellini più
piccoli da difendere e consigliare, e lasciarli in balia di Eustace non
ci
piaceva affatto. In qualche modo, però, mi rendo conto che
Lucy ed Edmund sono
forse stati i più fortunati.
Lucy ha
sempre avuto un legame speciale con Narnia, ed Edmund non poteva certo
dimenticarsi dei suoi errori e dei suoi cambiamenti. Per loro
è stato così
semplice, continuare a credere, adattare le proprie vite a questo mondo
pur
ricordando che era a Narnia, la loro casa.
Per me e
Peter, è stato difficile. Ma Peter ha superato la prova, ed
ha continuato a
credere; io ho lasciato perdere. Perché è
più facile chiudere gli occhi e
dimenticarsi di quello che è successo, fingere di non sapere
nulla.
Ho
appoggiato il libro sul letto che era di Edmund sentendo le molle
protestare
con un cigolio, e mi sono seduta sul parquet ruvido e ormai rovinato
della
stanza. Sembravano passati secoli dall’ultima volta che avevo
messo piede nella
camera dei miei fratelli.
Da
quando sono morti, la casa è cambiata in modo radicale: il salotto è
stato ridotto drasticamente, per
farci entrare una piccola stanza per me ed un bagno, e la cantina
è diventata
la camera dei miei zii. Si sono trasferiti qui per non lasciarmi sola,
dato che
nessuno era riuscito a convincermi a cambiare casa. La cucina
è sempre la
stessa, ma sicuramente meno utilizzata: mamma amava cucinare, al
contrario di
zia Alberta che compra tutti i giorni qualcosa di già pronto
e da scaldare.
L’unica
cosa che è rimasta uguale è il piano superiore.
Ci sono ancora le nostre
camere, ed il bagno, con il lavandino che perde; nessuno si
è preso la briga di
aggiustarlo. Tutti i mobili e gli armadi, però, sono coperti
da grandi teloni
bianchi, i letti non hanno più né lenzuola
né coperte, il cuscino di Lucy è
sparito ed i cassetti sono vuoti, come le mensole e le scrivanie.
Ma quel
giorno avrei anche potuto credere che papà avesse tolto
tutto perché doveva
imbiancare; capitava che, ogni tanto, mamma lo costringesse a dipingere
qualche
stanza. Mi ricordo quella volta che doveva ridipingere la stanza da
letto di Ed
e Peter di blu, e Lucy ha voluto a tutti i costi aiutarlo.
Avrà avuto sì e no
cinque anni. Immergeva completamente le mani nella tanica colma fino
all’orlo e
poi le appoggiava al muro, lasciando le impronte. Anche Edmund si era
unito,
dopo qualche minuto di protesta, e aveva cominciato a disegnare omini
stilizzati sopra al suo letto, con il pennello fine che usavo per le
lezioni di
arte, mentre papà, in piedi sulla scala, colorava il
soffitto.
Avrei
anche potuto crederlo. Mi sarebbe bastato chiudere gli occhi e fingere
di essermi
addormentata sul divano: li avrei sentiti ridere dal piano di sopra, e
magari
mamma sarebbe apparsa proprio in quel momento sull’uscio con
i sacchetti della
spesa e allora Peter sarebbe corso ad aiutarla, mentre Edmund e Lucy
avrebbero
continuato a schiamazzare e a schizzarsi vernice. Poi mamma avrebbe
appoggiato
la spesa sul tavolo della cucina, sarebbe venuta a posarmi una carezza
delicata
sui capelli e avrebbe salito le scale, per osservare come procedevano i
lavori;
avrebbe trovato Edmund e Lucy completamente ricoperti di tintura e
magari papà sarebbe
spuntato dalla porta del bagno e l’avrebbe salutata con una
risata, alla vista
della sua espressione furiosa. L’avrei sentita lamentarsi dei
vestiti da
buttare, e degli schizzi di vernice sui mobili.
Ma era
proprio questo il problema. Sentire.
C’era
silenzio, aleggiava su tutto il piano; era innaturale, molto
più dell’assenza
di oggetti o di persone. Non risuonavano più le risate di
Lucy e Peter, i
borbottii contrariati di Edmund o i litigi giocosi dei miei. Non
c’era più
assolutamente nulla, a parte il
mio
respiro quasi singhiozzante; solo a quel punto mi sono resa conto di
essere sul
punto di piangere. Così ho frugato un altro po’
dentro la cassa, senza cercare
nulla di particolare.
Ho
trovato la torcia di Edmund, e l’ho appoggiata accanto al
libro, dopo aver
constatato che non funzionava più; ma, che mi aspettavo?
Erano anni che nessuno
la tirava fuori di lì. Se Ed l’avesse saputo si
sarebbe arrabbiato a morte.
Un
oggetto luccicante ha attirato la mia attenzione, ma era sul fondo
così ho rovistato
tra i vari oggetti, scostandoli con cura per timore che si
polverizzassero tra
le mie dita, un po’ perché mi sembravano quasi dei
manufatti antichi, un po’
per paura di scoprire che in realtà anche questo era solo un
sogno e che non
avrei mai avuto il coraggio di salire le scale ed aprire la porta della
stanza.
Ho
afferrato l’oggetto, scoprendo che in realtà era
uno specchio, che mi era
sembrato luccicante solo perché aveva probabilmente riflesso
la luce del sole
che entrava dalla finestra. Un frammento di specchio, per la
precisione. Era
ancora lucido ed affilato ai bordi; nemmeno un graffio ne interrompeva
la superficie
liscia. Me lo sono rigirata tra le mani per un minuto buono, poi ho
sentito la
porta al piano di sotto sbattere.
- ciao
Susan! – ha gridato zia Alberta, ed io ho abbandonato il
frammento sul
pavimento e sono corsa giù di sotto, inciampando sui
gradini. Anche Edmund
inciampava sempre, soprattutto la mattina appena sveglio.
-
buongiorno, zia Alberta – le ho risposto, con un sorriso
tirato. Lei mi ha
sorriso di rimando, appoggiando frettolosamente i giornali che aveva
comprato
sul tavolo della cucina.
- che
stavi facendo? – mi ha domandato incuriosita, forse notando i
vestiti sporchi
di polvere.
- nulla
di particolare .. – ho risposto, ma lei si era già
disinteressata
all’argomento.
- mi
spiace non poter rimanere a farti compagnia, cara, ma la signora Miles
mi
aspetta per il thè. Vuoi venire anche tu? Così
non sarai costretta a rimanere
qua da sola .. –
- no,
zia Albera, sto bene così, grazie – le ho
risposto, e lei mi ha lanciato
un’occhiata dubbiosa. Poi ha alzato le spalle con fare
rassegnato, ha controllato
di avere tutto nella borsa ed è uscita di casa, con
un’ultima raccomandazione:
- se hai
bisogno, chiamami pure! Il numero della signora Miles è
segnato sul blocco
accanto al telefono! –
Ho
chiuso l’entrata, e sono passata in cucina a prendere un
bicchier d’acqua,
prima di salire nuovamente le scale con passo cauto. Avevo lasciato la
porta
socchiusa, ed un raggio di luce illuminava il pavimento polveroso del
corridoio. Faceva
uno strano effetto.
Una
volta rientrata ho ripreso in mano lo specchio e ho rimirato quel poco
d’immagine di me che la superficie rifletteva. I miei stessi
occhi mi
osservavano, leggermente arrossati – un po’ per la
polvere, un po’ per
l’incredibile voglia di piangere.
Peter
aveva sempre detto che ho gli occhi uguali a quelli di mamma. Beh, a
parte una
volta in cui mi disse che li avevo simili a quelli dell’Husky
del nostro ex
vicino di casa. Ma dopo che mamma l’ebbe messo in punizione
per una settimana
non lo disse più. Mi ricordo che Edmund lo prese in giro
tutto il tempo perché,
per una volta tanto, non era lui a non poter uscire di casa o ascoltare
la
radio.
Zio
Harold ha gli stessi occhi della mamma. Non ci avevo mai fatto caso
prima, gli
occhi della mamma non erano simili a quelli di nessun altro, per me. Ma
sono fratelli,
non avrebbe dovuto sorprendermi più di tanto; anche Lucy e
Peter li avevano
uguali, probabilmente ereditati da nonno Henry.
Ma un
conto è paragonare mamma a zio Harold, un altro è
farlo con zia Alberta.
Zia
Alberta non ha nulla, di mia madre. Non ha lo stesso sorriso,
né lo stesso tono
di voce. Non ha i suoi modi di fare, né le sue espressioni.
Se ottengo un
successo non lo festeggia come farebbe mamma, se porto a casa un
ragazzo non
gli fa il terzo grado, se rompo un vaso, non mi urla addosso infuriata,
né mi
mette in punizione.
Eppure,
succede che talvolta io mi ritrovi a cercare in lei qualcosa della
figura
materna che ho perso, pur sapendo che non vi troverò nemmeno
una somiglianza.
Lo
specchio ha riflettuto la lacrima che è scesa lungo la mia
guancia con apatica
freddezza.
Ma nello
specchio non ero io, a piangere. Era la me stessa del passato, la
persona che
ero stata prima di rinnegare Narnia. Quella nello specchio era una
Regina, ed
io non ero nient’altro che l’ombra di una donna
scomparsa da tempo, il
personaggio spento di un mondo che era solo il riflesso opaco di un
altro. E
c’era un semplice motivo, per spiegare
tutto ciò: anche quello specchio, quel frammento di vetro,
veniva da Narnia.
Avevamo
un corridoio, a Cair Paravel, fatto solo di specchi. Era corto e
stretto, ed io
e Lucy ci divertivamo a far volteggiare le gonne ogni qual volta
passavamo di
lì, per il gusto di veder sbocciare tantissimi fiori di
stoffa colorata anche
nei nostri riflessi. È stato distrutto, come ogni altra
parte di Cair Paravel,
dalle catapulte telmarine. Chissà che spettacolo, tutti quei
frammenti di
specchi che danzavano in aria, brillando sotto il sole, per poi cadere
a terra
con un suono cristallino, simile a pioggia.
Quella
minima parte di specchio l’aveva raccolta Peter, quando
eravamo tornati a
Narnia la seconda volta. Stava frugando tra i cespugli – o
qualcosa di simile –
e si era tagliato un dito incontrando i bordi ancora affilati
dell’oggetto. E
ora quel frammento era lì, una sottospecie di reliquia
sopravvissuta a mille
intemperie e ancora incredibilmente intatta.
Ho
appoggiato anche quello accanto al libro e alla torcia. Non sapevo se
era il
caso di continuare a tirar fuori altri ricordi, visto
l’effetto che mi
facevano. Ma ormai avevo cominciato, e chiudere la cassapanca in quel
momento
avrebbe significato non trovare mai più il coraggio di
riaprirla.
L’oggetto
che ho tirato fuori subito dopo era un barattolo di vetro, la cui
superficie era
opaca, sporca e graffiata; non si distingueva nulla di ciò
che vi stava
racchiuso. Era chiuso da un tappo di sughero che ho fatto fatica a
togliere
poiché si era incastrato. Al suo interno, c’erano
i corpi rinsecchiti di
diversi scarafaggi.
Ho
arricciato il naso, disgustata, pensando che solo Eustace avrebbe
tenuto degli
scarafaggi nei barattoli. E, infatti, scuotendo leggermente il
barattolo, sotto
i corpicini mummificati, c’erano gli spilli che mio cugino
usava per infilzare
gli insetti.
Eustace,
nonostante Narnia l’avesse cambiato abbastanza da renderlo
simpatico ai nostri
occhi, non perse mai questa sua malsana passione ed Edmund si
ritrovò a dover
convivere con l’inquietante ticchettio delle zampette degli
insetti sul vetro
dei barattoli per interi mesi. In seguito, nostro cugino ebbe la
fortuna di
incontrare Jill Pole, che gli rivoluzionò non solo la vita
ma, soprattutto, la
stanza.
Non ho
mai conosciuto Jill. Probabilmente ero troppo impegnata con le feste e
gli
inviti a cena, per curarmi della nuova fidanzatina di mio cugino. Lucy
la
descriveva sempre come una persona meravigliosa, con un carattere forte
e
determinato.
L’ho
vista una sola volta, e di sfuggita per di più, alla festa
per i diciott’anni
di Edmund. Pensandoci adesso, Ed dev’esserci rimasto male
quando sono fuggita
via di corsa con la scusa di un appuntamento importante. Stavo per
l’appunto
evitando tutti gli amici e i parenti chiudendomi la porta alle spalle,
quando
l’ho vista su vialetto di casa. Mi è sembrata
fragile e delicata, al contrario
di tutti i discorsi di Lucy, con quegli occhioni blu e i capelli
biondi, fini. Aveva
delle spalle gracili, mi ricordo che Eustace ci aveva passato sopra un
braccio.
Quando
lei mi vide, mi regalò un timido sorriso, e fece per
presentarsi; ma Eustace la
trascinò fino all’entrata, superandomi senza
nemmeno guardarmi.
Immagino
di essermelo meritata.
Ho
richiuso il barattolo, appoggiandolo sul letto accanto al resto.
Mi
sembrava quasi di star frugando nella borsa di Mary Poppins: ogni
oggetto che
trovavo si rivelava speciale ed unico, ed io mi sentivo sempre
più vicina alle
lacrime.
Un
quaderno di appunti macchiato d’umidità e da fiumi
di inchiostro che narravano
le nostre avventure a Narnia.
-.. a quel punto Susan mi ha detto: “Peter,
solo perché un uomo vestito di rosso e con la barba bianca
ti ha regalato una
spada, non vuol dire che tu sia un eroe!” Ma se volevo
proteggere lei e Lucy, e
riportare a casa Edmund, non potevo far altro che diventarlo.. -
La foto
del Natale passato a casa del professor Kirke, l’Armadio
dietro di noi con
accanto un albero addobbato.
-
“fate un bel sorriso!” li
incoraggiò il fotografo. Tirarono tutti fuori il loro
sorriso migliore, ed
anche Edmund si trattenne dal fare una boccaccia. Solo Mrs. McReady
fece
un’espressione seccata, ritta in piedi accanto al Professore,
domandandosi per
l’ennesima volta per quale assurdo motivo dovevano fare la
foto di fianco ad un
armadio. -
Il
pallone da football che Peter si era fatto firmare da un giocatore
professionista in America. Chissà dov’era finito
quello di Edmund.
-
“uah! Hai visto Susan? Mi ha
pure messo la dedica!” s’entusiasmò il
biondo “Dici che dovrei comprare un
altro pallone e farlo firmare anche per Ed? .. solo che a lui il
football non
piace..” si chiese subito dopo, osservando ammirato il
pallone. Susan sorrise. “il
football non gli piace, ma credo apprezzerà comunque il
pensiero” -
Il
modellino di treno che i miei avevano regalato a Eustace per Natale,
l’anno in
cui gli zii ospitarono Ed e Lu.
-
“cosa dici dovremmo comprare a
Eustace?” domandò Susan, lo sguardo che osservava
i diversi modellini di
macchine , aerei, treni e navi esposti nella vetrina del negozio. “che ne dici se
non gli compriamo niente?”
borbottò contrariato Peter, che ancora non credeva che il
cugino fosse cambiato.
“oh, Peter, non possiamo non regalargli nulla dopo che gli
zii hanno ospitato
così a lungo Ed e Lucy” lo rimproverò
la madre. “aah, quanto vorrei che
qualcuno mi regalasse quel trenino!” sospirò
sognante Andrew, indicandolo
attraverso il vetro. Helen gli lanciò un’occhiata
di traverso. “vorrà dire che
gli compreremo quello” decise convinta, entrando poi
baldanzosa nel negozio,
seguita dallo sguardo sorpreso dei due figli maggiori e quello offeso
del
marito. –
Sembravano
passati pochi attimi, da quei giorni felici. Eppure, paradossalmente,
mi pareva
anche che fossero passati secoli.
È
stato solo
quando ho tolto un grosso telo tutto macchiato dal fondo del cassettone
che ho
trovato il cofanetto.
Era in
velluto rosso, non troppo piccolo ma nemmeno grande, con una piccola
serratura
dorata a sigillarlo. Lucy teneva sempre la chiave al collo con una
catenina,
quasi fosse la cosa più preziosa che possedesse.
Eppure,
quando ho tentato di aprirlo, s’è aperto senza
alcuna resistenza, lasciandomi
osservare con sguardo stupito il suo contenuto.
C’era
una penna viola mezza scarica, una scatoletta trasparente con dentro
gli
orecchini d’oro bianco che papà aveva regalato a
Lucy sempre per il suo
sedicesimo compleanno, qualche foglio piegato e una boccetta.
La
stessa boccetta che, anni addietro, Babbo Natale aveva donato a Lucy.
Il
liquido al suo interno s’era esaurito quando aveva passato il
confine tra i due
mondi: in questo mondo, i Fiori di Fuoco non esistono e la pozione di
Lucy
derivava proprio da quelli. Al suo posto, però, era apparsa
una sottile
polverina dorata.
Accanto
alla boccetta, l’orologio a cui Edmund era tanto affezionato.
Non ci ha mai
voluto rivelare dove l’avesse comprato o chi
gliel’avesse donato, ma non se ne
separava mai, ed ogni tanto lo tirava fuori di tasca e seguiva il
contorno
delle lettere sul retro con aria pensosa: “non si
può tornare indietro, si può
solo andare avanti”.
Le
batterie non si erano mai scaricate, nemmeno una volta. Nemmeno ora,
hanno
smesso: il ticchettio sommesso ha invaso la stanza, sorprendendomi.
L’ho
preso in mano, fissando stupita le lancette argentate che si muovevano
lungo il
quadrante: com’era possibile?
Lo
specchio che stava al centro del lato sollevabile del cofanetto era
occupato da
tantissime foto: foto di Lucy con le sue amiche, dei nostri genitori,
di Jill e
Eustace .. al centro di tutte queste, però, primeggiava la
nostra: la stessa
che anch’io tenevo sul comodino, quando ero in America.
Seduti
su quella panchina della stazione, stretti nelle nostre divise
scolastiche, non
eravamo quattro sovrani, solo quattro ragazzini che vivevano nel mondo
sbagliato.
E,
appiccicato con lo scotch in un angolo della foto, un foglietto bianco
a
quadretti con la calligrafia ordinata di Peter ad occuparlo: la speranza è l’ultima a
morire.
NdA~
Questa
cosa informe non ha senso, eppure la voglio pubblicare lo stesso
perché ci
tengo.
Ci tengo
perché immedesimarmi in Susan non è stato affatto
facile, eppure ho voluto
provarci lo stesso.
Perché
è
un mese che sono dietro a scriverla, e finalmente l’ho
conclusa.
Non so
se è bella o brutta, questo me lo dovete dire voi. A me
piace per il semplice
motivo che ci ho messo l’anima.
Non so
se Susan, alla fine, sia tornata a Narnia o no. Ma credo che, comunque,
sia
tornata a crederci.
“Quando
si è Re o
Regine di Narnia, lo si è per sempre.”
L’orologio
di Edmund ed il trenino di Eustace sono oggetti già apparsi
nella mia raccolta
“N o v e n a”.
Sappiate
che i tempi verbali di questa storia mi hanno mandato in tilt il
cervello
almeno venti volte, e ringrazio tutti gli dei del cielo che hanno
inviato la
Lily a farmi da Beta.
Grazie,
Zuccherino <3
Null’altro
da dire se non che, come sempre, recensioni anche negative sono ben
accette u.u
See
Ya! <3
_ L a l a